Giudizi e Considerazioni sul "Fingitor Cortese"
1) Gentile dottor Granetto, la ringrazio per avermi inviato il
suo pamphlet, che ho apprezzato per la sottile ironia, i colti
riferimenti, i collegamenti con alcune recenti teorie della psicologia
evoluzionistica (relativamente agli ingannatori free-riders) e gli
accenni alla terapia cognitivo-comportamentale (che è il mio
orientamento psicoterapeutico).
Lei ha ragione per quanto riguarda le capacità di ragionamento: sono
un’arma a doppio taglio, possono essere molto utili ma anche creare
grossi danni.
Come forse saprà, io sono specializzato nel disturbo
ossessivo-compulsivo e in questa condizione il ragionamento è uno dei
fattori di mantenimento del quadro patologico, anche perché la macchina
computazionale del sillogismo viene utilizzata male giungendo a
conclusioni formalmente corrette ma non vere.
Mi permetto di allegarle, in un accesso narcisistico, un mio articolo
che tratta proprio di questo; forse le potrà interessare.
La ringrazio. Cordiali saluti e buon lavoro
Davide Dettore,
Professore di Psicologia Clinica all'Università di Firenze
2) Gentile
Luigi, ho trovato il suo testo raffinato, affascinante e sagace.
Un cordiale saluto, Sara Uboldi, archeologa e Dottore di ricerca
in Scienze Umanistiche. Università di Modena e Reggio Emilia
3) Mi sembra interessante questa visione dall’alto delle cose,
che parla di entropia, di capacità cranica, ecc. Coraggioso cimentarsi
con questi argomenti così vasti, in un modo che rende gradevole la
lettura. Come tutti i testi ibridi, che stanno a metà tra il saggio e il
racconto, anche il "Fingitor Cortese" non è facile da afferrare. La
scansione dei capitoli: finzione dubbio luogo memoria paura abitudine,
mi sembra buona. Il testo forse ha un po' troppe citazioni.
Forse sarebbe meglio raccontare quello che le citazioni evocano.. Molto
divertente il capitolo sulla memoria e la parte sul lottare per il
fiasco dove viene amalgamata cultura scientifica e sapere mitologico.
Importante soffermarsi dettagliatamente sulle vicende degli dei, che
l'autore conosce molto bene e vedere quanto queste vicende siano vere.
Adrian Bravi scrittore argentino, vincitore della prima edizione
del premio Testo in cerca di regista, associato ai Premi David di
Donatello, 2014. e del premio Bergamo con "L'albero e la vacca" edito
da Feltrinelli
4) Mi piace, il suo modo di mettere in difficoltà chi legge.
Argomentare attraverso continui passaggi che vanno dalla epistemologia,
alla filosofia, fino alla psicologia mettono una certa soggezione, ci ha
pensato alla qualità dei lettori? Sembra un percorso perverso per
spingere all'autoanalitico e all' autocritica. Non mi sono mai imbattuto
in pensieri introspettivi partendo da una sorta di "elogio
dell'imperfezione" in chiave psicologica. Giuliano Savi docente
Sociologia del Diritto nella Comunicazione.
5)
L'inizio faticoso, molta carne al fuoco, tipico desiderio di spiegare,
cumulo di citazioni, insomma intenso, troppo intenso. Superate venti,
trenta righe, il concetto si distende, s'incanala sulla via dell'analisi
accattivante, diventa adorabilmente chiaro e "catturoso"!
Dunque affascinante, anche a livello di scrittura.
Adriana
Mulassano
giornalista, scrittrice italiana e storica
"penna" del Corriere della Sera e docente di giornalismo di moda presso
il corso triennale di Fashion Communication all'Istituto Europeo del
Design
6) Molto bello il tuo "Fingitor Cortese! Mandami altri tuoi
scritti.
Andrea Molesini scrittore, poeta, traduttore italiano,
vincitore del premio Supercampiello del 2011
7) Un curioso saggio, un tema sempre misterioso e imprendibile,
il doppio, la rappresentazione, il racconto, povera umanità bisognosa di
ricreare, un italiano che mi piace molto, così giocato, a colpi di
piccole sintesi luminose, bravo!
