INCIPIT
La vita di un poeta è già di per se
stessa figlia della memoria senza tempo, le sue creazioni sono dei
segreti rivelati oltre la consistenza individuale del loro artefice, il
quale, in rapporto alla propria opera, può dirsi increato
Io sono l’increato di Dio
quello che non ebbe la sua anima e somiglianza.
Io sono quello che è sorto dalla terra
e che non ebbe in sorte altro
dolore se non la terra.
Io sono la carne folle che freme nell’impubere
adolescenza ed esplode
sull’immagine increata.
Io sono il demonio del bene
e il predestinato del male,
ma nulla io sono……
(O incriado, da Forma e Exegese, 1935)
IL POETA DELLA LONTANANZA
Marcus Vinicius de Moraes, nasce all’alba del 19 ottobre del 1913 a Rio
de Janeiro, da Lydia Criz de Moraes e Cleodoaldo Pereira da Silva Moraes.
A 18 anni forma, con i fratelli Paulo e Haroldo, un complesso musicale
col quale si esibisce in feste private.
Esordisce come autore di canzoni con due brani, Loura ou Morena e
Cancao de Noite, che ottengono un buon successo.
Due anni dopo il giovane “cantante”, che fa innamorare le ragazze alle
feste, pubblica il suo primo libro di poesie: “O caminho para a
distancia”, che già dal titolo spiega, con assoluta precisione,
questo atteggiamento d’essere sempre “oltre”, non nel senso di un
distacco intellettualistico dalla vita, ma al contrario nella
dispersione di un “Io” invadente, non armonizzabile con il creato, uno
sbaglio di Dio che avrebbe dovuto riposarsi non uno ma due giorni:
Avresti dovuto essere cancellato dal libro delle origini,
o sesto giorno della creazione.
Difatti, dopo l’ouverture del fiat e la divisione di luci e tenebre
e dopo la separazione delle acque e dopo la fecondazione della
terra
e dopo la genesi dei pesci e degli uccelli e degli animali della terra
meglio sarebbe stato se il Signore delle sfere avesse preso riposo.
In verità l’uomo non era necessario….
……………………………………..
…Avesse riposato il Signore, semplicemente non esisteremo
Saremo forse poli infinitamente piccoli di particelle cariche
in caduta invisibile sulla terra
…………………………………..
…Sarebbe ineffabile bellezza e armonia nella piana verde della terra e
delle acque in connubio
la pace e il potere maggiore delle piante e degli astri in colloquio
la purezza maggiore dell’istinto dei pesci, degli uccelli e degli
animali in copula.
Al contrario ci tocca essere logici, frequentemente dogmatici
ci tocca affrontare il problema delle collocazioni morali, essere
sociali, coltivare mode ridere senza voglia e persino praticare l’amore
senza voglia.
Il mondo, con le sue regole accademiche. l’uso di cornici e di parole
prestabilite per l’ordine delle generazioni, tenterà per un attimo di
soffocare il “vivere in distrazione” di Vinicius, respingendolo ad
assumere un ruolo meno imbarazzante per i suoi critici, obbligandolo,
per un breve periodo, a rinunciare alla provvisorietà, a mettere radici
nella cultura con libertà di ismi: modernismo, surrealismo, ma con il
limite dell’ufficialità.
Ed è così che Vinicius, riposta la chitarra, non canterà fino al 1950,
quando, diventato nonno, con tre matrimoni consumati, decine di libri
pubblicati, una brillante carriera di diplomatico alle spalle, si
ritrova davanti a se stesso.
ULTIMO SEGREL
In una brillante prefazione all’unico libro di poesie e canzoni di
Vinicius pubblicato in Italia, dalla Vallecchi, Luciana Stegagno Picchio
ne indovina, sin dalle prime righe, quest’anima vagabonda e
giullaresca:“La casta dei poeti laureati, dei trovatori dilettanti mal
tollera anche oggi la presenza nelle proprie file di giullari
professionisti, di poeti cantautori capaci di esibire se stessi e la
propria arte davanti ad un pubblico da divertire.
Specie quando il transfuga non sia un qualunque poeta della domenica, ma
uno dei “grandi” di una letteratura; con tutte le carte in regola su
tuttot il profilo della professionalità ( qui in accezione elitaristica).
