Shakespeare & Planck
Il 23 aprile nacquero
William
Shakespeare
(1564 – 1616) e
Max Planck
(1858 – 1947): attraverso i loro corpi il Tutto rappresentò se stesso in
maniera condivisibile anche da altri uomini.
Tutti e due evitarono la trappola di giungere a un unica verità.
William fece dire a Macbeth che "la vita è solo un'ombra che cammina, un
povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un'ora sulla scena
e poi cade nell'oblio: la storia raccontata da un idiota, piena di
rumore e di foga, che non significa nulla" e Max affermò che: la scienza
è solo il progressivo accostamento al mondo reale".
Per William "noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e la nostra
breve vita è cinta di sonno" e per Max "la scienza non può svelare il
mistero fondamentale della natura.
E questo perché, in ultima analisi, noi stessi siamo parte dell'enigma
che stiamo cercando di risolvere".
Per William "tutti i luoghi, che l'occhio del Cielo vede, sono per il
saggio porti di salvezza e asili di felicità"..."E l'uomo, invece, nella
sua alterigia, sebben vestito d'un potere effimero, e tanto più
ignorante della cosa di cui dev'essere tanto più certo, ossia la vitrea
sua fragilità, si dà, al cospetto dell'Eccelso Cielo, a somiglianza di
rabbiosa scimmia, in lazzi sì grotteschi e stravaganti, da far venire le
lacrime agli angeli, che, se fosser provvisti della milza, si
muterebbero tutti in mortali, per via che scoppierebbero dal ridere" e
per Max "tutta la materia ha origine ed esiste solo in virtù di una
forza che porta la particella di un atomo a vibrare e mantenere il
sistema solare insieme. Dobbiamo supporre che dietro questa forza c'è
l'esistenza di una mente cosciente ed intelligente.
Questa mente è la matrice di tutta la materia".
Albert
Einstein
espresse a proposito di Max Planck una speranza che è facile attribuire
anche a William Shakespeare: "come sarebbe diverso, e come sarebbe
meglio per l'umanità se ci fosse più gente come lui. Sembra che in ogni
tempo e su ogni continente le personalità più eccelse siano costrette a
stare in disparte, incapaci di influenzare gli avvenimenti del mondo."
Per quanto mi riguarda non posso che dargli ragione anche se non riesco
a liberarmi di un verso feroce di William: "noi siamo per gli dèi quello
che son le mosche pei monelli: ci spiaccicano per divertimento"
Il mio amico
Giovanni Testori
(1923 – 1993)
Fu per me, oltre a un autore della mia casa editrice, anche la
dimostrazione che l'amicizia nasce da motivazioni troppo misteriose e
complesse da raccontate.
Difficile trovare un minimo comune denominatore fra chi visse la
menzogna come lo strumento che "serve per usare la carne; per colpirla,
crivellarla e stenderla, assassinata, su una delle strade che avevamo
costruito per il nostro bene e per la nostra vita" e chi, come me, non
utilizzerà mai l'emulazione biologica come pretesto per costruire
principi etici con la pretesa di opporre menzogna a finzione, analogia e
deduzione.
Probabilmente dietro queste due convenzioni esistenziali, apparentemente
dissimili, vi è l'illusione tipica degli uomini di sentirsi soli e, quel
che è peggio, anche indipendenti dal Tutto. Fra i molti scritti di
Giovanni dedicati a questo tema mi commosse un suo articolo per la morte
di Pier Paolo Pasolini nel quale anche la nostra "strana" amicizia trova
una sua interpretazione credibile: " la coscienza e l'angoscia
dell'essere diviso, dell'essere soltanto una parte di un'unità che, dal
momento del concepimento, non è più esistita; insomma, la coscienza e
l'angoscia dell'essere nati e della solitudine che fatalmente ne deriva.
La solitudine, questa cagna orrenda e famelica che ci portiamo addosso
da quando diventiamo cellula individua e vivente e che pare privilegiare
coloro che, con un aggettivo turpe e razzista, si ha l'abitudine di
chiamare "diversi".
Allora, quando il lavoro è finito (e, magari, sembra averci ammazzati
per non lasciarci più spazio altro che per il sonno e magari neppure per
quello); quando ci si alza dai tavoli delle cene perché gli amici non
bastano più; quando non basta più nemmeno la figura della madre (con
cui, magari, s'è ingaggiata, scientemente o incoscientemente, una
silenziosa lotta o intrico d'odio e d'amore) e si resta lì, soli,
prigionieri senza scampo, dentro la notte che è negra come il grembo da
cui veniamo e come il nulla verso cui andiamo, comincia a crescere
dentro di noi un bisogno infinito e disperante di trovare un appoggio,
un riscontro; di trovare un "qualcuno"; quel "qualcuno" che ci illuda,
fosse pure per un solo momento, di poter distruggere e annientare quella
solitudine; di poter ricomporre quell'unità lacerata e perduta".
TESTORI E PARENTI VENIVANO DA LONTANO di Luigi Granetto
Il Teatro
Franco Parenti di Milano ha festeggiato, la notte del 16
gennaio, il suo primo quarto di secolo con brindisi, risotto, giri di
valzer e tanti improbabili reduci dalla memoria fervida.
Mario Capanna, che nell'anno 1973 premiava i picchiatori con una
medaglia d'argento con l'effigie di Giuseppe Stalin, ha ricordato come
questo Teatro, risonante ancora delle eresie del cattolicissimo Giovanni
Testori e del liberissimo pensatore Parenti, fu' aperto anche per merito
della sua rivoluzione. Carlo Fontana, pur riconoscendo di non aver mai
capito niente di un testo come il Macbetto, si è detto convinto della
grandezza del suo autore.
Emilio Tadini, che in quegli anni prestava consapevole vassallaggio
alla corte di Marconi, titolare della Galleria provincial-modernista più
odiata da Testori, è riuscito a scambiare la raffinata lingua dell'Ambleto
(costruita su una perfetta conoscenza del latino e su una complessa
amalgama di fonti colte e brianzolo reinventato) per il suo più vicino
antagonista linguistico: il dialetto popolare milanese.
Piero Mazzarella, nella pregevole ma ingenua sua guitteria, ha ridotto,
con uno monologo stralunato che avrebbe provocato in Parenti
un'irrefrenabile sete di liquori illuministi, una delle esperienze
culturali più significative del dopoguerra a una questione di mestiere.
Non saprei dire se questa serata, definita con entusiasmo dalla Sotis
"trionfante" saprà trasformare le vaghe promesse del Sindaco Albertini
in tangibili beni pecuniari, ma di una cosa sono certo: per aiutare il
"Franco Parenti", e specialmente Milano, a ritrovare il suo ruolo
culturale nel paese, sara' forse necessario cercare di proferire qualche
passionale e verosimigliante verità.
Il Pier Lombardo fu' voluto da due scomodi e geniali artisti, Giovanni
Testori e Franco Parenti, da un rigoroso studioso, Dante Isella, dal più
aristocratico degli scenografi, Maurizio Fercioni e soprattutto da una
fanciulla controcorrente, riottosa ad ascoltare le sirene del '68: la
regista Andrée Ruth Schammah.
Questa compagnia di maltrainsema visse come "se tutto fudesse
inzolamente la fantasia dei noi" in un luogo "squasi alle porte della
illustrissima e magnificientissima mediolaniensis urbiz".