Andrea
Barzini, scrittore e regista.
8)Testo affatto ostico, anzi... se mai troppo “semplice”, ma si
sa che queste cose imbarazzano i ben-pensanti delle variabili umanità.
Elio
Grasso
Critico e poeta tra i più notevoli in Italia, poeta, critico
e traduttore (W. Shakespeare, T.S. Eliot, Wallace Stevens, C. Corman,
tra gli altri)
9) Mi ha dato molti spunti di pensiero. Sono esterrefatta per
una coincidenza di interesse verso il vivere in una o molte parti di una
recita. Scusa la stringatezza.
Paola Libera fotografa e studiosa di architettura figlia di
Adalberto
Libera
10) Il Fingitor Cortese è deliberatamente una paradossale
provocazione che suggerisce un approccio disincantato al “sapere” e ai
suoi derivati. Chi lo leggerà comunque si divertirà, ammirando
l’autore, le sue letture e il suo disincanto.
Cesare
De Michelis, Editore, docente di Letteratura Italiana
moderna e contemporanea presso l'Università di Padova
11) Ho digerito il primo capitolo del Fingitor Cortese e mi sono
pure divertito.
Manda pure gli altri capitoli, anche se non so bene quando li leggerò.
Ho una montagna di arretrati da leggere che non cala mai, oltre a una
mole (più importante in quanto remunerata) di roba che devo leggere per
lavoro! Bravo, comunque. Grazie e a presto.
Alberto
Bracci Testasecca
scrittore, traduttore e curatore di
una mostra su Leonardo Da Vinci a New Delhi e Bombay. Fra i suoi romanzi
più noti: "Ottantatré" e" il Treno" per la edizioni e/o e "Volevo
essere Moccia" per le Edizioni La Lepre.
12)
Enrico
Nascimbeni; "Lo storico dell'arte e filosofo
Luigi Granetto..se tutto va bene...sara' tra gli autori della collana Le
due anime che curo per Rupe Mutevole Edizioni". MIA RISPOSTA: Larga è la
spirale del pensiero, tutto comprende tutto contiene. Strani i tempi
dove gli artisti devono provare a fare i filosofi loro malgrado. Grazie
Enrico per la tua generosità.( Dialogo su Facebook con Enrico Nascimbeni,
scrittore e cantante)
13) La Paura della paura mi sta accanto ma la multiforme
Mnemosine esorcizza ogni oscuro avvenimento. E "Il tempo grande
scultore" fa sì che tutto si integri e tutto si trasformi.
Poi c'è l'Abitudine, là dove il mito prende forma. Morte, Desiderio e
Legge, le tre figure in "un'unica configurazione" nella Vita stessa
dell'uomo e nel mito dell'eterno ritorno.
Così, caro Gigi, non ho avuto bisogno di coraggio per leggere il tuo "Fingitor
Cortese" ma solo piacere e divertimento......a volte cercando di
"districarmi" fra citazioni di autori più o meno noti. Paola
Scandolara pittrice e insegnante di
Hatha Yoga
14) Il
"Fingitor Cortese è una brillante discettazione sul dramma della dualità
e, soprattutto, sui rischi che si addensano sopra/sotto i cervelli di
chi persevera di-battendovisi (come accenna qui sotto il Professor
Dettore). Sono ansioso di leggere altri tuoi scritti per scoprire se per
te il dubbio è solo il sale di questa orribile pietanza o lo stimolo
coevo della sua stessa doppia natura che ci consente di mangiarla. Sta
minestra.
Luca Fabbri autore di Logos
e pathos edito da Youcanprint
15) Allora caro Luigi, ecco ad un primo sguardo: non posso che
risponderti a modo mio:
1) Leggo poco di letteratura contemporanea in senso narrativo e poetico
... dunque manco dei riferimenti che mi servirebbero per "collocarti"
2) Le "cose" che dici sono interessanti e rapidamente esposte (non c'è
affanno nelle singola frase semmai nella catena di frasi).