Forse Vinicius è stato l’ultimo “segrel (menestrello), e per
questo la sua platea era vasta come il mondo. Giullare di Dio o del
popolo non fa differenza.
Anche perché, per Vinicius, Dio e popolo coincidono e il suo tendere
all’uno o all’altro fino all’annientamento era poi sempre e solo
verifica di una solitudine umana che mai raggiunge l’altro, che mai,
quale che sia la droga, Dio, donna, musica, poesia, alcool, consente
all’uomo monade, all’uomo isola di uscire da sé e di sconfiggere
l’angustia-angoscia che è la paura della morte.
Giullare, Vinicius lo era nell’animo, in quella sua arte disinteressata
che non occupa mai nella vita il posto d’onore, posto consacrato al
gusto di viaggiare. Alla mania di scoprire, al desiderio di passare la
morte senza paura”
IL
NONNO BAMBINO
Dal suo esordio giovanile come cantante al più consistente ritorno alle
scene come nonno bambino, la sua vita fu di un nomadismo totale, forse
per sottrarsi all’obbligo imbarazzante di costruire la propria statua,
al dovere di fissare i punti cardinali del proprio mondo creativo.
Al poeta non interessa il tempo, per lui, come per molti latino
americani, la storia scorre fra due o più infiniti e le parole
raccontano solo attraverso il velo della finzione:
Dovrebbe esserci in me un vago desiderio di donna e al tempo stesso
di spaziare. Orologi dovrebbero battere
alternamente come buoni orologi mai precisi.
Io potrei stare tornando da, o andando a, non avrebbe la minima
importanza.
L’importante sarebbe sapere che io ero presente
a un momento senza storia, seppure difeso
da muri, case e vie (e suoni. Specialmente
quelli che fecero dire a uno speaker principiante, in postumo
omaggio”avete ascoltato un minuto di silenzio”) capaci di testimoniare
per me della mia immensa e inutile poesia.
Questo lungo peregrinare nel reale e nell’immaginario fissa la propria
dimora che, come tutti sanno, è
una casa molto carina
senza soffitto senza cantina
Sia che studi nel 1938 a Oxford, collabori come critico cinematografico
a molte riviste, parta nel 1946 per Los Angeles in qualità di vice
console del suo paese, sceneggi l’Orfeo negro per il film girato in
seguito da Marcel Camus,Vinicius coltiva la sottile arte della fuga,
sempre in là, disponibile solo , o a vivere, o a cantare il non esserci,
la lontananza.
Scrive a questo proposito Ungaretti: “La lontananza, l’assenza, una
malinconia, crollo e e inabissarsi, eppure rimasta a galla quasi lieve
nebbia, velatura appena distinguibile, tale è, nonostante attorno
imperversi il solleone, la fonte d’ispirazione della poesia di Vinicius,
e una sensualità. Una sensualità che lo svincola da tutto, da se stesso,
e, mentre dura, dal suo atto stesso, che l’immedesima, amando nell’altra
persona.
Poesia d’amore, filastrocche d’amore, silenzio d’amore, e echi, sorpresa
e smarrimento, attimi mentre incessanti vanno succedendosi e divengono
via via eco, la felicità del cantare d’essere stato, con l’offerta
attiva del totale suo essere, l’attimo di una realtà afferrata, ridotta
a sostanza propria, consumata, sparita nella sostanza propria.
Conosco bene il significato di lontananza e quello
di assenza, e sono un
medesimo significato, l’una necessariamente compenetrandosi nell’altra,
significato di macerazione carnale dell’anima ed ogni impulso che animi
carnalmente l’anima: ma iu deserto che mi ha insegnato a provarne la
scottatura tremenda, della lontananza, dell’assenza, ma dagli abbagli
dell’immenso vuoto, era miraggio, dolcissimo e acrissimo, il paese dei
miei, tutto misura, dove reo nato.
Vinicius sa agire invece dentro il buio di un folto scoppio e s’inoltra
nella demenza di quel vegetare e vi ritorna e ritorna a smarrir visi, e
nel suo andirivieni ostinato in sé non rinviene se non quella poesia
sottovoce che gli sgorga dalla carnalità dell’anima e gli narra che no è
quello il luogo suo sebbene idolatrato, e che non sa, non saprà mai
dov’è."
