Luigi
Granetto: scrive nel 1982 quattro saggi dedicati
a Guido e Maurizio de Angelis, Vinicius De Moraes, Luigi Tenco, Nino
Manfredi e Ivan Graziani per "Hit Parade International" collana
realizzata a cura della divisione Grandi Opere della Armando Curcio
Editore
Ivan Graziani
di Luigi Granetto
Il grande macigno di
quaranta tonnellate, sostenuto da tre pietroni aguzzi a Proleek nella
contea di Louth, per secoli fu motivo di armoniose ballate con le quali
poeti e pastori occasionali cantarono le stravaganze della natura. Ma un
giorno qualche archeologo dimostrò ai britannici che quell’ammasso di
pietre era una tomba megalitica costruita quando nella nebbiosa isola era
in pieno fiore una vigorosa e ben distinta cultura. Ivan Graziani non ha
l’aspetto megalitico anche se una certa sua rudezza di linguaggio, il
muoversi non propriamente come la Fracci potrebbero suggerire ad un occhio
attento certe sue discendenze risalenti a qualche annetto prima di Cristo.
Comunque se ad Ivan capiterà di finire al Pincio, marmorizzato su un
piedistallo, molto probabilmente,sotto il mezzo busto, i dipendenti
del ministero dello spettacolo scriverebbero: <<un laconico rockman>>.
Se togli ad Ivan il vestito rock sotto ci trovi l’abruzzese; se gli
togli l’abruzzese ci trovi il contadino che balla il saltarello sotto il
Gran Sasso, indossando collane di aglio come in Transilvania; se togli il
contadino ci trovi il rispettabile Doctor Jekyll, poi Mr. Hyde e poi
Gabriele D’Annunzio e poi...a dar rappresentazione di un tipo così si
finisce in manicomio, meglio accontentarsi di qualche brandello sparso qua
e là da lui stesso in una splendida mattina alle otto, quando i lupi e i
cantautori impegnati vanno a dormire, mentre i Graziani, i Venturi e i
dipendenti Atac attratti dall’irresistibile fascino di Michele Mondella,
che in quelle ore albeggianti organizza le glorie future dei dormienti,
con stoicismo si danno alle affabulazioni per magnetofono, s’allenano
scazzottando nell’aria per salire due ore dopo la pedana di Discoring.
Il luogo dove si consumano simili bravate è quasi sempre uno di questi
grandi alberghi un po’ freddi ma che hanno il merito d’essere ubicati
nel bel mezzo di un qualche crocevia strategico tipo RAI, sala
d’incisione, Ciao 2001, RCA, Mondella, autostrada per fuggire e che si
chiamano sempre con nomi presi a prestito dalla toponomastica del
quartiere: Fleming, Giulio Cesare, Cicerone ecc. E’ importante fornire
ai curiosi questi particolari perché in quest’epoca d’infrenabili
desideri demitizzatori non è di poco conto sapere che i cantautori non
vivono quasi mai dove vorrebbero: Guccini nel suo Appennino
tosco-emiliano, Paolo Conte nell’affascinante e perversa Asti, Graziani
all’ombra del verde Gran Sasso, ma pur non parlandone quasi mai devono
posare gli occhi tutti sugli stessi panorami da commessio viaggiatori,
fatti di autogrill d’autostrada, alberghi di passaggio, dove Byron o
Goethe non entrerebbero neanche sotto forma di pocket, e accecanti studi
televisivi dove si suda più che in Giamaica, senza il beneficio delle
palme e del calipso. Probabilmente questa condizione umana da coscritti
volontari fa esplodere in loro il desiderio di cantare e di raccontare
storie ambientate in fantastici e improbabili spazi della mente.
Nell'intervista qui di seguito trascritta, Ivan Graziani si lascia andare
a divagazioni storico-antropologico-folcloristiche che, se hanno il merito
di confondere ancora di più le idee ai pianificatori della cronaca, non
rinunciano a rappresentare Ivan nella sua natura più vera: quella
dell'imprendibile, simpaticissimo e scatenato satiro greco del rock.