E tuttavia dopo poco ci si accorge che, per quanto tu sia così ironico
nel dire, vuoi essere preso sul serio, esigi concentrazione e scrivi per
questo
3) Io ho gradi sempre più bassi di concentrazione e quindi mi stanco
presto
4) Evidentemente sono un moralista, e della scrittura amo lo scopo: una
dichiarazione di necessità irrimandabile
5) Questa necessità mi priva della capacità di entrare nel "merito";
insomma sono incompetente...
6) Parlando più serenamente - senza paura di me stesso - direi che
dovresti lavorare di scalpello e lima sul testo ... e ce la puoi fare
perché, al contrario di me, non mi pare che il peso della cultura ti
affatichi e preferisci smarrirti piuttosto che smarrirla
Alberto
Abruzzese, sociologo e scrittore e ex preside della
facoltà di scienze della comunicazione dell'università “La Sapienza” di
Roma.
16) Caro Luigi,si intuisce che il tema del tuo "Fingitor Cortese"
è interessante. Ma ogni volta che mi è parso di afferrarne il bandolo,
questo mi sfuggiva tra molti grovigli, come nei sogni. Una cosa posso
dirti. Appena ho iniziato a leggerti mi è tornato in mente il
meraviglioso film Mr Nobody (2009). Se non lo hai visto, non puoi
astenerti. Un caro saluto.
Andrea
Garbarino, scrittore e giornalista
LA
FINZIONE (Primo Capitolo)
"Humanum
genus est avidum nimis auricularum"
(Lucrezio)
“Il genere umano è troppo avido di frottole”
"Mundus
universus exercet histrioniam"
(Petronio)
Il
mondo intero recita la commedia”
"Non
puoi non voler rinunciare alla menzogna e non puoi dire la verità"(L.
Wittgenstein)
Prima dell'idea, un po' complicata ma sicuramente vincente sul piano
competitivo, che Abramo lasciando l'Ur aveva di Dio, prima che Cartesio
s'accontentasse d'essere vivo per la risibile convinzione di pensare e
dubitare, prima che Bertoldo, scarpe grosse e cervello fino, la pensasse
come Cartesio, senza la mancanza di stile di doverlo anche dire, prima
che il barone di Münchhausen beneficiasse salvificamente dei frutti
della logica formale per tirarsi fuori dalla palude con l'afferrarsi
alla propria treccia, prima che Thot inventasse la sciagurata parola,
reputata da Platone un succedaneo della memoria che induce negli uomini
l'oblio, prima dell'autocoscienza che procurò la tazza di cicuta a
Socrate e un ego pornomane al Dottor Freud, prima dei principi causali e
casuali, con i quali si potrebbe ridicolizzare questo tassonomico
incipit, prima di tutto questo: nacque la finzione.
Il tutto, la sostanza, il coagulato si differenziò passando da uno stato
di ordinato equilibrio a uno stato entropico che permise la connessione
fra gli elementi della materia attraverso la somiglianza della sua
natura originaria, delle sue regole e delle sue possibilità.
Più aumentava l'entropia più i fenomeni diventavano non solo disordinati
ma quel che è peggio anche irreversibili. Probabilmente il tutto, la
sostanza, il coagulato, preso dalla nostalgia del suo antico equilibrio,
cercò di collassare su se stesso, ma ormai il danno dell'irreversibilità
aveva creato il tempo che rendeva impossibile ripetere qualsiasi
fenomeno che non accettasse la spietata legge della variazione.
Il tempo fu il primo responsabile del fenomeno della finzione che
sostituì, in qualche modo, la tendenza alla ripetizione senza mutamenti.
Da quel giorno non ci sarebbe stato più l'equilibrio ma un quasi
equilibrio e persino il moto costante sarebbe stato sostituito da un
moto relativamente costante: in una parola la realtà aveva imparato a
fingere.
Fingi oggi, fingi domani, capitò che la realtà, fingendosi diversa da
sé, percepì l'esperienza del nulla e rese necessaria l'astrazione come
concretezza che si manifesta.
Utilizzò per questa sua nuova sceneggiata una sua piccola parte, il
sistema neurologico di un primate, discendente, pare, dai plesiadapis .
