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Luigi Granetto: scrive nel 1982 quattro saggi dedicati a Guido e Maurizio de Angelis, Vinicius De Moraes, Luigi Tenco, Nino Manfredi e Ivan Graziani per "Hit Parade International" collana realizzata a cura della divisione Grandi Opere della Armando Curcio Editore

Ivan Graziani di Luigi Granetto

Il grande macigno di quaranta tonnellate, sostenuto da tre pietroni aguzzi a Proleek nella contea di Louth, per secoli fu motivo di armoniose ballate con le quali poeti e pastori occasionali cantarono le stravaganze della natura. Ma un giorno qualche archeologo dimostrò ai britannici che quell’ammasso di pietre era una tomba megalitica costruita quando nella nebbiosa isola era in pieno fiore una vigorosa e ben distinta cultura. Ivan Graziani non ha l’aspetto megalitico anche se una certa sua rudezza di linguaggio, il muoversi non propriamente come la Fracci potrebbero suggerire ad un occhio attento certe sue discendenze risalenti a qualche annetto prima di Cristo. Comunque se ad Ivan capiterà di finire al Pincio, marmorizzato su un piedistallo, molto probabilmente,sotto il mezzo busto, i dipendenti  del ministero dello spettacolo scriverebbero: <<un laconico rockman>>. Se togli ad Ivan il vestito rock sotto ci trovi l’abruzzese; se gli togli l’abruzzese ci trovi il contadino che balla il saltarello sotto il Gran Sasso, indossando collane di aglio come in Transilvania; se togli il contadino ci trovi il rispettabile Doctor Jekyll, poi Mr. Hyde e poi Gabriele D’Annunzio e poi...a dar rappresentazione di un tipo così si finisce in manicomio, meglio accontentarsi di qualche brandello sparso qua e là da lui stesso in una splendida mattina alle otto, quando i lupi e i  cantautori impegnati vanno a dormire, mentre i Graziani, i Venturi e i dipendenti Atac attratti dall’irresistibile fascino di Michele Mondella, che in quelle ore albeggianti organizza le glorie future dei dormienti, con stoicismo si danno alle affabulazioni per magnetofono, s’allenano scazzottando nell’aria per salire due ore dopo la pedana di Discoring. Il luogo dove si consumano simili bravate è quasi sempre uno di questi grandi alberghi un po’ freddi ma che hanno il merito d’essere ubicati nel bel mezzo di un qualche crocevia strategico tipo RAI, sala d’incisione, Ciao 2001, RCA, Mondella, autostrada per fuggire e che si chiamano sempre con nomi presi a prestito dalla toponomastica del quartiere: Fleming, Giulio Cesare, Cicerone ecc. E’ importante fornire ai curiosi questi particolari perché in quest’epoca d’infrenabili desideri demitizzatori non è di poco conto sapere che i cantautori non vivono quasi mai dove vorrebbero: Guccini nel suo Appennino tosco-emiliano, Paolo Conte nell’affascinante e perversa Asti, Graziani all’ombra del verde Gran Sasso, ma pur non parlandone quasi mai devono posare gli occhi tutti sugli stessi panorami da commessio viaggiatori, fatti di autogrill d’autostrada, alberghi di passaggio, dove Byron o Goethe non entrerebbero neanche sotto forma di pocket, e accecanti studi televisivi dove si suda più che in Giamaica, senza il beneficio delle palme e del calipso. Probabilmente questa condizione umana da coscritti volontari fa esplodere in loro il desiderio di cantare e di raccontare storie ambientate in fantastici e improbabili spazi della mente. Nell'intervista qui di seguito trascritta, Ivan Graziani si lascia andare a divagazioni storico-antropologico-folcloristiche che, se hanno il merito di confondere ancora di più le idee ai pianificatori della cronaca, non rinunciano a rappresentare Ivan nella sua natura più vera: quella dell'imprendibile, simpaticissimo e scatenato satiro greco del rock.