« ...Si, vengo dall' Accademia di Belle Arti di Urbino dove nel '68 mi
sono diplomato pittore. Avevo scelto questa scuola perché nelle vicinanze
era l'unico luogo dove c'era una certa apertura mentale, ma in realtà non
avevo nessuna intenzione di fare il pittore ed è così che mi misi a
disegnare cartoons. Per due anni e mezzo lavorai moltissimo con la Svezia
dove riuscii a guadagnare fino a 120.000 lire a striscione, perché uno di
quei giornali del cavolo aveva scoperto che da quelle parti, stufi di
fotografie ginecologiche, preferivano dei disegni che consentivano alla
fantasia di spaziare. I miei disegni comunque non erano come queste
porcherie che si vedono adesso in Italia, senza tratto, senza un'anima,
perché semplicemente ricalcati dalle fotografie pornografiche di giornali
tipo " O. V. "; i miei personaggini ricordavano quelli che si
possono vedere su Linus, solo che erano pupazzetti scopatori. Il ridicolo
di quella mia situazione di allora è che, laureato pittore, non sapevo
nemmeno come si mescolano i colori per via che metà del mio tempo ad
Urbino lo passavo alle lezioni di scultura, perché, beati loro, avevano
delle modelle interessantissime, mentre invece noi avevamo soltanto il
solito "negraccio" dell'università che veniva lì, oppure delle
"budrigone" nefaste per farci posare gli occhi sulle forme
primordiali... Non ero insomma preso dal fuoco dell'arte e per fortuna poi
mi sono messo a suonare; anche se a dire la verità questo mestiere del
cantante l'ho fatto molto per "fame" e se fosse possibile in
Italia mangiare disegnando, forse mi piacerebbe ricominciare daccapo perché
un disegnatore è libero di fare quello che vuole mentre un cantante è
sempre nelle mani di troppa gente ».
Ma tutto questo cosa c'entra con il rock?
Già da questa prima parte dell'intervista si può arguire una fin troppo
palese tendenza del nostro ., più a procacciarsi Insensati piaceri
carnali che a rinchiudersi in una meditazione foriera di elevazioni
spirituali. Il maschiaccio mostra il suo aspetto di godurioso sfrenato, di
giramondo scapestrato e noi parafrasando una sua nota canzone gli
chiediamo: « Ma tutto questo cosa c'entra con il rock? ».
« Il rock è tutto l'universo possibile anche perché il rock è
nato in Abruzzo. Ho sviluppato questa teoria, che per me non è molto
lontana dalla realtà, suonandolo per anni con passione e capendo i
meccanismi più reconditi ed insospettabili che si muovono al suo interno.
Il rock and roll oltre ad essere il figlio spurio dei negri che si
tacevano "menare" nelle piantagioni e della country-music
popolare, anch'essa fatta di un misto di gospel-blues-ballate irlandesi e
cose di questo genere, è una musica alla cui base c'è la chitarra
battente e che, siccome gli americani non hanno mai inventato un tubo, ma
di solito hanno predato tutto, se la parte nera se la sono pappata dai
negri, quella bianca l'hanno fregata a noi. Nella seconda metà dell'8OO
in America c'erano più abruzzesi che indiani... e questi disgraziati
oltre a lavorare come bestie avranno cantato e ballato le loro cose, se
non altro come ricordo del loro paese, e tra queste la più sentita e
importante è il saltarello che è un tempo molto simile alla tarantella,
simile al ballo tondo che c'è in Sardegna. Durante questi anni ci sarà
stata, non dico una fusione, ma tutti questi generi musicali saranno
andati di pari passo tino a quando una nuova lingua e una nuova nazionalità
non avranno fagocitato tutte le etnie spagnole, italiane, negre, ecc.