Giuseppe Ungaretti scoprì il genio di Vinicius già nel 1946 curando per
“Poesia” ( numero doppio III/IV, quei “Quaderni internazionali” diretti
da Enrico Falqui ed accompagnati ai fascicoli di “prosa” diretti da
Gianna Manzini), un ampia antologia della poesia brasiliana nella quale
tradusse uno dei più profondi e perfetti autoritratti che il poeta
brasiliano seppe scrivere di se stesso: Vita vissuta.
AUTOBIOGRAFIA POETICA
Vale la pena soffermarsi su questo componimento perché spesso gli
artisti celano le proprie intenzioni dietro specchi per le allodole,
sospinti , ora da pudore, ora da eccesso di virtuosismo alchemico,
rendendo molto ardua la reperibilità, ai fini di una maggiore
comprensione, della loro poetica.
In “Vita vissuta” non si da spazio a inganni di sorta.
La sua struttura prevalentemente interrogativa composta da precisi
quesiti, “chi sono” “da cosa vengo?”, “qual è il mio destino’”,
permette al lettore d’interrogarla, di esigere una esemplare chiarezza.
Soffermarsi su questa poesia è un’occasione rara d’intimità, occasione
che né l’intervista né il bel “pezzo” scritto da un amico possono in
alcun modo surrogare.
In essa forse non appare a prima vista quella bonaria umanità alla quale
erano abituati i suoi fans, non si sente quell’aria impregnata di whisky
e sigarette delle sue migliori serate, ma, quegli infiniti dubbi che il
suo canto malinconico e struggente sapeva far nascere all’improvviso in
un balenare contraddittorio di sentimenti, di fratellanza sociale e di
amarezze tutte individuali.
Chi sono io se non un grande
sogno oscuro di faccia al sogno?
Il primo verso è l’immagine stessa della sua sapienza, e il contenitore
sferico dei versi che seguiranno, non a caso, possiede un fratello
analogo dalla parte opposta, ovverosia nell’ultimo verso della
composizione:
Che cosa sono io se non me stesso
di faccia a me
E’un verso che è l’essenza stessa di un’arte poetica non condivisa dal
solo Vinicius ma da molti poeti latino americani, primo fra tutti da
Borges che, in una poesia scritta trent’anni dopo, riprende questo
stesso tema;:
A volte nelle sere una faccia
ci guarda dal fondo di uno specchio
l’arte deve essere come quello specchio
che ci rivela la nostra stessa faccia.
La vita che non è forse sogno ma che è conoscibile come sogno, lo
specchio che rimanda la propria immagine che diventa l’immagine del
mondo, sono i preziosi tesori che Cervantes e Calderòn hanno lasciato in
eredità a questi figli che non possono negarne la paternità!
E Don Chisciotte è così presente anche nella seconda quartina che sembra
di sentirgliela recitare sopra lo sgangherato destriero:
Da che cosa vengo io se non dall’eterna camminata di un ombra
che in presenza delle forti chiarezze si distrugge
ma che offre nella sua traccia indelebile riposo al volto del mistero
e per forma ha la prodigiosa tenebra informe?
La dipendenza da Cervantes ridiviene pregnante quando interroga più
avanti il destino, ritornando in se medesimo, alla propria malattia, al
male cosmico in cerca di guarigione nell’annientamento di sén nella
consapevolezza della vita testimone di morte.
Quale destino è il mio se non d’assistere al
mio destino
finchè sono in cerca del mare che m’impaura
anima che sono clamando il disfacimento
carne che sono nell’intimo inutile della preghiera?
Davanti al poeta
e all’uomo rimane solo un punto vuoto che giustifica qualsiasi finzione,
qualsiasi movimento di desiderio, ma che nello stesso tempo ne fagocita
la realtà. Rubandone la vita e lasciandone libera l’ombra, la parvenza,
l’illusione.
Così l’amore per il quale Vinicius diventò famoso in tutto il mondo non
è per lui se
……………..non la tomba
il segno bianco della rotta del mio pellegrinare
colei dalle braccia dove cammino verso la morte.
Ma ho vita soltanto da quelle braccia?
la materia di questa immensa malinconia non veste però abiti da parata:
è sogno. È fantasma di pensiero, è nulla.
La sua opera poetica non solo fa innamorare, e struggere, e spesso
ridere di saggezza, ma per arcano miracolo non si concede al pessimismo.