« ...Si, vengo dall' Accademia di Belle Arti di Urbino dove nel '68 mi sono diplomato pittore. Avevo scelto questa scuola perché nelle vicinanze era l'unico luogo dove c'era una certa apertura mentale, ma in realtà non avevo nessuna intenzione di fare il pittore ed è così che mi misi a disegnare cartoons. Per due anni e mezzo lavorai moltissimo con la Svezia dove riuscii a guadagnare fino a 120.000 lire a striscione, perché uno di quei giornali del cavolo aveva scoperto che da quelle parti, stufi di fotografie ginecologiche, preferivano dei disegni che consentivano alla fantasia di spaziare. I miei disegni comunque non erano come queste porcherie che si vedono adesso in Italia, senza tratto, senza un'anima, perché semplicemente ricalcati dalle fotografie pornografiche di giornali tipo " O. V. "; i miei personaggini ricordavano quelli che si possono vedere su Linus, solo che erano pupazzetti scopatori. Il ridicolo di quella mia situazione di allora è che, laureato pittore, non sapevo nemmeno come si mescolano i colori per via che metà del mio tempo ad Urbino lo passavo alle lezioni di scultura, perché, beati loro, avevano delle modelle interessantissime, mentre invece noi avevamo soltanto il solito "negraccio" dell'università che veniva lì, oppure delle "budrigone" nefaste per farci posare gli occhi sulle forme primordiali... Non ero insomma preso dal fuoco dell'arte e per fortuna poi mi sono messo a suonare; anche se a dire la verità questo mestiere del cantante l'ho fatto molto per "fame" e se fosse possibile in Italia mangiare disegnando, forse mi piacerebbe ricominciare daccapo perché un disegnatore è libero di fare quello che vuole mentre un cantante è sempre nelle mani di troppa gente ».
Ma tutto questo cosa c'entra con il rock?
Già da questa prima parte dell'intervista si può arguire una fin troppo palese tendenza del nostro ., più a procacciarsi Insensati piaceri carnali che a rinchiudersi in una meditazione foriera di elevazioni spirituali. Il maschiaccio mostra il suo aspetto di godurioso sfrenato, di giramondo scapestrato e noi parafrasando una sua nota canzone gli chiediamo: « Ma tutto questo cosa c'entra con il rock? ».
 « Il rock è tutto l'universo possibile anche perché il rock è nato in Abruzzo. Ho sviluppato questa teoria, che per me non è molto lontana dalla realtà, suonandolo per anni con passione e capendo i meccanismi più reconditi ed insospettabili che si muovono al suo interno. Il rock and roll oltre ad essere il figlio spurio dei negri che si tacevano "menare" nelle piantagioni e della country-music popolare, anch'essa fatta di un misto di gospel-blues-ballate irlandesi e cose di questo genere, è una musica alla cui base c'è la chitarra battente e che, siccome gli americani non hanno mai inventato un tubo, ma di solito hanno predato tutto, se la parte nera se la sono pappata dai negri, quella bianca l'hanno fregata a noi. Nella seconda metà dell'8OO in America c'erano più abruzzesi che indiani... e questi disgraziati oltre a lavorare come bestie avranno cantato e ballato le loro cose, se non altro come ricordo del loro paese, e tra queste la più sentita e importante è il saltarello che è un tempo molto simile alla tarantella, simile al ballo tondo che c'è in Sardegna. Durante questi anni ci sarà stata, non dico una fusione, ma tutti questi generi musicali saranno andati di pari passo tino a quando una nuova lingua e una nuova nazionalità non avranno fagocitato tutte le etnie spagnole, italiane, negre, ecc. facendo nascere una nuova musica, appunto il rock and roll. Il santone del rock and roll come tutti sanno, è Elvis Presley il quale riunisce anche come persona una miriade di elementi diversi: la tradizione negra che conosceva da vicino perché Memphis è una città del profondo Sud, le tradizioni