Il sistema neurologico in questione apparteneva a quel truffatore,
chiamato in seguito Homo habilis, che a forza di fingere suoni della
natura, gesti e versi di altri animali col nobile fine di mangiare prima
d'essere mangiato, finì con il convincersi dell'utilità di questa sua
predisposizione all'ingordigia.
Pur non conoscendo l’ “a priori” di Kant, si diede da fare per
sviluppare questa attitudine con i suoi compagni. Questi commedianti
scoprirono ben presto che la finzione li portava a essere ogni giorno un
animale o una cosa differente, fino a che, un bel dì, forse per scherzo,
finsero anche la differenza.
Una leggenda, molto strimpellata, racconta che si riunirono in un luogo
adatto per addestrarsi nelle più spericolate e ciarlatanesche finzioni,
ricoprendo alternativamente il ruolo di attori e di spettatori, per
farsi l'immagine della differenza.
A poco a poco quest'immagine diventò così credibile che finì con il
condizionare addirittura il funzionamento del loro cervello, rendendo
plausibile l'attività astratta come reale.Anche se l'avrebbero scoperto
molto più tardi, avveniva in loro quel fenomeno naturale d'adattamento
all'ambiente che fa sì che i pesci siano dotati di branchie e gli
uccelli di ali, con in più la simpatica facoltà di potersene vantare.
Man mano che la loro capacità cranica aumentava, ebbero sempre meno
bisogno di utilizzare gli altri organi, fiutarono di meno, corsero di
meno, urlarono di meno ma pensarono molto, molto di più.
Fu così che la concatenazione verticale di finzioni sempre più astratte
diede loro l'impressione, esaltante e penosa, d'allontanarsi da
un’origine che da quel momento i più creduloni avrebbero considerato con
nostalgia o, in qualche raro caso, con disprezzo.
A posteriori si era in loro manifestata la memoria, e con essa quel
sofisticato meccanismo che trasforma l'abitudine a lottare per la
bistecca nella predisposizione a litigare per delle finzioni astratte.
I litigi continui per motivi così futili finirono col procurar loro
un'improvvisa e incomprensibile insicurezza, una sensazione nuova,
simile a quella che prova un elefante che abbia la disavventura
d'incagliarsi con le sue formidabili zanne in un passaggio troppo
stretto; sentirono l'impaccio di quell'organo che era sembrato così
utile; ne percepirono l'esistenza. Le funzioni differenziali del sistema
neurologico, a loro insaputa, avevano elaborato un meccanismo di
autoregolamentazione del sistema stesso, facendo emergere informazioni
di tipo dubitativo capaci di inibire i disturbi psicotici generati
dall'eccesso di finzioni allucinatorie.
Probabilmente, quella nostalgia del luogo certo, contrapposta ai
continui tentativi, con relativi catastrofici errori, per ritornarci,
aveva provocato nella loro mente i primi disordini ideativi; la mente,
affannosamente, si sfinì per trovare qualche immagine di riferimento che
non avesse quell'aspetto angoscioso dell'ennesima finzione.
Compito non facile per chi aveva affidato all'imbroglio il proprio
sistema di sopravvivenza.
Come
scrisse qualche anno più tardi il loro discendente René Char:
"L'Homme est capable de faire ce qu'il est incapable d'imaginer.
La
tete sillone la galassie de l'absurde".
L'uomo è in grado di fare ciò che non è in grado d'immaginare. La sua
testa solca la galassia dell'assurdo. (R.
Char)
Con
il dubbio, la finzione di esistere, come entità indipendente dal tutto
coagulato, generò l'immagine polisensa di se stessa. La quale, a sua
volta, cercò, con alterna fortuna, di selezionare le finzioni
concatenabili dubitativamente per somiglianza e differenza, secondo un
sistema ritenuto congruo, ordinato, capace di connettere a sé immagini
ritenute incongrue.
Per far questo la mente di quegli animali fu costretta un'altra volta a
fingere. Finse d'abbandonare il luogo che la rese possibile per
spostarsi in un punto d'osservazione periferico, dal quale si poté far
coincidere la visione con il sistema congruo prescelto.
Scelse così la possibilità di osservarsi solo attraverso un’immagine
riflessa, che restituiva la sua stessa immagine deformata attraverso le
regole di quel sistema. Aveva scelto un imbroglio tanto vero
che le permetteva una sincerità
menzognera.