facendo nascere una nuova musica, appunto il rock and roll. Il santone del
rock and roll come tutti sanno, è Elvis Presley il quale riunisce anche
come persona una miriade di elementi diversi: la tradizione negra che
conosceva da vicino perché Memphis è una città del profondo Sud, le
tradizioni melodiche e sdolcinate delle ballate dei cowboy e un nuovO modo
di muoversi e di porsi al pubblico, che, pur ricordandoli, non ha niente
da spartire con la ritualità dei movimenti dei negri. Forse è più
vicino alla sfrenatezza del tarantolato che da solo segue il ritmo fino a
non vedere chi gli sta intorno. Elvis comunque è stato il portabandiera
di questa musica, è uno che ci è arrivato dopo centocinquanta generi
musicali ma che se non cantasse in "battere" non ci si
ricorderebbe di lui. Il cantare in battere lo deve proprio alle tradizioni
musicali dell'area mediterranea. Infatti se io faccio una statistica della
musica popolare del Sud d'ltalia come del Sud della Spagna, su dieci
momenti musicali di varie regioni,otto sono sicuramente in battere,se devi
trovare qualcosa di armonioso, di grecizzante, devi andare verso...non
so... un po' in Val di Non,dove fanno cose stranissime, oppure devi andare
a Trieste, dove però stenti a credere di essere ancora in Italia.
Comunque, senza fare troppo gli storici, io credo che anche se il rock
fosse nato indipendentemente dalle nostre tradizioni, esso funziona
magnificamente qui da noi e si adatta al bisogno di divertimento che anche
nelle nostre musiche si poteva riscontrare. Il divertimento, che non è
una stronzata ma è una cosa seria, è il 90% del rock, l'altro 10% serve
per chi, come me, vuole usare questo genere musicale per cercare di dire
qualcosa. Il divertimento, è qualcosa che richiama la stessa dimensione
magica e rituale dei nostri canti tradizionali. Io ho scritto una canzone
"Il prete di Anghiari", che è tutta impostata su queste
dimensioni. La musica rock serve anche per ballare in un certo modo e
ballando si esorcizza la paura; tutto questo io l'ho potuto studiare
presso i contadini abruzzesi che ho avuto la fortuna di conoscere molto da
vicino perché mio padre faceva il fotografo dei matrimoni e quindi aveva
in mano il racket di tutto il contadiname di quella zona e andando con lui
da ragazzino ho imparato un sacco di storie magiche. Per ritornare al
"Il prete di Anghiari", se no qui per riparlare delle radici del
rock potremmo risalire ai dinosauri, anche se quella canzone parlava di
una situazione toscana, volevo in qualche modo unire la passione per il
rock alla dimensione magica, anche se poi difficilmente con un pezzo
veloce si riesce a creare una tensione magica a meno che non si rinunci
alle parole e ci si affidi; solo al potere frenetico di liberarti la testa
che questa musica possiede. Il pezzo lento che però è poco rock ha
invece il potere, magari con rumorini e sonagliere, di costringere la
mente a sognare figurativamente qualcosa di molto intenso come un quadro
surrealista. Quando con il pezzo veloce sono riuscito a dare al pubblico
energia vitale, a liberargli il cervello verso chi sa quale orizzonte, ci
metto dentro quel famoso dieci per cento d i contenuti che lo inchiodano
sulla sedia e io questa cosa, anche se sul palcoscenico non vedo nessuno,
la sento molto bene. Con il rock si riescono a dire cose molto
intelligenti, ancora di più che con la ballata la quale ti dà un
grandissimo aiuto perché la gente, se non si addormenta prima ci entra
dentro dolcemente, ma il rock, proprio perché è spigoloso, angoloso
nella costruzione metrica, ti lascia la libertà di scrivere versi che non
sono versi, ti dà la possibilità di dare una mazzata in testa alla
retorica. Sfido chiunque a musicare parole come quelle di " Monna
Lisa " con un genere musicale diverso dal rock; per inseguire quelle
parole, specialmente negli stacchi, sono andato letteralmente in
manicomio: "II custode si lamenta probabilmente vuole un'altra botta
in testa, ora ". Se tu entri dentro a questo gioco demoniaco che ha
il rock, tu puoi parlare di una sedia ed essere interessante».