La grande differenza, incomprensione fra europei e latino americani è
forse tutta qui: noi siamo oscenamente logici, denudiamo gli oggetti del
sapere, smontiamo i nostri giocattoli per vedere come sono fatti, loro
si accontentano di
rappresentarli
anche quando, come nella canzone della casa inesistente in via dei matti
numero zero. Si trovano davanti all’inconoscibile
Quale è il mio ideale se non fare del cielo poderoso la lingua
della nube la parola immortale del suo segreto
E delirantemente dal fondo dell’inferno proclamarlo
una poesia che si espande come sole o come pioggia?
“Vita vissuta”,
questo diario lacerante, dovrebbe finire qui perché è proprio nella
rappresentazione, nel potere magico della lingua che evita spiegazioni
deduttive che l’esperienza individuale può essere vista da lontano o da
vicino, secondo il grado di sensibilità anche degli altri uomini,
uscendo in tal modo dal gioco degli specchi.*
La scelta di “rappresentare” al posto di “spiegare” apparteneva
d’istinto alla sua natura di uomo di spettacolo, a quella regola che
suggerisce all’attore, cantante, poeta, di non pensare al pubblico al di
là dei riflettori, di chiudersi in una feconda intimità, mentre il
suono degli applausi ha un effetto purificatore e liberatorio.
Inoltre l’America è il Nuovo Mondo dove la
rappresentazione
tende sempre a eludere figurazioni precise, come accade a Macunaima, il
personaggio del
romanzo di Mario
De Andrade che nel 1982 ha profondamente meravigliato il pubblico
italiano in una memorabile riduzione teatrale del gruppo De arte pau
Brasil.
Macunaima non si lega a niente di preciso, non si fa delimitare, esce
dai canoni a noi cari dell’eroe e dell’anti eroe, per seguire un suo
fato tragico, di rappresentazione totale, cosmica: Macunaima è anima
riflessa di un popolo
Che cos’è il mio ideale se non il supremo impossibile
Colui che è e Lui solo, mio affanno e mio anelito
che cos’è Lui in me se non il mio desiderio d’incontrarlo
e incontrandolo la mia paura di non riconoscerlo?
Questa poesia appartiene al periodo spiritualista del poeta, seguito
dopo un’adesione quasi totale al materialismo marxiano, e quindi questi
ultimi versi non si amalgamo troppo facilmente all’immagine del
cantautore così come lo si ricorda abitualmente, ma rimangono, ciò
nonostante, fra i
suoi più profondi e coraggiosi
IL CANTANTE
E’ melhor ser alegre que ser triste
A alegria è la melhor coisa que existe
Ecco l’uomo dietro gli occhiali neri cantare con voce “provvisoria”,
con un’anima grande come l’universo e una dolcezza profonda come
l’oceano, una musica venuta da Bahia “bianca di pelle in poesia” e “nera
nell’anima e nel cuore” un samba:
Fare un samba non è una barzelletta
chi fa un samba così non è un poeta
il samba è preghiera, se lo vuoi
samba è la tristezza fatta danza
tristezza che ha sempre la speranza
di non essere triste prima o poi
Metti un poco d’amore dentro un ritmo
e vedrai che nessuno al mondo vince
la bellezza che c’è in un samba
Fa uno strano
effetto un grande poeta che sussurra parole importanti con l’aria di uno
che sia li per caso, non investito da nessuna professionalità
codificata, uno che visibilmente pensa ai fatti suoi, ed è lento,
terribilmente lento, e se ti vuoi mettere a fare il critico, finisci con
un pugno di mosche in mano.
Le evocazioni sono OK, ma il samba lo avevi sentito cantare molto
meglio: come è possibile che, perdendo un qualsiasi appoggio credibile,
tu stia già volando, sia già preso nella tua e nella sua commozione?
La verità è che stai partecipando al miracolo delle
finzioni.
Quel signore che ti stà davanti non è un vero cantante., non è forse
neanche un vero brasiliano, , come capita a chi è nato come lui in una
famiglia aristocratica e cosmopolita, con origini addirittura tedesche.
E’ stato un grande poeta ma in quel momento se la spassa e fa la la
parodia di se stesso, ma allora chi è?