In quella città, insomma, dove, fra sventolio di rossobrectiane
bandiere, coglionerie legnanesi, Fo-comizi teatrali, unti risotti alla
cumenda-Bramieri, re nudi e troppo-coperti-Formigoni, fra Trussardi in
bicicletta e Berlusconi salvatetta, una classe di voltagabbana senza
scrupoli, d'ignorantissimi truffatori, di piccoli eroi della meschinità,
consolidava il suo potere e imparava a giocare a golf.
Potere golosamente appetibile perché costruito sulla mediocrità,
l'unica attitudine dello spirito foriera di grandi consensi, capace di
rendere omogenee le esperienze più contrastanti: destra e sinistra,
avanguardia e conservatorismo, fede e interessi. Nel suo discorso il
Sindaco Albertini ha detto "una giunta di destra che da ossigeno a una
cultura di sinistra è il massimo che si può ottenere oggi a Milano".
Purtroppo la vera cultura, quella che rimane e stratifica il sapere,
non è ne di destra ne di sinistra; il rinnovato interesse per D'annuzio
passa per la considerazione che di lui aveva Pablo Neruda, la decrepita
e provinciale diatriba crociani-anticrociani lascia spazio alla
rilettura di un pensatore cattolico, amato da Bottai e da Gramsci, come
Giuseppe Toffanin, l'improvviso interesse americano per una delle più
grandi artiste del nostro seicento, Artemisia Gentileschi, dipende da
una mostra organizzata da Stella, il più importante pittore astratto
americano.
Come spiegare che la mediocrità, il respiro corto, il facile consenso,
pur potendo fortunosamente essere funzionali alla commistione fra
economia e politica sono pero' deleteri per il binomio cultura-civiltà?
Probabilmente l'incontro fra il bisogno di consenso immediato della
politica e la necessità di un tempo dilatato della cultura, si ha solo
quando un rispettoso desiderio di conservazione è capace di creare, come
fuori dalla Fondazione Mazzotta, file interminabili di cittadini: gli
stessi che rimangono con il fiato sospeso davanti alla magica bacchetta
di Muti.
Per poter conservare qualche cosa, si dovrebbe fare in modo che qualche
pazzo, come Andrée Ruth Schammah, fra mille sbagli e altrettanti
commoventi insuccessi, sapesse anche lasciare opere geniali come la
trilogia di Testori, o lavori semplicemente convincenti come la
riduzione teatrale del bel libro di Emilio Tadini: "La Tempesta.
Del resto, di tutta la chiassosa e costosa storia del Piccolo,
rimarranno qualche vago ricordo da nonno a nipote, il racconto di un
grande ma meschino regista che non ha saputo insegnare ad alcuno la sua
arte, il brutto e inutile teatro di Zanuso e qualche testo spurio di
Lunari sui quali stendere pietosamente i velluti dei sipari: tanto
rumore per nulla.
Vittorio Alfieri
(1749 –
1803)
Vittorio nacque ad Asti il 16 gennaio del 1749 e dedicò tutta la vita ad
attualizzare il pensiero di Niccolò Machiavelli con il fine di
combattere il conformismo che permette alla tirannia di rinascere
malgrado le buone intenzioni dei suoi oppositori.
Riuscì a trasformare la tradizione greca dell'eroe tragico in
letteratura-azione senza cadere nell'utopia dell'intellettuale organico
ma, al contrario, valorizzò i requisiti, necessariamente individuali, di
chi è in grado di promuovere nei suoi simili, l'amore della libertà, la
coscienza dei propri diritti, la responsabilità inalienabile del proprio
destino.
Tale eroe apparve a molti progressisti, immaginario e inconcludente, poi
arrivarono Hitler e Stalin che, come Saul, furono simultaneamente
tiranni dei propri popoli e vittime della tirannia dell'ideologia che
gli sovrastava.
Uno dei pochissimi rivoluzionari del novecento che comprese la forza del
suo pensiero fu Piero Gobetti che gli dedicò nel 1921 la sua tesi di
laurea "La filosofia politica di Vittorio Alfieri" e scrisse: " la
genuina atmosfera storica di Alfieri non è nel rigido ambiente
tradizionale italiano, ma nel fervore spirituale europeo che con la
libera critica preparava il culto dell’individualismo e le lotte per la
libertà"
Per capire, una volta per tutte, l'assoluta grandezza etica e politica
di Vittorio Alfieri basterebbe comparare il lavoro "civile" di un Paolo
Spriano con quello di Pier Paolo Pasolini o di Gor'kij rispetto a
Bulgakov che morì con la maggior parte delle sue opere rimaste nel
cassetto pubblicate solo negli anni settanta e ottanta e criticate
aspramente da molti "intellettuali organici" anche italiani.
Dedicato a tutti quelli che fanno molta fatica a capire quanto sia
importante la solitudine, l'incomprensione e in fin dei conti l'eroismo
di gente come Dante, Machiavelli, Galilei per poter assicurare a tutti
dei sostanziali cambiamenti di civiltà.
Ludovico
Ariosto (1474 – 1533)
Poeta e commediografo figlio di Niccolò e di Daria Malaguzzi Valeri
della stessa famiglia di Lodovico Malaguzzi Valeri che sposò Chiara,
sorella della mia ava diretta Elena Sagredo. Ludovico aveva fra i suoi
avi anche Lippa Ariosti moglie di Obizzo III d'Este che fu madre di Alda
moglie del mio consanguineo Ludovico II Gonzaga.
Della sua personalità complessa amo molto la capacità di depistare i
lettori che sperano di ritrovare nei suoi versi qualcosa che permetta
loro di conoscere il mondo privato del loro autore.
Più bugiardo di Federico Fellini ebbe una vita complicata, sempre in
viaggio, sempre ln lotta con situazioni politiche difficili ma in una
sua poesia ha la faccia tosta di dire: "
E più mi piace posar le poltre
membra, che di vantarle che alli Sciti
sien state, agli Indi, a li Etiopi et oltre
....
Chi vuole andare a torno, a torno vada
vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna,
a me piace abitar la mia contrada"
Da grandissimo diplomatico qual'era si era fatto l'idea che
quantunque il simular sia le più volte
ripreso, e dia di mala mente indici,
si trova pur in molte cose e molte
aver fatti evidenti benefici, |
e danni e biasmi e morti aver già tolte;
che non conversiam sempre con gli amici
in questa assai più oscura che serena
vita mortal, tutta d'invidia piena"
Pur avendo scritto la poesia epica più straordinaria che ci si possa
immaginare è quasi impossibile trovare dei versi che lo coinvolgano
oltre alla finzione, tranne forse uno terribilmente e dolorosamente
reale:
O d'ogni vizio fetida sentina,
dormi, Italia imbriaca, e non ti pesa
ch'ora di questa gente, ora di quella
che già serva ti fu, sei fatta ancella?
Antonin Artaud
(1896 – 1948)
Commediografo, attore teatrale e scrittore francese rappresentò per
l'ennesima volta il mito romantico del creatore psichicamente instabile
che utilizza la sua malattia per scopi artistici .
Tale mito seppe ripetersi con prevedibile abbondanza di contraddizioni
soggettive sempre contrapposte alle difficoltà mimetiche di chi visse da
Sofocle a Samuel Beckett l'oggettività dell'autentico spirito della
tragedia.
Per Sofocle " qualsiasi mortale che sia infuriato per i propri torti e
usi un farmaco peggiore del male è un medico che non comprende la
malattia".