D' Annunzio-dipendenza Sui testi dei cantautori alcuni critici "
ritardati " , nel senso che ritardano la capacità di concepire il
nuovo, sono riusciti a scrivere corbellerie inimmaginabili per difendere
ad oltranza Dante e Petrarca che, ne sono sicuro, non gliel'hanno mai
chiesto. La poesia, o metodo di parlare per simboli e analogie di quello
che si vuole, è una maniera di comunicare vecchia come il mondo e, per
quanto vi sia una moltitudine di persone che sostiene il contrario, è uno
dei saperi più cari alla gente comune, la quale, travolta dalle ideologie
sempre più complicate dei potenti, si abbandona ad essa come ad una
vecchia amica di famiglia che fin dalla nascita, non sapendo da dove venga
e da quale parte sia entrata, si accetta benevolmente. E' certo però che,
come esistono automobili da nababbi e vecchie carrette ad uso dei giovani
e dei pensionati, così anche la poesia ha i suoi sfarzi e le sue
dignitose povertà: quella del cantautori è mediamente benestante. Come
tutti i benestanti anche questa diva provinciale ha i suoi modelli da
imitare, una moda da seguire, una dignità composta da mostrare, senza che
tutto ciò le torni a discredito. Fra i lampioni e le torce di questo
firmamento il fuoco di D' Annunzio brilla spesso più intenso; egli, con
il suo vivere squinternato, con le sue contraddizioni irrisolvibili, fu
poeta totale e tramandò ai posteri il suo «sapere poetico» nel bene e
nel male, nel ritmo e nel gratuito, nel sangue e nei canapè. Ivan
Graziani si dichiara D'Annunzio-dipendente e, nel prendersi tutte le
responsabilità per tale abominevole vizio, abbassa la voce, dondola
ambiguamente il capo come per dire oso o non oso ma poi... si lascia
andare alla sua solita verve un po' scurrile e riesce a ricomporre il
proprio personaggio, troppo originale per dover seriamente render conto al
plateale principe di Montenevoso:
« Gabriele D'Annunzio, almeno per me, che dopo averlo studiato a scuola
un po' distrattamente ho dovuto per irresistibile curiosità ripescarlo da
adulto, mi ha fatto andare in manicomio, mi ha fatto scattare una molla
poetica, quasi una droga, che entrava in tutto ciò che scrivevo, una
bibbia dell'immaginifico, che mi faceva partire contemporaneamente per
cinque, sei, sette, anche venti direzioni diverse. Certo che, per quello
che riguardava lo scrivere, questa frenesia è stata la mia fortuna ma
anche la mia disgrazia perché alla fine ne sono rimasto dipendente.
Quando una persona come lui ti ha preso tu diventi Doctor Jekill & Mr.
Hyde, e qui veniamo al discorso che io faccio sempre quando mi
intervistano, alterni le cose tenere e le cose più violente. " L
'innocente " è un libro straordinario in quanto mai cosa più
orrenda e schifosa fu perpetrata con altrettanta tenerezza... e in questa
situazione paradossale poetica, perché in fondo non logica, ci ritrovi la
forza delle tradizioni della nostra terra abruzzese che vicino al segno
positivo mette sempre quello negativo, anche se poi credo che in mezzo ci
finisca quella cosa che non patteggia né per l'uno né per l'altro e che
si chiama ironia. Anche la canzone " Gabriele D'Annunzio " l'ho
scritta per rimuovere questo personaggio così importante nella mia vita e
farlo scendere dal suo piedistallo; infatti io ho conosciuto un Gabriele
D'Annunzio che faceva il contadino: era orribile, privo di qualsiasi
personalità, ubriacone, reietto; era uno straccio d'uomo che l'unico
rapporto che poteva avere era con le bestie... e il suo più grande colpo
erotico è stato a Milano, a Parco Ravizza, dove andò con 11 cappotto
nudo sotto, a far paura alle bambine. Pensa che divertente per uno che si
chiama Gabriele D' Annunzio, che è stato il re dei sofà, dei letti di
tutte le donne meglio del mondo, essere un disgraziato ma forse, a suo
modo, anche lui un poeta ».