E’ un “provvisorio” che intesse nel nulla trame visibili, il sarto
imbroglione della favola del Re nudo, l’incantatore per un attimo da
vita alla felicità:
la felicità è come la piuma
che il vento porta per l’aria
vola lieve
ma ha una vita breve
bisogna che il vento non cada
L’uomo che canta la brevità e la mancanza di significato di tutto si può
permettere di uscire continuamente dalla parte, fidandosi del proprio
senso dell’equilibrio, forse affinato nei lunghi anni in giro per il
mondo come diplomatico, può permettersi senza calare d’intensità di
benedire i
suoi amici
mescolando discorso parlato e canto:
Benedizioni, grandi sambisti del mio paese bianco, nero
mulatto, bello e liscio come la pelle della dea Ozum
benedizione, Antonio Carlos Jobin, compagno
di canzoni e caro amici che tante sambe hai
viaggiato con me e ancora tanto viaggerai
Benedizione, Baden Powel, compagno, nuovo amico
nuovo che hai fatto questo samba con me,
benedizione a te!
Benedizione Chico Barque de Holanda, tu che non chiedi, comandi, ti che
hai nel cuore una banda
tu che appena parti, sei già tornato!
Benedizione Endrigo tu che sei e sei stato tanto amico.
Benedizione Ungaretti, mio paparino e frstello!
Questo elenco di
persone in carne e ossa snocciolato come un rosario, produce l’effetto
di portare al centro di questa grande e ineffabile pantomina il segno
dell’amicizia, uno scambio reale di umanità che, pur non cancellando la
grande malinconia filosofica del samba, ne attenua le conseguenze.
Evitando, come si era già detto, la caduta pessimistica.
GLI AMICI
Ma chi sono questi amici importantissimi per la carriera di Vinicius?
Vediamoli uno per uno.
Antonio Carlos Jobin,
Sensibilissimo musicista brasiliano, viene chiamato per la prima volta
da Vinicius nel 1956 per la rappresentazione teatrale dell’Orfeo. Quello
stesso testo che, per la regia di Camus, vinse La Palma d’oro a Cannes e
l’Oscar come migliore film straniero.
Con Jobin Vinicius scrisse la sua prima bossa nova, Chega de saudade
(basta con la nostalgia), che verrà cantata da Joao Gilberto.
Scrive di questa esperienza Leone Piccioni: "occorreva per questa musica
nuova sul fondo dell’antica musica brasiliana portoghese sentita su basi
popolari da tutta la gente, dal samba, con i suoi legami al fado di
sempre, ecco, insieme un inserimento ritmico certamente acquisito dal
jazz
e forse dal più
intellettuale jazz freddo, dell’immediato dopoguerra con insieme una
“negritudine” nuova nei versi, nell’implicazione sentimentale
nell’invito stesso alla danza, restando totalmente musica brasiliana.
Gilberto fu l’’interprete vero, la voce giusta della modernità
apparentemente semplice e lineare e poi piena di nuove armonie e di non
facili accordi”
Baden Powel
Premiatissimo e conosciutissimo musicista di colonne sonore, inizia la
sua collaborazione con Vinicius nel 1972
La versatilità e la sapienza di Baden apportano alle parole del poeta
uno spessore nuovo che determina la nascita dell’altro samba,
recuperando la magia e l’ambiguità dalla macumba al condomblé.
Scrive Leone Piccioni: “dopo aver vissuto in pieno l’esperienza del
condomblé, Vinicius e Baden si rinchiusero in casa con le rispettive
mogli di allora: quanti e continui e non tutti facili da registrare
cambiamenti!
E con casse di Whisky.Nacque il disco “ Os altro sambas”, inciso
volutamente, in modo de professionalizzato, pur non essendo nessuno dei
due cantante deciso d’inciderlo da loro, piuttosto che far ricorso a
cantanti professionisti.
Anche Joao, del resto. Era di questa razza: cantava con una qualità
nuova della voce, che era, prima di tutto, il cantare per se stessi,
cantare per buon piacere o una sofferenza direttamente provata, il
corrispondenza con il modo d’essere, il suo umore, la sua astratta
follia.
Così cantano Jobim, Baden e Vinicius, e dopo la scoperta americana della
bossa nova, dedicando Frank Sinatra un intero LP alle musiche di Jobin,
come in difficoltà ci parve la pur grande maestria della “Voce”, di
fronte all’inserirsi pacato e struggente del canto modulato di Jobin”
Chico Buarque
de Hollanda
Drammaturgo e cantautore, è la testimonianza vivente di ciò che Vinicius
de Moraes ha rappresentato per la cultura dei giovani in Brasile.