Per Beckett non "c'è niente di più comico dell'infelicità" mentre per
Artaud solo " il senso dell'anarchia" il sentirsi "lacerato e diviso"
l'essere pervasi da "tormenti dell'anima e del corpo" possono aiutare
l'uomo ad abbandonare l'inferno come fece il suo adorato Van Gogh
perché, per il decadentissimo e ingenuo Artaud, "nessuno ha mai scritto,
dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non, di fatto,
per uscire dall'inferno".
Non riuscì mai a staccarsi dal proprio ingombrante egocentrismo ma seppe
descrivere la sua malattia con spietato realismo: "il pensiero mi
abbandona a tutti i livelli. Dalla pura essenza del pensiero fino al
fatto esteriore della sua materializzazione attraverso le parole.
Parole, forme di frasi, direzioni interiori del pensiero, reazioni
semplici dello spirito, sono alla costante ricerca del mio essere
intellettuale"
Terribile e realmente dolorosa rimane per me la sua incapacità o forse
quella dei suoi psichiatri di tentare un compromesso onorevole per farlo
vivere in maniera più serena.
Scrive lo stesso Artaud prima di morire in manicomio: "se otto anni fa
sono stato internato e da otto anni mantenuto internato, questo dipende
da una palese azione della cattiva volontà generale che a nessun costo
vuole che Antonin Artaud, scrittore e poeta, possa realizzare nella vita
le idee che manifesta nei libri, perché si sa che Antonin Artaud ha in
sé mezzi d'azione di cui non si vuole che si serva, quando invece lui
vuole, insieme a qualche anima che gli vuole bene, uscir fuori da questo
mondo servile, di un'idiozia asfissiante e per gli altri e per sé, e che
si compiace di questa asfissia".
Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais
(1732 – 1799),
Beaumarchais. l'autore del Barbier de Seville e del Mariage de Figaro,
che fecero la fortuna di Rossini Paisiello e Mozart, furono e sono opere
meravigliose anche da vedere a teatro.
Ebbi la fortuna di pubblicare nel 1973, nella traduzione di Mario
Moretti, "Il matrimonio di Figaro" in occasione della messa in scena di
questa splendida commedia con la regia di Armando Pugliese, le scene di
Bruno Garofano e con dei giovanissimi e scatenati Mariano Rigillo,
Ettore Conti e Pamela Villoresi.
Da questa e dalle altre sue altre opere traspare vivacità, gioia del
vivere ma specialmente ottimismo per un' epoca nella quale gli ideali
liberali sembravano ormai pronti ad essere attuati. Lontanissimo da
queste pagine l'orrore dei morti provocati dalla Rivoluzione Francese,
dalla reazione spropositata dell'impresa napoleonica, dei martiri della
Comune di Parigi, del nostro Risorgimento e degli stermini di massa
attuati dal nazifascismo e dal comunismo.
Nel "Il matrimonio di Figaro" ci sono due battute profetiche che mi
hanno sempre allarmato: "mediocre e strisciante, e si arriva a tutto" e
" dimostrare che ho ragione significherebbe ammettere che potrei avere
torto".
Queste battute sommate a quella presente nel "Il barbiere di Siviglia",
"mi affretto a ridere di tutto e di tutti, per la paura di essere
costretto a piangerne" non appartengono solo all'epoca di Beaumarchais
ma anche alla nostra, nella quale sta rinascendo, per l'ennesima volta,
un movimento liberale e libertario che vorrebbe opporsi agli spietati
regimi dittatoriali come quello cinese ma specialmente russo capace di
condizionare la democrazia americana resa più fragile dall'elezione di
Trump.
Michail Bulgakov
(1891
–1940)
Nacque il 15 maggio Michail Afanas'evič Bulgakov del quale pubblicai nel
1974 la riduzione teatrale del suo romanzo "Cuore di Cane" ,scritta e
tradotta da Viveca Melander con l'aiuto del drammaturgo Mario Moretti.
Michail disse di se stesso; "Io sono uno scrittore mistico. Mi servo di
tinte cupe e mistiche per rappresentare le innumerevoli mostruosità
della nostra vita quotidiana, il veleno di cui è intrisa la mia lingua,
la trasfigurazione di alcune terribili caratteristiche del mio popolo".
Naturalmente fu molto di più.
Convinto come William Shakespeare che vi siano più cose in cielo e in
terra di quante ne sogni la nostra filosofia, dedicò tutta la sua vita a
rivalutare la proprietà umana di stupirsi e di meravigliarsi di ciò che
il Tutto offre malgrado la sua irriducibilità a quello che noi
pretendiamo di sapere.
Riuscì a sopravvivere all'orrore del comunismo sovietico nel quale
piccoli borghesi ignoranti cercarono di creare una nuova realtà,
modellata sulla finitezza delle idee contrapposte alle osservazioni
della complessità del Tutto, le sole capaci di fornire infinite
possibilità e probabilità alle multiformi capacità interpretative del
cervello umano.
Rimane un vero mistero di come Michail riuscì a salvarsi la vita ma
probabilmente anche quello psicopatico di Stalin apprezzò la sua dote
migliore: ridere e far ridere di gusto gli altri.
Non era mai successo che per difendere le "ragioni" di Dio uno scrittore
scegliesse proprio il diavolo facendolo rispondere all'ateo Maestro,
assertore delle "ragioni" dell'uomo: "mi scusi, replicò gentilmente lo
sconosciuto, per dirigere bisogna pur avere un piano preciso, e per un
periodo di tempo ragionevole. Mi permetta di chiederle in che modo
l’uomo potrebbe dirigere se non solo non è in grado di predisporre un
piano qualsiasi neppure per un lasso di tempo ridicolmente breve come,
diciamo, mille anni, ma non è addirittura sicuro del proprio domani...
Sì, l’uomo è mortale, ma questo sarebbe un male da poco. Il peggio è che
talvolta è mortale all’improvviso, ecco il punto! E non è neppure capace
di prevedere quello che farà la sera".
Calderón de la Barca
(1600 – 1681)
Io sogno di esser qui |
oppresso da questa prigione |
e ho sognato che in un altro stato |
più lusinghiero mi sono visto. |
Che è la vita? Un delirio. |
Che è la vita? Un'illusione, |
un'ombra, una finzione, |
ed il bene più grande è piccolo; |
che tutta la vita è sogno |
ed i sogni, sogni sono",
Questi famosi versi, nella traduzione di Vasco Caini. tratti da "La vida
es sueño" di Pedro Calderón de la Barcanon sono solo l'esercizio di un
poeta pessimista che retoricamente se la prende con la vanità universale
di chi si ostina a dare troppa importanza al libero arbitrio e alla
validità dell'operare umano, spesso in lotta con le "ragioni" della sua
contingenza e in fuga dalla Sapienza del Tutto ma, forse per la prima
volta, questi versi pongono al centro della conoscenza i concetti di
"finzione" e di "emulazione" indipendentemente dal loro rapporto con
l'uomo.
L'apparenza che governa il teatro di Calderón, che consente agli attori
di recitare parti diverse, non è altro che uno specchio che riflette la
contraddizione fra facoltà pre-logiche che rendono possibile
l'emulazione e i meccanismi logico-inferenziali che permettono all'uomo
di afferrare l’eterno in ciò che è disperatamente fugace.
Scrissi qualche anno fa in un saggio dedicato alla finzione: " il
dubbio, la finzione di esistere, come entità indipendente dal tutto
coagulato, generò l'immagine polisensa di se stessa.
La quale, a sua volta, cercò, con alterna fortuna, di selezionare le
finzioni concatenabili dubitativamente per somiglianza e differenza,
secondo un sistema ritenuto congruo, ordinato, capace di connettere a sé
immagini ritenute incongrue".