melodiche e sdolcinate delle ballate dei cowboy e un nuovO modo di muoversi e di porsi al pubblico, che, pur ricordandoli, non ha niente da spartire con la ritualità dei movimenti dei negri. Forse è più vicino alla sfrenatezza del tarantolato che da solo segue il ritmo fino a non vedere chi gli sta intorno. Elvis comunque è stato il portabandiera di questa musica, è uno che ci è arrivato dopo centocinquanta generi musicali ma che se non cantasse in "battere" non ci si ricorderebbe di lui. Il cantare in battere lo deve proprio alle tradizioni musicali dell'area mediterranea. Infatti se io faccio una statistica della musica popolare del Sud d'ltalia come del Sud della Spagna, su dieci momenti musicali di varie regioni,otto sono sicuramente in battere,se devi trovare qualcosa di armonioso, di grecizzante, devi andare verso...non so... un po' in Val di Non,dove fanno cose stranissime, oppure devi andare a Trieste, dove però stenti a credere di essere ancora in Italia. Comunque, senza fare troppo gli storici, io credo che anche se il rock fosse nato indipendentemente dalle nostre tradizioni, esso funziona magnificamente qui da noi e si adatta al bisogno di divertimento che anche nelle nostre musiche si poteva riscontrare. Il divertimento, che non è una stronzata ma è una cosa seria, è il 90% del rock, l'altro 10% serve per chi, come me, vuole usare questo genere musicale per cercare di dire qualcosa. Il divertimento, è qualcosa che richiama la stessa dimensione magica e rituale dei nostri canti tradizionali. Io ho scritto una canzone  "Il prete di Anghiari", che è tutta impostata su queste dimensioni. La musica rock serve anche per ballare in un certo modo e ballando si esorcizza la paura; tutto questo io l'ho potuto studiare presso i contadini abruzzesi che ho avuto la fortuna di conoscere molto da vicino perché mio padre faceva il fotografo dei matrimoni e quindi aveva in mano il racket di tutto il contadiname di quella zona e andando con lui da ragazzino ho imparato un sacco di storie magiche. Per ritornare al "Il prete di Anghiari", se no qui per riparlare delle radici del rock potremmo risalire ai dinosauri, anche se quella canzone parlava di una situazione toscana, volevo in qualche modo unire la passione per il rock alla dimensione magica, anche se poi difficilmente con un pezzo veloce si riesce a creare una tensione magica a meno che non si rinunci alle parole e ci si affidi; solo al potere frenetico di liberarti la testa che questa musica possiede. Il pezzo lento che però è poco rock ha invece il potere, magari con rumorini e sonagliere, di costringere la mente a sognare figurativamente qualcosa di molto intenso come un quadro surrealista. Quando con il pezzo veloce sono riuscito a dare al pubblico energia vitale, a liberargli il cervello verso chi sa quale orizzonte, ci metto dentro quel famoso dieci per cento d i contenuti che lo inchiodano sulla sedia e io questa cosa, anche se sul palcoscenico non vedo nessuno, la sento molto bene. Con il rock si riescono a dire cose molto intelligenti, ancora di più che con la ballata la quale ti dà un grandissimo aiuto perché la gente, se non si addormenta prima ci entra dentro dolcemente, ma il rock, proprio perché è spigoloso, angoloso nella costruzione metrica, ti lascia la libertà di scrivere versi che non sono versi, ti dà la possibilità di dare una mazzata in testa alla retorica. Sfido chiunque a musicare parole come quelle di " Monna Lisa " con un genere musicale diverso dal rock; per inseguire quelle parole, specialmente negli stacchi, sono andato letteralmente in manicomio: "II custode si lamenta probabilmente vuole un'altra botta in testa, ora ". Se tu entri dentro a questo gioco demoniaco che ha il rock, tu puoi parlare di una sedia ed essere interessante».