Il fatidico ultimo disco anche nella più squinternata delle interviste,
dopo aver fatto il punto sugli ultimi ritrovamenti etnologici su un'isola
dimenticata del Pacifico, l'interesse, il demone che governa il mondo,
come un biscione silenzioso ma perfidamente presente, riesce ad insinuarsi
piano piano nel discorso fino a farlo cadere sul fatidico ultimo disco.
L'ultimo disco di un cantante serve a molti usi stravaganti come per
esempio far innamorare, fornire una colonna sonora per lunghissimi viaggi
autostradali, invogliare nei supermercati l'acquisto di salamini e
detersivi, riempire i palinsesti radiofonici; ma per chi l'ha fatto serve
soprattutto per essere venduto ed è naturale che non vi sia cantante al
mondo che rinunci a parlarne con entusiasmo. Il critico dovrebbe evitare
di scendere così in basso, ma una volta travolto dall'impeto del mercato
cercherà, con ineffabile equilibrio, di esporre le sue ragioni. Io non
sono un critico e mi posso quindi permettere di dichiarare tutto il mio
entusiasmo per questo LP doppio, inciso dal vivo, dove finalmente un
cantante rock italiano entra nelle case con il suo suono originale, i
rumori della piazza, l'entusiasmo che ti dà il cantare dal vivo senza
quella mediazione della sala d'incisione, dove musicisti spropositatamente
bravi diventano, con l'aiuto dei tecnici, stratosferici.
« I due dischi rappresentano la somma del lavoro registrato per tre anni
in tutte le città d'Italia. Ho preso il concerto a Villa Gordiani a Roma,
quello che feci nello stadio di Catania e poi a Pesaro, dove ho suonato
quel pezzo nuovo che era nella colonna sonora del film " II grande
ruggito " di Noel Marshall. Ho preso quindi un'enormità di
materiale, il meglio tecnicamente parlando, lasciando perdere se in quei
nastri vi era registrato il successo del pubblico in quella sera, anzi per
quest'ultimo ingrediente, necessario per un disco dal vivo, in sala
d'incisione, quando abbiamo cucito i vari brandelli del discorso sonoro,
ho cercato in alcuni punti in cui, magari, mancava l'entusiasmo perché in
quella sera eravamo, che ne so, attaccati direttamente al mixer, di
ricreare quella che era la situazione più normale. Questo è comunque
l'album che preferisco in assoluto, un po' perché ci stanno le canzoni a
cui sono più legato: perché c'è " Doctor Jekill e Mr. Hyde ",
" Angelina ", " Taglia la testa al gallo ", "
Pigro ", c'è " Fuoco sulla collina " che è in assoluto la
mia canzone che amo di più, c'è " Lontano dalla paura ",
...una specie di " medley ", una canzone attaccata all'altra, di
" Addio Lugano addio " con " Paolina " e con "
Agnese ", poi c'è " Motocross " che naturalmente non può
mancare e poi c'è ,.. Monna Lisa " e " Digos Boogie " che
sono legate assieme e sono state prese in quella splendida manifestazione
al concerto delle caserme aperte l'anno scorso a Bari. Per la prima volta
ho adoperato la mia band, più o meno a me in sala d'incisione hanno
sempre messo persone eccezionali, ma non so perché non hanno mai voluto
che utilizzassi i ragazzi che in questi anni hanno suonato con me nelle
tournée. Mi hanno detto i dischi sono una cosa diversa, figurati se io
che devo la mia fortuna alla sala d’incisione do loro contro, magari
contraddicendomi non sono mica matto! Però, insomma, ho avuto una
soddisfazione da quel punto di vista perché quando ho messo il materiale
sul piatto della sala d’incisione, mi sono reso conto quell’energia
che volevo tirare fuori, soltanto in quel modo poteva uscire. L’album si
chiama "Parla tu" che è una vecchissima canzone del ’67
terzinata alla Otis Redding che ho voluto prendere per un fatto di
nostalgia, è una canzone firmata Lo Vecchio-Vecchioni e quindi siamo in
clima di rimembranze pesanti>>.