Per far questo la mente immaginò "un punto d'osservazione periferico,
dal quale si poté far coincidere la visione con il il sistema congruo
prescelto. Scelse così la possibilità di osservarsi solo attraverso
un’immagine riflessa, che restituiva la sua stessa immagine deformata
attraverso le regole di quel sistema.
Aveva scelto un imbroglio tanto vero che le permetteva una sincerità
menzognera"
Fra i poeti che raccolsero l'eredità di Calderón vi fu anche il mio
amato René Char che scrisse: "L'Homme est capable de faire ce qu'il est
incapable d'imaginer. La tete sillone la galassie de l'absurde". L'uomo
è in grado di fare ciò che non è in grado d'immaginare. La sua testa
solca la galassia dell'assurdo" Concedo ai miei troppi amici che
venerano la logica la possibilità di difendersi!
Johann Wolfgang von Goethe
(1749
– Weimar, 22 marzo 1832)
Nacque il 28 agosto il bambino Johann Wolfgang von Goethe (1749 – 1832)
che divenne viandante perché "l'uomo erra finché aspira", poeta perché
"gli antichi erano così limitati e felici! i loro sensi e la loro poesia
così ingenui!" e drammaturgo perché "la nostra immaginazione spinta
dalla sua propria natura a elevarsi, e nutrita di fantasmi poetici, si
costruisce una scala di esseri superiori, fra i quali noi occupiamo
l'infimo grado; e ogni cosa fuori di noi ci appare più perfetta" e
infine amico personale di tutti i suoi lettori come me, incapaci di non
amarlo se non in maniera esagerata con una qualità dell'affetto sempre
superiore alla naturale ammirazione per un autore così geniale.
George Eliot lo considerava "l'ultimo uomo universale a camminare sulla
terra" ma io penso che fu l'ultimo bambino consapevole e felice di
esserlo come quando disse " che i bambini non sappiano quello che
vogliono, su questo sono perfettamente d'accordo precettori e maestri
dottissimi; ma che anche gli adulti brancolino alla cieca su questo
pianeta, come i bambini, e come loro non sappiano da dove vengano né
dove vadano e infine che neppure loro agiscano per motivi veri e reali,
ma si lascino invece guidare solo da zuccherini, dolci e frustate:
questo nessuno è disposto a crederlo e a me invece sembra una verità
addirittura evidente."
Fra le sue credenze da me più amate vi è la sua simpatia per i pochi che
sanno ridere dei loro errori, difficile contestare che "gli errori
dell'uomo lo fanno particolarmente amabile" perché " la verità è
scostante, l'errore attraente, perché la verità ci fa sembrare limitati,
e l'errore onnipotenti.
Inoltre la verità è scostante perché è frammentaria, incomprensibile,
mentre l'errore è coerente e conseguente" Grazie vecchio amico di avermi
dato la possibilità di ricordarti!.
Carlo Goldoni (1707 –1793)
Il 25 febbraio nacque a Venezia Carlo Goldoni e per breve
tempo la gioia di poter ridere si liberò dal sarcasmo di Voltaire e
Swift, dagli eccessi grotteschi di Aristofane e Plauto, dalla sottile
malinconia di Molière e dalla saccenza del Manzoni. Fu un riso limpido,
privo di fiele e di volgarità, capace di trovare un accordo che
riconcilia tutto il corpo con gli effetti di un uso nevrotico
dell'intelletto umano. Questo suo essere olimpico riuscì miracolosamente
ad attenuare anche l'inevitabile livore della Chiesa cattolica, sempre
pronta a insozzare tutto ciò che è bello, buono e giusto, il tribunale
dell’inquisizione impose la sospensione della sua opera “La vedova
scaltra“ attaccata con furore dall'abate Pietro Chiari che scrisse "La
scuola delle vedove", parodia bigotta piena di “invettive e di insulti”
contro una presunta immoralità di Goldoni. Per sua fortuna il cardinale
Carlo Rezzonico che ammirava la sua bontà e umiltà riuscì a farlo
ricevere dallo zio Clemente XIII, il famoso papa Braghettone che fece
coprire le parti intime di statue e dipinti e mise nell'Indice dei libri
proibiti l'Encyclopédie di D'Alembert e Diderot ma che fu anche di
temperamento mite e stranamente di carattere retto e moderato e che
concesse al Goldoni di rappresentare delle opere a Roma, naturalmente
facendole recitare esclusivamente alle compagnie teatrali di soli
uomini, poiché le attrici erano bandite in tutte le terre soggette al
potere temporale dei papi. Comunque a un certo punto della sua vita
Goldoni preferì andare a vivere a Parigi dove insegnò lingua italiana
alle figlie di Luigi XV, Adelaide e Luisa e scrisse in francese Le
Bourru bienfaisant (Il burbero benefico) andato in scena la sera del 4
novembre 1771 nel tripudio generale. Visse purtroppo anche i tragici
giorni del terrore giacobino che però gli diedero l'opportunità di
scrivere, sempre in francese. la sua meravigliosa autobiografia,
Mémoires. Morì povero il 6 febbraio 1793 il giorno dopo la Convenzione
decretò che la pensione che gli aveva sospeso andasse alla sua vedova
Nicoletta Conio.
Jaroslav Hašek
(1883 – 1923)
Il suddito praghese dell'Impero austro-ungarico Jaroslav Hašek,
frequentemente arrestato e imprigionato per le sue idee libertarie,
licenziato dal giornale Svět zvířat (Il mondo degli animali) per aver
pubblicato articoli su animali immaginari, nel 1915 finì prigioniero dei
russi dove lavorò come segretario del comandante del campo di
concentramento e incominciò a riscrivere il suo romanzo "Il buon soldato
Sc'vèik" che divenne un capolavoro tradotto in più di 120 lingue.
Sc'vèik, provocando un'enorme risata che dura dalla prima all'ultima
pagina del romanzo riuscì, dopo aver sconfitto il mostro dei valori che
provocarono la prima guerra mondiale, a far volare con la sancta
simplicitas il pesantissimo elefante divenuto, per merito della sua
scrittura, una leggerissima farfalla.
Nel 1973 pubblicai la riduzione che fece Bertold Brecht del romanzo di
Hašek in occasione dello spettacolo del Gruppo della Rocca con la regia
di Egisto Marcucci.