Quando Chico incomincia nel 1963 a cantare, scegliendo come primo
modello musicale la bossa nova, trova fra i grandi poeti che lo ammirano
come Carlos Drumond de Andrade o Manuel Bandeira, anche Vinicius.
Con quest’ultimo il rapporto non si limita però ad un benevolo
interesse, diviene subito fratellanza.
Credo che anche se si è soliti pensare a Barque a un discendente di
Moraes per via della sua giovane età, Chico è del 1944, ciò sia vero
solo in parte.
La straordinaria carica politica ed eversiva di Chico, il suo carattere
nettamente pubblico, pur su una struttura poetica permeata da saudade
brasiliana, deve aver scosso il più ambiguo e diplomatico de Moraes.
Spingendolo ad atteggiamenti più radicali.
Un intellettuale profondo come Vinicius non poteva essere scosso da
personaggi passionali ma eccessivi vome Violetta Parra o altri cantanti
tipicamente politici, mentre , in questo raffinato figlio di una
famiglia di studiosi, drammaturgo sottile e grande poeta che scende
nell’arena a vendere 500.000 copie ad LP, deve aver intravisto l’artista
nuovo, liberato dalle pastoie dei circoli culturali specie se
progressisti!
Questo presumibile atteggiamento di Vinicius traspare anche nella
benedizione a lui dedicata, così precisa nel descrivere bl’irruenza
giovanile dell’amico:
“tu che non chiedi, comandi”
e più avanti
“tu che appena parti, già sei arrivato!
Chico Buarque gli risponderà, dopo qualche anno, con un altrettanto
precisa e dolcissima poesia:
Poeta, mio poeta vagabondo,
sei un cattivo esempio
per la gente come noi
a fare come te si può scoprire
che vivere non è
cercare dei perché
ma usare la bocca gli occhi e il cuore
poeta mio poeta per amore
per gioia per dolore
per antica libertà
chissà
quando ti somiglierò
ma tutto quel che so
è che succederà Vinicius grazie, saravà
Sergio Endrigo
Ha avuto il merito di far entrare le canzoni di Vinicius de Moraes nelle
consuetudini dei bambini del nostro paese e, forse, aspetta ancora di
essere preso più seriamente dai loro genitori.
Canzoni come “Il pappagallo” e la già citata Casa” sono quelle classiche
composizioni a doppio taglio, dove l’eccesso di semplicità nasconde
enigmi realmente complessi, quasi che il poeta abbia voluto nascondere i
propri tesori in un luogo sicuro, al riparo di occhi malevoli.
Giuseppe
Ungaretti
Lo conobbe nel 1936 a San Paolo in casa di de Andrade.
Fu una grande amicizia, superiore credo a quella con Pablo Neruda, forse
una maggior forza di coesione, un saper stare insieme senza troppo
vampirizzarsi.
Nelle calorose pagine scritte da Leone Piccioni a chiusura del libro di
Vinicius edito in Italia, dalle quali abbiamo estrapolato le note
musicologiche su Jobin e Powel, Giuseppe Ungaretti occupa un posto di
straordinaria importanza diaristica.
Piccioni racconta fra l’altro come nel 1969, in una difficile situazione
politica del suo paese, Vinicius si fermò a Roma dove incise un disco
bellissimo con Ungaretti ed Endrigo e la collaborazione di Sergio
Bardotti.
Fu l’ultima occasione d’incontro fra i due ma ogni
volta che
Vinicius tornava a Roma, dopo la morte del poeta, voleva incontrarsi
segretamente con Leone Piccioni. “ proprio in quel ristorante romano
dove con Ungaretti s’andava tanto spesso, in quello stesso tavolino,
dove sopra è stata appesa una piccola fotografia del poeta”.
Quelle del 1969 dovevano essere state serate indimenticabili per quel
gruppo di amici e non trovo nulla di più direttamente utile, per farle
rivivere, in qualche modo ai lettori, che riportare un brano del
piccolo racconto di Piccioni.
E’ difficile, in
così poche righe, condensare tante orme di vita, far rinascere voci,
situazioni, odore di whisky……
“”Tanto tempo sembra essere passato da certe serate spese insieme a casa
di mio fratello, tali da essersi collocate, come in una favola, nella
memoria.