Seni e coseni
Nei commenti con i
quali alterno la viva voce magnetofonicamente riportata di Ivan, parlo di
D’Annunzio-dipendenza per giustificare tutta una serie di domande su
questo argomento che gli feci la famosa mattina dei <<desti per
disperazione>>.
Questo disco risente di Venditti-dipendenza perlomeno nel lato 1, per poi
ricomporsi in grazianitudine nel lato 2. Il Giano bifronte in cerchio
sonante è in fatti da una parte quattro canzoni lente che più adagio non
si può, dove un piano addolcisce un ascolto rievocante folkstudi e simili
cave, e dall’altra è di rock ivanesco, truffaldino e insinuante pieno
di ridanciane trovate che sottolineano testi forse un po’ troppo sicuri
di sé. Nel volto sereno, la fronte: Ehi Padre Eterno è un blues con
organo tradizionale e coretti come insalata; il naso: Signorina, che più
Venditti non si può, racconta una storia verosimile di professoressa
innamorata di certo Raimondo, il poeta diciottenne adescato; la bocca:
Pasqua, una meravigliosa lirica cantata un po’ di nascosto dove il
ricordo di un amore passato la fa da padrone; e infine il mento: Cleo, un
testo moderno che parla di echi antichi, che mi ha dato l’idea di
parlare di un disco di vinile come fosse la statua di un dio
dell’antichità.
Nel volto imbronciato ritrovi subito Oh mamma mia, rockaccio virtuosistico
erotico-culturale, e poi segue: Tigre, dove lo sporcaccione esagera un
pochino e si fa perdonare solo per il verso: << siamo bizantini ma
non siamo cretini >>. Digos Bolgie è un capolavoro e sfido a non
ridere nel sentire questo pezzo dove i terribili agenti segreti italiani,
<< tutti quanti poliziotti da quattro generazioni >>,
camminano per << violetti scuri-scuri a spiare le coppiette
appiccicate a far l’amore contro i muri >>. Chiude l’imbronciato
dio bifronte: Ugo l’italiano, poesia di nebbia, di sogni radiosamente
inconcludenti, accompagnata da un rock lento che spinge la puntina verso
il baratro del nulla e le ultime parole di Ivan che si possono dire sono:
<< Soltanto un po’ di decisione e la nave che adesso vedi ferma è
già pronta per salpare >>.
Viaggi e intemperie
Per quanto uno s’innamori
del proprio suono, specialmente se lo ha portato al successo, arriva il
momento per un musicista di negare se stesso e di avere coraggio.
Viaggi e intemperie nasce dall’incontro fra uno dei più sensibili e
capaci musicisti italiani, Giovanni Tommaso, e l’incredibile mestiere da
bestia del rock con il quale Graziani è riuscito, non si sa come, a
superare le anguste e un po’ limitate vie stereotipate della musica
leggera.
Le prime tre canzoni dell’LP, Firenze, Isabella sul treno e Olanda,
tutte e tre arrangiate da Tommaso, presentano un gusto incredibile nel
dosare archi, percussioni e tastiere in maniera da non soffocare la voce
che in Firenze inizia da sola e viene poi coccolata e accompagnata nei
sempre tortuosi testi di Ivan.