Hugo von Hofmannsthal
(1874 – 1929),
Lo scrittore, drammaturgo e librettista Hugo von Hofmannsthal dopo aver
trovato il l coraggio di evocare lo spirito di William Shakespeare nelle
sue Terzine sulla caducità: "Siamo fatti della stessa materia di cui
s'intessono i sogni, / e i sogni sollevano le palpebre / come i piccoli
bambini sotto i ciliegi, / dalla cui corona il suo cammino oro pallido /
la luna piena inizia attraverso la grande notte /E tre cose sono una: un
uomo, un oggetto, un sogno", abbandonò la poesia pura per adattarla alle
esigenze della drammaturgia musicale che per vent'anni lo vide
protagonista accanto Richard Strauss. Fu uno dei pochi intellettuali che
comprese l'importanza di una Konservative Revolution (Rivoluzione
conservatrice) la stessa che Antonio Gramsci individuò nel binomio
conservazione-innovazione che "contiene in sé l’intero passato, quello
degno di svolgersi e perpetuarsi"...."nessuna forza storica innovatrice
si realizza immediatamente al 100%, ma appunto è sempre razionale e
irrazionale, storicistica e antistoricistica, è «vita» cioè, con tutte
le debolezze e le forze della vita, con le sue contraddizioni e le sue
antitesi". Colpito nella mia giovinezza da una risposta di Hofmannsthal
"dove va nascosta la profondità? Alla superficie" scrissi " solo la
superficialità ha la profondità delle cose nascoste, in essa tutto
rimane da indagare, scoprire, analizzare. Superficialmente si dicono
cose che non basterà un vita per comprendere", insomma alla sua
tedeschissima volontà di potenza opposi la tendenza a prendere in giro
il proprio fastidioso ego. Mi sono sempre chiesto perché un artista del
suo valore ignorasse il valore terapeutico della risata, che gli avrebbe
permesso di non ridurre Shakespeare e Wolfgang von Goethe ma anche il
suo mitizzato Gabriele d'Annunzio a semplici filosofi quando nella
realtà fecero di tutto per diventare dei saltimbanchi. Probabilmente la
risposta ce la data lui stesso quando ci fa capire d'ignorare totalmente
la pienezza dell 'ebrezza dionisiaca che non è solitamente una dote dei
professori: "noi stiamo a guardare la nostra vita; noi vuotiamo la coppa
anzitempo e restiamo tuttavia infinitamente assetati: poiché, come di
recente ha detto bene e melanconicamente Bourget il calice che la vita
ci porge ha un'incrinatura, e mentre la coppa piena ci avrebbe forse
inebriato, mancherà in eterno ciò che, all'atto di bere, stillando di
sotto, ne va perduto; così nel possesso sentiamo la perdita, sentiamo
nell'esperienza ciò che ogni volta ci sfugge. Non abbiamo per così dire
radici nella vita, e ci aggiriamo, ombre chiaroveggenti eppure cieche
alla luce del giorno, tra i figli della vita".
Eugène Ionesco (1909 –1994),
Nacque a Slatina il 26 novembre del 1909 per combattere e perdere la più
terribile delle guerre: trovare un linguaggio portatore di senso in una
società dove, borghesi inariditi, affidano, a banali e conformistici
clichés, la tragedia di un evasione impossibile dal nulla che gli
sovrasta.
L'assurdo in lui divenne gioco spettacolare di un continuo cabaret
della risata, sostenuto da una magistrale scrittura, capace di accettare
la rappresentazione nella sua contraddittorietà.
La vacuità, vestita di finta leggerezza, divenne l'unica maschera del
suo teatro che dipanò le sue trame in un ambiente in decomposizione,
abitato da egocentrici incapaci di capire il dramma della propria
solitudine.
Vacuità che trasformò il linguaggio del sapere in vuota conversazione
capace di erigere uno ostacolo insuperabile per chi volesse cimentarsi
in scambi veri tra esseri umani. Comunque a tutti quelli che hanno letto
queste poche righe e si sono detti "MI PIACE" consiglio di chiedersi se
per caso hanno contratto il morbo della "rinocerontite" che purtroppo
non si cura solo leggendo "Il Rinoceronte" di Eugène Ionesco ma con una
particolare ginnastica patafisica.
Fra gli esercizi più noti per sconfiggere la "rinocerontite" vi sono le
domande che DEVONO ottenere SOLO risposte contraddittorie tipo: perché
la leggerezza e la pesantezza sono più simili di quello che si crede?
Perché una persona onesta può fare più danni che una disonesta?
Perché il laicismo può essere molto più pericoloso dell'integralismo
islamico?
Perché armonizzare i contrari o svelare l'inconscio può indurre
psicopatie gravi peggiori di quelle provocate da un uso eccessivo di
logica deduttiva?
Perché l'onirismo nasconde e trasforma il reale mentre il reale fa lo
stesso?
Perché in ogni vittoria si nasconde un fallimento?
Perché l'esperienza immaginata può essere più concreta di quella
vissuta?
INFINE L'ESERCIZIO PIU' DIFFICILE: Perché pur sapendo che opporsi alle
imprese dei rinoceronti è impossibile non possiamo fare altro che
tentarci?
James
Joyce
(1882 – 1941)
Lo scrittore, poeta e drammaturgo irlandese James Joyce, oltre ad avere
avuto paura dei cani, dei temporali, dei cattolici e dell'Irlanda ebbe
l'immensa fortuna di essere adorato da Italo Svevo che lo convinse a
vivere a Trieste, da Ezra Pound che gli permise di dedicarsi solamente
alla scrittura aiutandolo a pubblicare Ulysses e A Portrait of the
Artist as a Young Man conosciuto in Italia con il titolo di Dedalus e in
fine da Samuel Beckett che lo convinse a pubblicare Finnegans Wake.
Il critico d'arte e letterario Mario Praz riuscì a riassumere in poche
righe il luogo comune della incomprensibilità di Joyce "un uomo che
cogliamo in aspetti obliqui di bohème, di fuggitivo, di straniero,
personaggio ambiguo e talora grottesco come il suo Bloom; un pedante, un
maniaco, un poeta con molte caratteristiche del raté, le cui opere
sarebbero rimaste quelle di un raté in ogni altro secolo fuor che nel
Novecento, che si arrese al fascino della loro illeggibilità".
Meno male che a difenderlo ci fu Pablo Picasso "Braque e James Joyce
sono gli incomprensibili che tutti capiscono". Certamente i "tutti che
capiscono" non devono avere una grande cultura ma è meglio per loro se
appartengono alla razza degli anti pedanti, degli ironici soddisfatti
che preferiscono più ridere che sorridere.
Gli eterni schiavi del senso, del politically correct, molto rispettosi
dell'idiozia ma quasi mai del genio, non potranno mai capire ne la frase
dell'Ulysses "ognuno ha i suoi gusti, come disse Morris quando baciò la
vacca", ne quello che scrisse Henry Miller: "ci sono passi nell'Ulisse
che si possono leggere soltanto al gabinetto, se si vuole gustare
appieno il piacere che essi danno"
Joyce scisse un
unica commedia teatrale,
"Esuli", amata solo da
George Bernard Shaw
e considerata non rappresentabile da
William Butler Yeats
e dal suo amico
Ezra Pound per
l'elevato, scabroso e veritiero erotismo di carattere sfacciatamente
autobiografico.
Ma come Pablo Picasso ridicolizzò il povero Mario Praz così il premio
Nobel Harold
Pinter portò al successo nel 1970 al Teatro londinese di Mermaid questo
capolavoro di
ossessione e
inganno ma anche di veri istinti amorosi e di passioni erotiche.
Tadeusz Kantor (1915
– 1990),
Tadeusz Kantor in una sua poesia scrisse: "La notte come una fanciulla
amata attesa con nostalgia. È stato in una notte come quella che
cominciò il mio teatro, la Povertà, la felicità e i PIANTI, e l'amore.
Lentamente si compiva il Miracolo o l'Arte. I bambini aspettano sempre.
Per tutta la vita ho aspettato qualcosa che, credevo, sarebbe avvenuta."