D' Annunzio-dipendenza Sui testi dei cantautori alcuni critici " ritardati " , nel senso che ritardano la capacità di concepire il nuovo, sono riusciti a scrivere corbellerie inimmaginabili per difendere ad oltranza Dante e Petrarca che, ne sono sicuro, non gliel'hanno mai chiesto. La poesia, o metodo di parlare per simboli e analogie di quello che si vuole, è una maniera di comunicare vecchia come il mondo e, per quanto vi sia una moltitudine di persone che sostiene il contrario, è uno dei saperi più cari alla gente comune, la quale, travolta dalle ideologie sempre più complicate dei potenti, si abbandona ad essa come ad una vecchia amica di famiglia che fin dalla nascita, non sapendo da dove venga e da quale parte sia entrata, si accetta benevolmente. E' certo però che, come esistono automobili da nababbi e vecchie carrette ad uso dei giovani e dei pensionati, così anche la poesia ha i suoi sfarzi e le sue dignitose povertà: quella del cantautori è mediamente benestante. Come tutti i benestanti anche questa diva provinciale ha i suoi modelli da imitare, una moda da seguire, una dignità composta da mostrare, senza che tutto ciò le torni a discredito. Fra i lampioni e le torce di questo firmamento il fuoco di D' Annunzio brilla spesso più intenso; egli, con il suo vivere squinternato, con le sue contraddizioni irrisolvibili, fu poeta totale e tramandò ai posteri il suo «sapere poetico» nel bene e nel male, nel ritmo e nel gratuito, nel sangue e nei canapè. Ivan Graziani si dichiara D'Annunzio-dipendente e, nel prendersi tutte le responsabilità per tale abominevole vizio, abbassa la voce, dondola ambiguamente il capo come per dire oso o non oso ma poi... si lascia andare alla sua solita verve un po' scurrile e riesce a ricomporre il proprio personaggio, troppo originale per dover seriamente render conto al plateale principe di Montenevoso:
« Gabriele D'Annunzio, almeno per me, che dopo averlo studiato a scuola un po' distrattamente ho dovuto per irresistibile curiosità ripescarlo da adulto, mi ha fatto andare in manicomio, mi ha fatto scattare una molla poetica, quasi una droga, che entrava in tutto ciò che scrivevo, una bibbia dell'immaginifico, che mi faceva partire contemporaneamente per cinque, sei, sette, anche venti direzioni diverse. Certo che, per quello che riguardava lo scrivere, questa frenesia è stata la mia fortuna ma anche la mia disgrazia perché alla fine ne sono rimasto dipendente. Quando una persona come lui ti ha preso tu diventi Doctor Jekill & Mr. Hyde, e qui veniamo al discorso che io faccio sempre quando mi intervistano, alterni le cose tenere e le cose più violente. " L 'innocente " è un libro straordinario in quanto mai cosa più orrenda e schifosa fu perpetrata con altrettanta tenerezza... e in questa situazione paradossale poetica, perché in fondo non logica, ci ritrovi la forza delle tradizioni della nostra terra abruzzese che vicino al segno positivo mette sempre quello negativo, anche se poi credo che in mezzo ci finisca quella cosa che non patteggia né per l'uno né per l'altro e che si chiama ironia. Anche la canzone " Gabriele D'Annunzio " l'ho scritta per rimuovere questo personaggio così importante nella mia vita e farlo scendere dal suo piedistallo; infatti io ho conosciuto un Gabriele D'Annunzio che faceva il contadino: era orribile, privo di qualsiasi personalità, ubriacone, reietto; era uno straccio d'uomo che l'unico rapporto che poteva avere era con le bestie... e il suo più grande colpo erotico è stato a Milano, a Parco Ravizza, dove andò con 11 cappotto nudo sotto, a far paura alle bambine. Pensa che divertente per uno che si chiama Gabriele D' Annunzio, che è stato il re dei sofà, dei letti di tutte le donne meglio del mondo, essere un disgraziato ma forse, a suo modo, anche lui un poeta ».
Il fatidico ultimo disco anche nella più squinternata delle interviste, dopo aver fatto il punto sugli ultimi ritrovamenti etnologici su un'isola dimenticata del Pacifico, l'interesse, il demone che governa il mondo, come un biscione silenzioso ma perfidamente presente, riesce ad insinuarsi piano piano nel discorso fino a farlo cadere sul fatidico ultimo disco. L'ultimo disco di un cantante serve a molti usi stravaganti come per esempio far innamorare, fornire una colonna sonora per lunghissimi viaggi autostradali, invogliare nei supermercati l'acquisto di salamini e detersivi, riempire i palinsesti radiofonici; ma per chi l'ha fatto serve soprattutto per essere venduto ed è naturale che non vi sia cantante al mondo che rinunci a parlarne con entusiasmo. Il critico dovrebbe evitare di scendere così in basso, ma una volta travolto dall'impeto del mercato cercherà, con ineffabile equilibrio, di esporre le sue ragioni. Io non sono un critico e mi posso quindi permettere di dichiarare tutto il mio entusiasmo per questo LP doppio, inciso dal vivo, dove finalmente un cantante rock italiano entra nelle case con il suo suono originale, i rumori della piazza, l'entusiasmo che ti dà il cantare dal vivo senza quella mediazione della sala d'incisione, dove musicisti spropositatamente bravi diventano, con l'aiuto dei tecnici, stratosferici.