Viaggi e intemperie oltre a queste finezze per orecchi fini è però anche
il disco di Tutto questo cosa c’entra con il r. & r.? , una delle più
belle canzoni di Ivan, nella quale si racconta di uno stupro e di altri
dettagli abbastanza orribili con il gusto polemico anche della voce del
miglior Cementano e del miglior Bennato fusi insieme. Gli altri pezzi del
disco, eccettuando Radio Londra che potrebbe essere il canovaccio di un
film sulla guerra, dove fra i due contendenti alla fine vince la natura,
sono più leggeri e vanno ad aggiungersi a quelle notazioni d’amore, di
costume, di gioia, con le quali il ragazzaccio suole adornarsi il capo per
librarsi leggero su un campo fiorito
Agnese dolce Agnese
Dopo un album strepitosamente
bello come Pigro sarebbe stato abbastanza normale che fosse uscito quello
che i critici chiamano << un buon LP di passaggio >>, dove di
solito il cantante in oggetto, cercando disperatamente di rifare un
colpaccio, si affida più alla consolle che alla propria anima, con il
risultato sofisticatissimi suoni un po’ asettici.
Agnese dolce Agnese non risponde a questa regola e in parte è forse un
disco ancora più importante di Pigro, probabilmente perché i due dischi
escono nello stesso anno e Ivan non è certo un cantante incline a
diveggiare, a lasciarsi andare alla pigrizia del successo; all’incalzare
dei discografici lui risponde lavorando e poi lavorando e poi lavorando.
Le canzoni di questo LP sono ancora oggi fra le più richieste ai concerti
e infatti molte sono state riprodotte dal vivo nello splendido LP doppio
Parla tu Taglia la testa al gallo, Il piede di San Raffaele e Il prete di
Anghiari fanno parte di quel filone di nostalgia per una dimensione
magico-popolare. Veleno all’autogrill, Fame e Doctor Jekill e Mr. Hyde
sono tre canzoni della tradizione grazianea <<
sbandati-disperati-dispersi >>, situazioni di tutti i giorni
raccontate con antiretorica qualità oro, con musica che non concede spazi
al romantico o al casuale, sono le famose canzoni che inchiodano sulle
sedie e che vanno ascoltate con partecipazione e serietà.
Fuoco sulla collina, quella che Ivan definisce la sua più bella canzone,
è un quadro di Manritte, il sogno entra nella vita e viceversa, ma rimane
precisamente il senso profondo del reale nei suoi aspetti multiformi,
imprendibili e contraddittori. Canzone per Susy, Modena Park e Agnese, che
dà il titolo all’LP, vivono nella dimensione dell’eterno femminino
dal quale Ivan non saprà staccarsi neanche a 103 anni ma che sa trattare
con una grazia e un savoir faire veramente invidiabili; e poi cosa sarebbe
la canzone d’autore se confacesse rima ogni tanto con amore ?
Pigro
Siamo nel 1978, Ivan ha fatto
di tutto: il disegnatore porno, il sessionman in tutte le sale
d’incisione siano esse mulini, castelli o cave; ha collaborato con
Battisti, che è un grande onore; con la Premiata Forneria, che è un
grande trip; con Antonello Venditti che è come laurearsi cantautore ad
honorem, ma, come quel muratore di Amarcord che dopo aver elencato il
lavoro dei propri avi a << fare mattoni >> si chiede <<
e la casa dov’è? >>, così Ivan aspettava quel successo pieno,
anche economico, che lo avrebbe finalmente fatto conoscere come uno dei più
preparati e creativi cantanti presenti sulle scene italiane.
Le canzoni dell’LP sono tutte notissime.