Era convinto che: " "lo spazio della vita dimora accanto a quello
dell'arte, insieme e a vicenda confondendosi e compenetrandosi,
condividendo un destino comune" Non volle mai rinunciare al suo ego
invadente, straziato dal nichilismo metafisico di stampo ottocentesco
rinvigorito dalle filosofie esistenzialiste che a loro volta tentarono
di rinnovare il trascendentalismo kantiano. Fu quindi il più decadente
dei creatori del teatro d'avanguardia, non riuscendo a liberarsi di un
passato recente cercò nel dolore, nella morte e nella rimozione di un
passato più antico di testimoniare il dramma della contemporaneità come
un luogo vuoto dominato dall'oblio e da un abissale e non raggiungibile
spazio della memoria. Delle sue teorie sull'origine funebre dell'attore,
sulla non importanza dei testi, sul dualismo fra mausoleo dell'eternità
e la nevrotica frantumazione del passato non è rimasto nulla ma per
fortuna i suoi spettacoli, le sue poesie e le sue opere d'arte furono
superiori alle sue obsolete idee.
Niccolò Machiavelli
(1469 – 1527),
"Quel grande / che temprando lo scettro a' regnatori gli allor ne
sfronda, ed alle genti svela /
di che lagrime grondi e di che sangue"
(Ugo Foscolo)
Fondò i principi di una possibile scienza politica "Il Machiavellismo è
lo sforzo di portare alla luce le ipocrisie della commedia sociale, di
cogliere i sentimenti che fanno veramente muovere gli uomini, di
catturare i conflitti autentici che costituiscono il tessuto del
divenire storico, di dare una visione di ciò che è realmente la società,
spogliata da tutte le illusioni" ( Raymond Aron (1905 – 1983) uno dei
più importanti pensatori liberali contemporanei).
I suoi libri furono messi all'indice poco dopo la sua morte per volere
di Gian Pietro Carafa che, prima di diventare papa con il nome di Paolo
IV. ottenne da Alessandro Farnese, Paolo III, l'istituzione della
Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione e una volta
salito al soglio di Pietro creò la Congregazione del terrore degli
uffiziali di Roma nella quale si auto elesse giudice supremo in quanto
rappresentante di Dio in terra.
Ma i veri nemici di Machiavelli furono gli stessi che travisarono il
pensiero di Galileo Galilei, i figli sciocchi di René Descartes che
scambiarono la scienza empirica, valida solo se suffragata da prove, con
il razionalismo che per essere credibile si accontenta dell'astratta
certezza delle scienze matematiche.
Cadde in questo equivoco anche Immanuel Kant nel suo saggio "Per la pace
perpetua" che, subordinando la politica a superiori valori morali, apri
la strada all'idealismo e quindi alle varie forme di "fede" ideologica
lontanissime dal realismo politico del segretario fiorentino.
Sbagliò anche il liberale Francesco de Sanctis sintetizzando il pensiero
di Machiavelli con la famosa e inopportuna frase "i fini giustificano i
mezzi" non applicabile a un autore che non volle "giustificare" nulla
proprio per fare dell’autonomia della politica dalla morale il fulcro
del suo pensiero.
Comunque a me sembra assurdo che dopo quasi cinque secoli si sia
aggravato il problema dell'incapacità di scelta e di decisione del "vulgo"
contrapposta alla scarsa cultura storica e scientifica e quindi alla
facoltà di imparare dagli errori, delle oligarche che esercitano il
potere reale.
Scriveva Niccolò: "è facil cosa, a chi esamina con diligenza le cose
passate, prevedere in ogni republica le future, e farvi quegli rimedi
che dagli antichi sono stati usati; o, non ne trovando degli usati,
pensarne de'nuovi, per la similitudine degli accidenti"
Come autore di teatro scrisse oltre al capolavoro assoluto "La
Mandragola", le commedie "Clizia" e "Adria", la prima, spiritosa
rielaborazione della "Casina" di Plauto e la seconda, riscrittura
dell'opera di Terenzio.
La Mandragola divenne anche uno spassoso film diretto da
Alberto Lattuada e
interpretato dal grandissimo Totò nella parte di frate Timoteo, da
Philippe Leroy nel ruolo di Callimaco, Rosanna Schiaffino nel ruolo di
Lucrezia, Jean-Claude Brialy nel ruolo di Ligurio, il mio amico Romolo
Valli nel ruolo del notaio Nicia, una più che credibile Nilla Pizzi nel
ruolo di Sostrata, Armando Bandini nella parte di Siro e
il mio amico Romolo Valli nel ruolo del notaio Nicia.
Alessandro
Manzoni (1785
– 1873)
Fu un pronipote della mia consanguinea Maria Visconti di Saliceto, madre
di suo nonno, l'autore del trattato Dei delitti e delle pene Cesare
Beccaria e quasi certamente figlio dell'amante di sua madre Giulia,
Giovanni Verri, fratello minore di Alessandro e Pietro Verri.
Alla morte di Carlo Imbonati, altro amante e convivente di sua madre si
trovò esageratamente ricco e plagiato da Giulia che gli impose come
moglie Enrichetta Blondel, sposata prima con rito calvinista e poi
spinta all'abiura della sua fede e risposata con rito cattolico.
Quattro anni dopo la morte di Enrichetta Alessandro si risposò con
Teresa Borri che, oltre a detestare la suocera. lo aiutò a rendere
l'ultima edizione dei Promessi Sposi, quella del 1842, il gioiello
letterario che tutti conosciamo.
Dopo il biennio rivoluzionario (1848-1849), Manzoni e Teresa si
trasferirono nella villa di Lesa sul Lago Maggiore che permise allo
scrittore di riconciliarsi, per merito di Antonio Rosmini alla "verità
oggettiva" che tradotto in linguaggio psicanalitico equivale a un minimo
principio di realtà che sapesse distinguere la pura invenzione
fantastica dalla sua interpretazione fattuale.
Naturalmente questa ulteriore "conversione", se da una parte lo aiutò a
vincere l'agorafobia, gli svenimenti continui, il timore delle
pozzanghere e altre bizzarre paure, gli costò, dopo la morte, i furiosi
attacchi della rivista dei gesuiti "La Civiltà Cattolica" anche se non
capitò ai suoi libri di essere proibiti dal Sant'Uffizio "Post Obitum"
come quelli del suo amico Rosmini che dal 18 novembre 2007 è venerato
come beato dalla stessa Chiesa che lo perseguitò: misteri della fede!
Fra tutto quello che è stato detto su Alessandro trovo impeccabile
quello che scrisse Giorgio Bassani: "la disinvoltura linguistica del
dialogo manzoniano cos'altro è se non il segno, la spia, di una
religione indifferente alla realtà, alla realtà così com'è intesa dai
romanzieri realisti?". Difficile in poche parole riassumere grandezza e
limiti di un collega romanziere!
Guy de Maupassant
(1850 -1893),
Il 5 Agosto nacque lo scrittore e drammaturgo Guy de Maupassant (1850
1893) del quale pubblicai nel i975 la riduzione teatrale del suo
romanzo "Bel Ami" scritta da Luciano Codignola per uno spettacolo del
Teatro Stabile di Torino con la regia di Aldo Trionfo le scene di
Emanuele Luzzati, la musica di Sergio Liberovici e un cast di eccezione:
Franco Branciaroli, Leda Negroni, Tina Lattanzi, Lucio Rama e molti
altri.
Sifilitico, drogato e pessimista più del necessario, dopo aver tentato
il suicidio fu internato nella clinica Maison Blanche di Passy dove morì
a 43 anni dopo diciotto mesi d'incoscienza. Lev Tolstoj fu il più
crudele dei suoi lettori quando scrisse "ho letto Maupassant: ti prende
con la maestria dei colori, ma non ha nulla da dire, poveretto",
naturalmente ebbe torto perché il suo nichilismo influenzato da
Schopenhauer e dalla moda antiborghese della sua epoca fu solo di
facciata mentre la sua scrittura, mai appesantita da analisi filosofiche
o morali, riuscì, in maniera straordinariamente sintetica ed
antiretorica a dare voce proprio a quei disperati, emarginati, ma
specialmente disprezzati, in maniera più convincente di Zola e dello
stesso Lev Tolstoj.