« I due dischi rappresentano la somma del lavoro registrato per tre anni in tutte le città d'Italia. Ho preso il concerto a Villa Gordiani a Roma, quello che feci nello stadio di Catania e poi a Pesaro, dove ho suonato quel pezzo nuovo che era nella colonna sonora del film " II grande ruggito " di Noel Marshall. Ho preso quindi un'enormità di materiale, il meglio tecnicamente parlando, lasciando perdere se in quei nastri vi era registrato il successo del pubblico in quella sera, anzi per quest'ultimo ingrediente, necessario per un disco dal vivo, in sala d'incisione, quando abbiamo cucito i vari brandelli del discorso sonoro, ho cercato in alcuni punti in cui, magari, mancava l'entusiasmo perché in quella sera eravamo, che ne so, attaccati direttamente al mixer, di ricreare quella che era la situazione più normale. Questo è comunque l'album che preferisco in assoluto, un po' perché ci stanno le canzoni a cui sono più legato: perché c'è " Doctor Jekill e Mr. Hyde ", " Angelina ", " Taglia la testa al gallo ", " Pigro ", c'è " Fuoco sulla collina " che è in assoluto la mia canzone che amo di più, c'è " Lontano dalla paura ", ...una specie di " medley ", una canzone attaccata all'altra, di " Addio Lugano addio " con " Paolina " e con " Agnese ", poi c'è " Motocross " che naturalmente non può mancare e poi c'è ,.. Monna Lisa " e " Digos Boogie " che sono legate assieme e sono state prese in quella splendida manifestazione al concerto delle caserme aperte l'anno scorso a Bari. Per la prima volta ho adoperato la mia band, più o meno a me in sala d'incisione hanno sempre messo persone eccezionali, ma non so perché non hanno mai voluto che utilizzassi i ragazzi che in questi anni hanno suonato con me nelle tournée. Mi hanno detto i dischi sono una cosa diversa, figurati se io che devo la mia fortuna alla sala d’incisione do loro contro, magari contraddicendomi non sono mica matto! Però, insomma, ho avuto una soddisfazione da quel punto di vista perché quando ho messo il materiale sul piatto della sala d’incisione, mi sono reso conto quell’energia che volevo tirare fuori, soltanto in quel modo poteva uscire. L’album si chiama "Parla tu" che è una vecchissima canzone del ’67 terzinata alla Otis Redding che ho voluto prendere per un fatto di nostalgia, è una canzone firmata Lo Vecchio-Vecchioni e quindi siamo in clima di rimembranze pesanti>>.  

Seni e coseni
Nei commenti con  i quali alterno la viva voce magnetofonicamente riportata di Ivan, parlo di D’Annunzio-dipendenza per giustificare tutta una serie di domande su questo argomento che gli feci la famosa mattina dei <<desti per disperazione>>.
Questo disco risente di Venditti-dipendenza perlomeno nel lato 1, per poi ricomporsi in grazianitudine nel lato 2. Il Giano bifronte in cerchio sonante è in fatti da una parte quattro canzoni lente che più adagio non si può, dove un piano addolcisce un ascolto rievocante folkstudi e simili cave, e dall’altra è di rock ivanesco, truffaldino e insinuante pieno di ridanciane trovate che sottolineano testi forse un po’ troppo sicuri di sé. Nel volto sereno, la fronte: Ehi Padre Eterno è un blues con organo tradizionale e coretti come insalata; il naso: Signorina, che più Venditti non si può, racconta una storia verosimile di professoressa innamorata di certo Raimondo, il poeta diciottenne adescato; la bocca: Pasqua, una meravigliosa lirica cantata un po’ di nascosto dove il ricordo di un amore passato la fa da padrone; e infine il mento: Cleo, un testo moderno che parla di echi antichi, che mi ha dato l’idea di parlare di un disco di vinile come fosse la statua di un dio dell’antichità.
Nel volto imbronciato ritrovi subito Oh mamma mia, rockaccio virtuosistico erotico-culturale, e poi segue: Tigre, dove lo sporcaccione esagera un pochino e si fa perdonare solo per il verso: << siamo bizantini ma non siamo cretini >>. Digos Bolgie è un capolavoro e sfido a non ridere nel sentire questo pezzo dove i terribili agenti segreti italiani, << tutti quanti poliziotti da quattro generazioni >>, camminano per << violetti scuri-scuri a spiare le coppiette appiccicate a far l’amore contro i muri >>. Chiude l’imbronciato dio bifronte: Ugo l’italiano, poesia di nebbia, di sogni radiosamente inconcludenti, accompagnata da un rock lento che spinge la puntina verso il baratro del nulla e le ultime parole di Ivan che si possono dire sono: << Soltanto un po’ di decisione e la nave che adesso vedi ferma è già pronta per salpare >>.