Monna Lisa, un rock folle con delle parole folli dove un povero ladro
vuole giustamente rubare il capolavoro di Leonardo perché sente che gli
appartiene,un atto di amore opposto ai fiumi di retorica e di scemenza che
esalano dalla nostra scuola: <<la scuola è una gran cosa / e
soprattutto se ti insegnano ad amare / i capolavori del passato / però è
un peccato che tu non li puoi / vedere / né toccare / la cultura mi
sorride / tra le ombre e le tende di velluto / ed io sto torturando / la
tela con il rasoio e con le unghie / con le unghie >>. Scappo di
casa, la storia di un balordo che vive l’indifferenza del gran gesto,
una canzone ironicamente tragica. Sabbia del deserto, una lunga balla rock
sulle situazioni di provincia, quasi una canzone di Paolo Conte se fosse
giovane e abruzzese. Al festival slow-folk di Bi-Milano, un fantastico
onseguirsi di trovate poetiche, ridanciano-geniali, per un’atmosfera
surreale conosciuta da molti la esplicabile da pochi. Fango, che continua
la tradizione delle storie nere aperte con Motocross scivolando in questo
caso forse un po’ troppo nell’orribile. Gabriele D’Annunzio, di cui
abbiamo riferito abbondantemente a proposito della D’Annunzio-dipendenza.
Paolina è una delle canzoni più belle e richieste di Ivan forse perché
con Paolina s’identifica una miriade di donne indecise, di demi-vierges.
Con questo pezzo Ivan riscatta, almeno per una volta, la sua tendenza a
parlare di cose atroci e a satireggiare su tutto; se non lo conoscessimo
come Doctor Jekill e Mr. Hyde potremmo anche credergli. Pigro, la canzone
che ha dato il titolo all’LP, è uno di quei bozzetti ben riusciti che
diventano il simbolo di un tipo d’uomo sotto gli occhi di tutti: il
pigro intellettuale sempre pronto a sapere tutto, sempre l’ultimo a
metter in pratica le sue idee.
I lupi
Ho conosciuto Ivan al Mulino
quando collaborava come chitarrista con Antonello Venditti al poco
fortunato album Ullalla. Ho dei ricordi bellissimi di quell’esperienza,
per la prima volta ho visto due persone completamente diverse notissimo e
sicurissimo l’uno, sfigato e con nessuna voglia di arrivare l’altro
stringere un’autentica amicizia umana ed artistica. Antonello, con
un’ipersensibilità che solo chi gli sta vicino in certi momenti può
scoprirgli, si mostrava imbarazzato per una divisione dei ruoli che gli
sembrava del tutto casuale e, più di una volta, volle interrompere il
proprio lavoro e far cantare ad Ivan le sue nuove canzoni. I lupi risente
di quest’atmosfera e di questa amicizia; infatti il disco fu prodotto da
Antonello Venditti, il quale aiutò Ivan a ritrovare la sua personalità
più autentica non appianando lacerazioni e contraddizioni, rabbie e
incongruenze per un ecologismo dell’anima buono per la grande coppia
Mogol-Battisti, ma impensabile per un rockman scatenato e sanguigno come
lui. I lupi è un album fatto di rabbia, registrato in una settimana e
mezzo,però con grande allegria e grande menefreghismo con tutta la solita
equipe del Mulino: Hugh-Bullen al basso, Claudio Moioli al piano
elettrico, Walter Calloni alla batteria e Antonello Venditti al piano. La
canzone che dà il titolo all’intero LP è la storia di un soldato che
ha sepolto la sua divisa tra << i cespugli della Spagna >>,
che ha << spezzato il suo fucile >> e che ama tornare nei
posti dove è stato per non dimenticare l’orrore della guerra. Fra le
canzoni più importanti di questo LP la celeberrima Motocross
che inaugura quello che tanti chiamano il filone nero, quello delle
storiacce raccontate senza quel pathos un po’ romantico che caratterizzò
il repertorio della mala, ma con una freddezza da rotocalco rotta qua e là
da una buona dose d’ironia grazianesca.
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