Era convinto che " i grandi artisti sono quelli che impongono
all'umanità la loro particolare illusione" ma seppe parlare della sua
psiche con una lucidità mentale che ebbe poca attinenza con l'illusione:
"ho paura dei muri, dei mobili, degli oggetti familiari che si animano,
per me, d'una vita animale.
Ho paura soprattutto dell'orribile turbamento della mia mente, della
ragione che mi sfugge, confusa, dispersa da una misteriosa e invisibile
angoscia"....."ebbene ho paura di me stesso, paura della paura; paura
degli spasmi del mio spirito che si smarrisce, paura di questa orribile
sensazione del terrore incomprensibile."
Con lui finisce il naturalismo e il verismo ed inizia l'epoca di un
esistenzialismo analitico, non giustificato da un male del vivere
generalizzato ma come malattia psichiatrica indagabile anche attraverso
il linguaggio.
Molière (1622 – 1673),
Jean-Baptiste Poquelin noto come Molière, nato a Parigi il 15 gennaio
del 1622 è secondo me più vivo che mai per aver scritto, dopo le censure
al suo Tartufo che mentre sino ad allora «i marchesi, le preziose, i
mariti cornuti e i medici» sopportarono senza strepito che li si
rappresentassero, «gli ipocriti non hanno proprio voluto saperne del
ridicolo e se ne sono subito irritati, trovando insopportabile che io
avessi avuto l’ardire di prendere in giro i loro difetti».
Nel 1982 pubblicai il suo "Tartufo" con la traduzione che ne fece Franco
Parenti e fu in quell'occasione che mi accorsi del segreto di quel testo
rivoluzionario: il coinvolgimento personale e autobiografico di Molière
stesso in un personaggio che si pùò definire "negativo" solo nella farsa
e "doloroso" nella sua dimensione tragica.
Se è vero come affermava Lucrezio che "Il genere umano è troppo avido di
frottole" non è certamente falsa l'idea di Ludwig Wittgenstein quando
annotava "non puoi non voler rinunciare alla menzogna e non puoi dire la
verità".
Fa commozione pensare all'Homo habilis che imparò a fingere suoni della
natura, gesti e versi di altri animali col nobile fine di mangiare prima
d'essere mangiato ma è più difficile avere la consapevolezza che quasi
tutte le idee e i comportamenti umani non sono altro che variazioni
della finzione o emulazione biologica.
Nell'incessante scambio fra finzioni astratte che divengono concrete e
fenomeni fisico-chimici che si smaterializzano, il vero capolavoro del
cervello rimane l'attitudine a trasformare il dolore in sofferenza e la
sofferenza in uno stupefacente continuum che va dalla più tragica
disperazione alla più imprevista felicità.
Si tratta qui di una predisposizione al teatro particolarmente
fantasiosa, arricchita da rappresentazioni.
Secondo questa prospettiva, i più antichi dolori legati alla nutrizione
(sazietà), alla difesa (accoglimento fra i membri della propria specie)
e alla rivalità, trasformandosi, sublimizzandosi, inventandosi, ci hanno
dato modo di recitare la parte degli esteti incalliti, dei perfetti
cittadini sempre alla ricerca di amore fraterno, dei leali eroi olimpici
degni della più ammirabile gloria. Insomma il "tartufismo" descritto da
Molière non è solo ascrivibile al senso comune che ci fa detestare
l'ipocrisia ma soffermandoci su molte battute di quella sublime commedia
come "il cielo proibisce in verità certi piaceri, ma con lui si trova un
accomodamento" o "è il pubblico scandalo ad offendere: peccare in
silenzio è non peccare affatto", sa anche farci partecipi di una
predisposizione umana che non è credibile attribuire sempre agli altri
come fecero i rappresentanti degli ambienti più conservatori e religiosi
della monarchia che chiesero a Luigi XIV di far correggere a Molière
l'opera, facendola finire con la sconfitta del Tartuffe e la vittoria di
Orgone, per consumare in tal modo l'ennesima ipocrisia nell'opera stessa
che avrebbe voluto combattere questo vizio.
Italo
Svevo
(1861 – 1928)
Lo scrittore e drammaturgo ebreo Aron Hector Schmitz, conosciuto con lo
pseudonimo di Italo Svevo, seppe trasformare l'ampolloso mito romantico
del binomio genio e sregolatezza in quello, più spiritoso e domestico,
di sopportazione e di "inettitudine".
Trascurò le pulsioni dionisiache di Friedrich Nietzsche per condividerne
le analisi sulla pluralità dell'io e scartò la pretesa di Sigmund Freud
di guarirci dalla nevrosi per sposarne le ambiguità e i limiti che
quella pretesa aveva svelato.
Per Svevo, solo sopportando la propria alienazione, si è in grado di
attuare una difesa possibile all'imposizione di una vita sociale
condizionata dal desiderio di rendere efficienti e razionali le pulsioni
vitali di ogni singolo individuo.
Era convinto che "a differenza delle altre malattie la vita è sempre
mortale.
Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel
corpo credendoli delle ferite.
Morremmo strangolati non appena curati" e considerò la possibilità
d'intuire qualche verità in " quegl'istanti rari che l'avara vita
concede, di vera grande oggettività in cui si cessa finalmente di
credersi e sentirsi vittima".
Fu per questo un nemico formidabile di chi, per non pagare mai il dazio,
sa solo elaborare tutte le sfumature che qualsiasi variazione della
parola olofrastica "NO" concede al lamento: "la legge naturale non dà il
diritto alla felicità, ma anzi prescrive la miseria e il dolore.
Quando viene esposto il commestibile, vi accorrono da tutte le parti i
parassiti e, se mancano, s'affrettano di nascere.
Presto la preda basta appena, e subito dopo non basta più perché la
natura non fa calcoli, ma esperienze.
Quando non basta più, ecco che i consumatori devono diminuire a forza di
morte preceduta dal dolore e così l'equilibrio, per un istante, viene
ristabilito. Perché lagnarsi? Eppure tutti si lagnano. Quelli che non
hanno avuto niente della preda muoiono gridando all'ingiustizia e quelli
che ne hanno avuto parte trovano che avrebbero avuto diritto ad aver una
parte maggiore. Perché non muoiono e non vivono tacendo?
È invece simpatica la gioia di chi ha saputo conquistarsi una parte
esuberante del commestibile e si manifesti pure al sole in mezzo agli
applausi. L'unico grido ammissibile è quello del trionfatore".
Quando si dice uno scrittore molto attuale!
Torquato Tasso
(1544-1595)
Nacque 11 marzo, figlio del veneziano Bernardo Tasso e di Porzia de'
Rossi e fratello di Cornelia, sposata con il nobile Marzio Sersale,
proveniva da un antica famiglia bergamasca che si divise in diversi rami
famosi per essersi inventati per primi il servizio di poste compreso il
ramo tedesco dei Thurn und Taxis.
Quello che mi ha sempre divertito di questo poeta è il fatto che
l'unico frutto letterario di genio partorito dalla gelida cattiveria
della controriforma sia l'opera di un pazzo che fra prigioni, manicomi e
conventi cercò di sentirsi responsabile dell'ortodossia cattolica, fino
al punto di autodenunciarsi alla Sacra Inquisizione, per mancare
completamente l'obiettivo che si era prefissato.