Viaggi e intemperie
Per quanto uno s’innamori del proprio suono, specialmente se lo ha portato al successo, arriva il momento per un musicista di negare se stesso e di avere coraggio.
Viaggi e intemperie nasce dall’incontro fra uno dei più sensibili e capaci musicisti italiani, Giovanni Tommaso, e l’incredibile mestiere da bestia del rock con il quale Graziani è riuscito, non si sa come, a superare le anguste e un po’ limitate vie stereotipate della musica leggera.
Le prime tre canzoni dell’LP, Firenze, Isabella sul treno e Olanda, tutte e tre arrangiate da Tommaso, presentano un gusto incredibile nel dosare archi, percussioni e tastiere in maniera da non soffocare la voce che in Firenze inizia da sola e viene poi coccolata e accompagnata nei sempre tortuosi testi di Ivan.
Viaggi e intemperie oltre a queste finezze per orecchi fini è però anche il disco di Tutto questo cosa c’entra con il r. & r.? , una delle più belle canzoni di Ivan, nella quale si racconta di uno stupro e di altri dettagli abbastanza orribili con il gusto polemico anche della voce del miglior Cementano e del miglior Bennato fusi insieme. Gli altri pezzi del disco, eccettuando Radio Londra che potrebbe essere il canovaccio di un film sulla guerra, dove fra i due contendenti alla fine vince la natura, sono più leggeri e vanno ad aggiungersi a quelle notazioni d’amore, di costume, di gioia, con le quali il ragazzaccio suole adornarsi il capo per librarsi leggero su un campo fiorito
Agnese dolce Agnese
Dopo un album strepitosamente bello come Pigro sarebbe stato abbastanza normale che fosse uscito quello che i critici chiamano << un buon LP di passaggio >>, dove di solito il cantante in oggetto, cercando disperatamente di rifare un colpaccio, si affida più alla consolle che alla propria anima, con il risultato sofisticatissimi suoni un po’ asettici.
Agnese dolce Agnese non risponde a questa regola e in parte è forse un disco ancora più importante di Pigro, probabilmente perché i due dischi escono nello stesso anno e Ivan non è certo un cantante incline a diveggiare, a lasciarsi andare alla pigrizia del successo; all’incalzare dei discografici lui risponde lavorando e poi lavorando e poi lavorando. Le canzoni di questo LP sono ancora oggi fra le più richieste ai concerti e infatti molte sono state riprodotte dal vivo nello splendido LP doppio Parla tu Taglia la testa al gallo, Il piede di San Raffaele e Il prete di Anghiari fanno parte di quel filone di nostalgia per una dimensione magico-popolare. Veleno all’autogrill, Fame e Doctor Jekill e Mr. Hyde sono tre canzoni della tradizione grazianea << sbandati-disperati-dispersi >>, situazioni di tutti i giorni raccontate con antiretorica qualità oro, con musica che non concede spazi al romantico o al casuale, sono le famose canzoni che inchiodano sulle sedie e che vanno ascoltate con partecipazione e serietà.
Fuoco sulla collina, quella che Ivan definisce la sua più bella canzone, è un quadro di Manritte, il sogno entra nella vita e viceversa, ma rimane precisamente il senso profondo del reale nei suoi aspetti multiformi, imprendibili e contraddittori. Canzone per Susy, Modena Park e Agnese, che dà il titolo all’LP, vivono nella dimensione dell’eterno femminino dal quale Ivan non saprà staccarsi neanche a 103 anni ma che sa trattare con una grazia e un savoir faire veramente invidiabili; e poi cosa sarebbe la canzone d’autore se confacesse rima ogni tanto con amore ?
Pigro
Siamo nel 1978, Ivan ha fatto di tutto: il disegnatore porno, il sessionman in tutte le sale d’incisione siano esse mulini, castelli o cave; ha collaborato con Battisti, che è un grande onore; con la Premiata Forneria, che è un grande trip; con Antonello Venditti che è come laurearsi cantautore ad honorem, ma, come quel muratore di Amarcord che dopo aver elencato il lavoro dei propri avi a << fare mattoni >> si chiede << e la casa dov’è? >>, così Ivan aspettava quel successo pieno, anche economico, che lo avrebbe finalmente fatto conoscere come uno dei più preparati e creativi cantanti presenti sulle scene italiane.