A tarda notte, quasi mattina, seduto su un divano, in un salotto con
poca luce, tante persone mute attorno.
Vinicius con la chitarra suona e canta ancora, non so da quanto.
Le splendide parole di quelle canzoni nate dal lavoro comune,
principalmente con Jobin e con Badem Powel, e Ungaretti che ce le
traduce “bambino di mille anni” come Vinicius lo chiama.
E intanto, metodicamente, Vinicius beve il suo whisky.
Quanti ne bevi al giorno, Vinà sii sincero?
Qualche giorno no bevo, risponde nel suo particolare italiano,
altrimenti vinti, trinta, quarinta whiskies nella giornata.
Ci spiega, ci parla della bossa nova e di Bahia,
degli amici cui
manda le sue “benedizioni”.
Ricorda i suoi amori per i quali ha tanto sofferto, ma per i quali è
così vivo…..
la felicità è come la piuma
che il vento si porta per l’aria
vola così lieve
ma ha vita breve
bisogna che il vento non cada
La luce del giorno è già alta quando usciamo. Vinicius ha ancora con se
l’ultimo bicchiere di Whisky da finire per strada. Sono in macchina con
me i due poeti. Vinà dietro, s’appoggia alla chitarra e s’addormenta,
Ungaretti ancora parla, ancora grida, ripete versi della poesia nuova
che ha scritto la notte avanti:
Si volge verso l’est l’ultimo amore
l’ultimo amore più degli altri strazia
Capricciosa croiata….
notte lucida
Ha tradotto così
alcuni versi di Vinicius, in cui certo si riconosceva anche lui:
Io muoio ieri
nasco domani
vado ov’è spazio
mio tempo è quando!
A fare un tratto di strada brevissimo (quanto dista l’Aventino
dall’Eur), che sia stanchezza, che sia anche per me il bere (“se
continuerò a frequentarvi, ci diceva Ungaretti farete di me un
alcolizzato), sbaglio strada, mi trovo quasi al mare, ci metto più di un
ora.
Ma Ungaretti non protesta non è impaziente.
Quando saluto lui si sveglia Vinicius, vispissimo e vorrebbe a quell’ora
andare a mangiare da qualche parte. Si accontenta del bar della Stazione
Termini".
Faremmo una solenne ingiustizia se ci fermassimo ai nomi riportati nel
“samba delle benedizioni” e dimenticassimo tra i molti partecipi
dell’amicizia e
del successo di Vinicius tre grandi artisti Sergio Bardotti, Ornella
Vanoni e Toquinho
O piccola cittadina medioevale
Sant’Angelo Romano
che il crepuscolo dal terrazzo di Sergio Bardotti
io vedo illuminarsi sopra la valle di Mentana…
Sergio
Bardotti
Ho conosciuto Sergio al Club Tenco di Sanremo e ho capito immediatamente
due cose.
La prima come un operatore della canzone. un produttore, come si dice in
gergo, possa essere diverso dall’idea stereotipata che si può averne.
La seconda del perché Bardotti fosse oltre che il traduttore,
produttore, factotum, uno degli esseri che Vinicius amasse di più.
Sergio possedeva la pacatezza e la genialità di un “provvisorio”, non
era mai nella parte, s’interessava di un qualsiasi argomento dei così
detti addetti ai lavori con sorrisi e divagazioni da poeta.
Era cosmopolita, mischiava il portoghese all’italiano in saggia e
spericolata confusione, non amava il pettegolezzo che ferisce ma adorava
la narrazione continua proprio come Vinicius e Ungaretti.
Ornella Vanoni
Ha inciso un disco intero con Vinicius, ma anche se non lo avesse fatto
sarebbe difficile non pensare ad un rapporto con il poeta brasiliano,
magari un rapporto extra sensoriale, un rapporto da predisposizione per
vizi e virtù.
I vizi di Ornella, probabilmente virtù, sono:l’eccesso di femminilità,
lo stile da gran signora che sa divenire semplicità disarmante,
l’ipercritica che diventa dissolvenza, la sete di applausi che diventa
malinconia, il troppo cervello che diventa fatalmente solitudine.