Nessuno purtroppo legge la sua Gerusalemme liberata ma il mito
dell'artista folle e incompreso trovò, prima in Goethe che gli dedicò
nel 1790 il dramma "Torquato Tasso" e poi in Giacomo Leopardi che nelle
"Operette morali" scrisse il "Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio
familiare" dove il povero poeta della controriforma diventa il pretesto
per creare il simbolo del conflitto individuo-società, del talento
personale che si contrappone al conformismo del potere.
Oltre a questo mito Torquato Tasso creò anche il personaggio della
perfida maga Armida, donna pericolosa e ammaliatrice capace di
distogliere con la sua bellezza e con le sue arti magiche la missione di
Dio e dei suoi santissimi crociati.
Difficile nominare tutti i musicisti che hanno composto opere
straordinarie per questa dea della perdizione, Albinoni, Salieri, Gluck,
Cherubini, Haydn e per finire la straordinaria Armida rossiniana: appare
comunque problematico, anche per il più ortodosso degli ammiratori del
Concilio di Trento, vedere in Maria Callas che esegue "D'amore al dolce
impero" uno strumento del demonio. Dedico queste note agli eroici patiti
della controriforma che, ne son certo, preferiscono al meraviglioso
fiabesco dell' Ariosto, in odore di eresia, quello del paladino Torquato
fatto di interventi soprannaturali di Dio, degli angeli e delle creature
infernali, un meraviglioso quest'ultimo reso più edificante per "la vera
fede" dall'unità di azione stabilita dai precetti aristotelici.
Raffaele Viviani
(1888 – 1950)
Quando la nuova borghesia fascista e quella della sinistra del dopo
guerra, gli girarono le spalle confidò: "le illusioni se ne vanno. Ho
fatto per l'arte tutti i sacrifici.
Ma il pubblico vuole soltanto ridere… divertirsi".
Certo basta leggere i versi dedicati alle morti bianche dei carpentieri
per entrare, senza equivoci, nel suo mondo tragico reso sopportabile dal
recupero della commedia dell'arte, della musica e perché no anche di una
capacità straordinaria nel far ridere:
"All'acqua e a ô sole fràveca
cu na cucchiara 'mmano,
pe' ll'aria 'ncopp'a n'anneto,
fore a nu quinto piano.
Nu pede miso fauzo,
nu muvimento stuorto,
e fa nu vuolo 'e l'angelo,
primma c'arriva, è muorto.".
Silvio d'Amico ritenne che le sue opere non avrebbero potuto
sopravvivere senza l'interpretazione scenica del loro autore e invece ci
pensarono Roberto Murolo, Nino Taranto ma anche e soprattutto Roberto De
Simone che orchestrò le sue musiche per lo spettacolo "Io Raffaele
Viviani" con Achille Millo, Antonio Casagrande, Marina Pagano, Franco
Acampora ed Eugenio Bennato che rielaborò la sua Festa di Piedigrotta.
Naturalmente i soloni di Einaudi rifiutarono di pubblicare i suoi testi
facendo la fortuna dell'edizione mondadoriana.
Di tutta l'icomprensione che per decenni ha riguardato la sua figura
rimane quello che scrisse la figlia Luciana Viviani: "le risposte
negative che ricevette non si discostavano per niente dai giudizi che i
vecchi santoni della cultura fascista avevano ripetutamente espresso in
passato.
Dopo la guerra l'ultima battaglia di Viviani fu il tentativo di dar vita
ad un teatro stabile d'arte a Napoli che riuscisse a fondere la grande
tradizione e l'innovazione.
Scriveva in una lettera a Giovanni Porzio, vicepresidente del consiglio,
nel 1948: “ i fascisti non avevano capito che la coscienza nazionale si
sviluppa solo valorizzando in pieno l'arte e la cultura che la genialità
del popolo crea in ogni regione.
E in una conversazione con Mario Stefanile: I giovani non sanno che
accanto a loro vi sono dei maestri, non sanno che vi sono dei tesori”
Frank Wedekind
(1864 – 1918)
Nacque il 24 luglio lo scrittore, drammaturgo e attore teatrale tedesco
Frank Wedekind per il quale pubblicai, con la mitica Casa Editrice
Anteditore, nel 1975 " Il gigante nano" in occasione della messa in
scena di quest'opera con la regia di Andrée Ruth Shammah e con Franco
Parenti, Enzo Consoli, Valeria d’ Obici, Raffaella Azim, Alessandro
Quasimodo, Paola Sangro, Alberto degli Uomini, Riccardo Peroni, Giovanni
Battezzato.
Questo autore, conosciuto specialmente per il suo capolavoro dedicato
alle fantasie erotiche "Risveglio di primavera" , elogiato da Jacques
Lacan che notò come i ragazzi non penserebbero alla sessualità "senza il
risveglio dei loro sogni", fu un coraggioso precursore del ritorno in
epoca novecentesca di un idea della morale di stampo nettamente laico e
liberale. Per lui, ma anche per me, "il più splendido affare di questo
mondo è la morale" e " il peccato è una definizione mitologica per gli
affari andati male"
Fra tutto quello che ha scritto e detto vorrei citare una sua frase che,
nella sua semplicità e straordinaria ironia, ha il fascino
dell'illuminazione: "la vita non ha piacere e non è cortese con noi né
ci è favorevole, se la si prende troppo sul serio".
John Lennon una vita complicata
Vinicius de Moraes poeta della lontananza
Scritti su Fabrizio De Andrè e Lucio Battisti
Incontri un po' speciali:
Carmelo Bene, Roberto Benigni, Marlon Brando,
Maria Callas, Federico Fellini, Roberto Guicciardini, Marcello
Mastroianni,
Mario Monicelli, Aldo Palazzeschi, Paolo Poli, Anna Proclemer,
Ettore Scola,
Alida Valli, Luchino Visconti e Cesare Zavattini
II
mio amico Ivan Graziani
Ancora canzoni & saggio su Renato Zero:
incontri con Sergio Bardotti, Renato Carosone, Domenico Modugno,
Gianna Nannini, Roberto Vecchioni.
Note su John Lennon, Gino Paoli, Elvis Presley, Paul Simon, Rod
Stewart, Sting e Stevie Wonder
Attrici & Dive:
Joan Crawford, Greta Garbo, Eleonora Giorgi, Daria Halprin, Audrey
Hepburn.
Angelina Jolie, Nicole Kidman, Vivien Leigth, Virna Lisi, Sophia
Loren, Pupella Maggio,
Lea Massari.Mariangela Melato, Giovanna Mezzogiorno, Marilyn
Monroe, Julia Roberts
Scrittura & Cinema:
Jane
Austen, Giovanni Boccaccio, Heinrich Böll, Gesualdo Bufalino,
Albert Camus, Truman Capote, Suso Cecchi D'Amico, Agatha Christie,
Jean Cocteau, Gabriele D'Annunzio,
William Faulkner, Francis Scott Fitzgerald, Ian Fleming,
Gustave Flaubert,Tonino Guerra, Peter Handke, Milan Kundera, David
Herbert Lawrence,
Henry Miller, Eugene O'Neill, John Steinbeck, Bram Stoker, Giuseppe
Tomasi di Lampedusa, Oscar Wilde, Tennessee Williams
Il Rovescio della Medaglia, considerazioni sui luoghi comuni
Il Fingitor cotese sapere come finzione
|