Le canzoni dell’LP sono tutte notissime.
Monna Lisa, un rock folle con delle parole folli dove un povero ladro vuole giustamente rubare il capolavoro di Leonardo perché sente che gli appartiene,un atto di amore opposto ai fiumi di retorica e di scemenza che esalano dalla nostra scuola: <<la scuola è una gran cosa / e soprattutto se ti insegnano ad amare / i capolavori del passato / però è un peccato che tu non li puoi / vedere / né toccare / la cultura mi sorride / tra le ombre e le tende di velluto / ed io sto torturando / la tela con il rasoio e con le unghie / con le unghie >>. Scappo di casa, la storia di un balordo che vive l’indifferenza del gran gesto, una canzone ironicamente tragica. Sabbia del deserto, una lunga balla rock sulle situazioni di provincia, quasi una canzone di Paolo Conte se fosse giovane e abruzzese. Al festival slow-folk di Bi-Milano, un fantastico onseguirsi di trovate poetiche, ridanciano-geniali, per un’atmosfera surreale conosciuta da molti la esplicabile da pochi. Fango, che continua la tradizione delle storie nere aperte con Motocross scivolando in questo caso forse un po’ troppo nell’orribile. Gabriele D’Annunzio, di cui abbiamo riferito abbondantemente a proposito della D’Annunzio-dipendenza. Paolina è una delle canzoni più belle e richieste di Ivan forse perché con Paolina s’identifica una miriade di donne indecise, di demi-vierges. Con questo pezzo Ivan riscatta, almeno per una volta, la sua tendenza a parlare di cose atroci e a satireggiare su tutto; se non lo conoscessimo come Doctor Jekill e Mr. Hyde potremmo anche credergli. Pigro, la canzone che ha dato il titolo all’LP, è uno di quei bozzetti ben riusciti che diventano il simbolo di un tipo d’uomo sotto gli occhi di tutti: il pigro intellettuale sempre pronto a sapere tutto, sempre l’ultimo a metter in pratica le sue idee.
I lupi
Ho conosciuto Ivan al Mulino quando collaborava come chitarrista con Antonello Venditti al poco fortunato album Ullalla. Ho dei ricordi bellissimi di quell’esperienza, per la prima volta ho visto due persone completamente diverse notissimo e sicurissimo l’uno, sfigato e con nessuna voglia di arrivare l’altro stringere un’autentica amicizia umana ed artistica. Antonello, con un’ipersensibilità che solo chi gli sta vicino in certi momenti può scoprirgli, si mostrava imbarazzato per una divisione dei ruoli che gli sembrava del tutto casuale e, più di una volta, volle interrompere il proprio lavoro e far cantare ad Ivan le sue nuove canzoni. I lupi risente di quest’atmosfera e di questa amicizia; infatti il disco fu prodotto da Antonello Venditti, il quale aiutò Ivan a ritrovare la sua personalità più autentica non appianando lacerazioni e contraddizioni, rabbie e incongruenze per un ecologismo dell’anima buono per la grande coppia Mogol-Battisti, ma impensabile per un rockman scatenato e sanguigno come lui. I lupi è un album fatto di rabbia, registrato in una settimana e mezzo,però con grande allegria e grande menefreghismo con tutta la solita equipe del Mulino: Hugh-Bullen al basso, Claudio Moioli al piano elettrico, Walter Calloni alla batteria e Antonello Venditti al piano. La canzone che dà il titolo all’intero LP è la storia di un soldato che ha sepolto la sua divisa tra << i cespugli della Spagna >>, che ha << spezzato il suo fucile >> e che ama tornare nei posti dove è stato per non dimenticare l’orrore della guerra. Fra le canzoni più importanti di questo LP la celeberrima Motocross   che inaugura quello che tanti chiamano il filone nero, quello delle storiacce raccontate senza quel pathos un po’ romantico che caratterizzò il repertorio della mala, ma con una freddezza da rotocalco rotta qua e là da una buona dose d’ironia grazianesca.  



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