Una donna così funanbulesca, prestigiatrice di grandi sentimenti, è in
assoluto la più importante
interprete delle
canzoni di Vinicius de Moraes, canzoni che solo lei può esagerare senza
mai cadere nella caratterizzazione, lei inimitabile, lei imprendibile.
E’ straordinario come Ornella sappia “viversi” fra luci e ombre, dicendo
e facendo.
Basti come esempio della sua straordinaria natura di gatto immaginario
in bilico sul tetto, leggere la dedica da lei scritta per il disco “La
voglia, la pazzia, l’incoscienza, l’allegria
“sono mesi che cerco di scrivere una dedica.
Questo disco è un momento talmente magico per me!
Pensavo di dover scrivere, spiegare, magari ringraziare.
Volevo far sapere a chi ascolta questo disco il significato che questo
lavoro ha avuto per me.
E sono mesi che non viene niente.
Ogni volta che mi decido, prendo la penna e non mi viene niente.
Mi si blocca tutto.
Forse perché le sensazioni sono state tante: prima, durante, dopo.
Io ho avuto tanta paura d’incominciare questo disco.
La paura d’incominciare qualche cosa che amo e che poi finisce per
forza.
Perché essere molto felici fa piangere, e io sono diventata vigliacca.
Poi io vorrei sapere dove sono quei due, mentre io scrivo queste cose”!
In questa dedica Ornella allude, senza nominarlo, accanto a Vinicius, a
Toquinho
Toquinho
Fu un angelo custode, un compagno di cordata, una parte separata di uno
stesso corpo.
Musicista sensibile apportò alle serate di VInicius quel elemento di
ordine invisibile che solo un grande interprete può riversare.
Probabilmente solo a lui era concessa questa magica evenienza perché,
vicino ai patriarchi, si è soliti sopportare la presenza o dei figli o
di folle adoranti, mal tollerando aiutanti, spalle, gregari, per una
ragione disumana di stonature in agguato.
Toquinho, quale coautore, ha vissuto, accanto all’amico poeta, una sua
vita armoniosa, leggera, intelligente nelle piccole battute rivolte al
pubblico, appassionata nell’interpretazione anarchica e sfrenatamente
libera nell’insieme.
“Quei due” che Ornella cerca nella memoria delle sue note, sono rimasti
a mezz’aria, nei ricordi di molti, appartengono alla storia non
trascrivibile, ma forse intuibile da chi, ascoltando un loro disco,
sappia farsi trasportare dai sogni.
DISCORAFIA IN
ITALIA
Distribuzione dei dischi prodotti in Brasile
Vinicius registrò come esecutore dal 1962.
Accettò nel 1975 un contratto unitario con la Phonogram di distribuzione
dei suoi dischhi per tutti i paesi del mondo.
Alla fine del 1979 aveva firmato per l’Ariola.
Per il periodo precedente, la meccanica delle cessioni multiple (paese
per paese con opzioni riconosciute per altri) operata dai discografici
brasiliani detentori dei diritti originali rese estremamente complessa,
certamente imprecisa e sicuramente superata in breve tempo una
ricostruzione delle pubblicazioni in Italia.
Per non parlare degli incroci di repertorio nei dischi a medio e basso
prezzo.
Sono difficilmente rintracciabili, per la fortuna dei collezionisti i
dischi drl 1962.
Quelli prodotti con Toquinho, prima con la RGE, poi con la Phonogram,
sono relativamente comuni in Italia con etichette Derby, PDU, Polygram.
Molto sostanzioso è anche il numero di registrazioni di brani di
Vinicius da parte di artisti italiani.
Fra di essi , oltrOrnella Vanoni e Sergio Endrigo, vi sono Mina, Mia
Martini, Patty Bravo, Fred Bongusto, Gino Paoli, Bruno Lauzi, Enzo
Iannacci.
Produzione in
italiano e portoghese di 33 giri
“La vita, amico, è l’arte dell’incontro” con Giuseppe Ungaretti, Sergio
Endrigo, Toquinho, Fonit 1969. Premio della Critica 1970
“L’Arca, canzoni per bambini” con Sergio Endrigo, Sannia, New Trolls,
Ricchi e Poveri, Fonit 1971
“Il poeta e la chitarra” con Toquinho e Luis E. Bacalov RCA 1972
“ La voglia, la pazzia, l’incoscienza, l’allegria con Ornella Vanoni e
Toquinho Vanilla 1976
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