Quegli animali si abituarono così a vivere al cospetto della propria
immagine deformata, trascinando con sé la natura che li aveva partoriti,
trasformandola in una fantastica, mutevole allegoria.
Deformazione difficile da decodificare, ma ripiena di messaggi, che
alcuni sapienti come Borges ritennero intuibili da chi sappia assaporare
l'immediatezza del vivere oltre la maschera della verità: "...miro
este querido // mundo que se deforma y que se apaga // con una palida
ceniza vaga // que se parece el sueno y al olvido".
(...guardo questo caro // mondo che si deforma e che si spegne // in
una pallida e vaga cenere // che assomiglia al sonno e all'oblio). (J.
L. Borges)
Tutto questo molto prima del barone di Münchhausen: l'uomo era riuscito
a tirarsi fuori dalla palude della schizofrenia con l'afferrarsi a se
stesso, pagando però un prezzo che noi sappiamo non ancora saldato. Un
prezzo che rende equivoca la convinzione evoluzionista della nostra
superiorità rispetto alle altre mute specie. Equivoco difficile da
dipanare anche leggendo Konrad Lorenz, che chiamò quell'evento
paradigmatico "la folgorazione dell'autoriflessione": curiosa immagine
poetica per convincerci del bizzarro comportamento interattivo dei
genomi fra le doppie eliche dell'acido desossiribonucleico e i pensieri
dell'uomo.
Sull’epistolario, ricolmo d'informazioni e piccole truffe, fra
quest'acido e le menti più speculative della
specie non si sa molto, ma la sua esistenza procura una paura simile a
quella percepita dal loro antenato quando sperimentò le conseguenze
della sua predisposizione a mascherarsi, quando, per vivere, gli fu
necessario dubitare. Terribile deve essere stata per lui
l'esperienza del dubbio, suscitata dalla differenza fra i suoi
comportamenti impliciti e le immagini distorte che aveva di essi, senza
l'ausilio delle certezze di Cartesio e delle consolazioni poetiche dell'Achmàtova:
"Sei tu, Psiche-Confusionaria, che in aria agiti bianco-nero
ventaglio". (A. Achmàtova
Ancora più arduo deve essere stato per lui orientarsi in un sistema
mentale interattivo fra quello che era sicuro fosse concreto e ciò che,
pur non sapendolo, era decisamente astratto.
Quel poveretto non poteva certo sapere che i suoi discendenti avrebbero
continuato per molto tempo a contrapporre concretezza e astrazione come
se non fossero due sinonimi di finzione.
Qualsiasi pensiero astratto modifica il funzionamento e, in parte, la
struttura del cervello in una maniera molto simile a quella dipendente
da eventi considerati concreti come le stimolazioni ambientali o le
psicoterapie attuate con farmaci o con la sola parola.
Da quando l’efficacia clinica della terapia cognitivo-comportamentale,
nel curare gravi malattie mentali, risulta essere valida quanto la
farmacoterapia, si sono generate, oltre alle solite liti, anche nuove
interpretazioni della realtà.
Anche il più sprovveduto psicanalista -
abituato a guarire lievi nevrosi trattandole come instabili incongruità
alle quali dare una qualche idea di riferimento più stabile - comincia a
guardare con sospetto la stessa idea di congruità, ne percepisce la
deformità strutturale: peccato originale di non semplice
decodificazione.
Il bisogno di congruità si manifesta come inibitore di quella parte del
cervello nella quale si esplica la funzione di emulazione), prima della
realtà, con la quale interagisce, e poi con se stesso quando
cerca di rappresentarsi nella coscienza.
Questo fenomeno di parziale inibizione di alcune facoltà del cervello
consente all'uomo di credersi autocosciente. Si crea in tal modo la
sensazione di accordare all'unisono i diversi messaggi ricevuti dal
cervello.
Questa ennesima finzione è responsabile anche dell'auto riflessività,
che permette di avere un qualche controllo sui messaggi ricevuti e, quel
che è più importante, di averne una convenienza!
Per molti anni si è cercato di modificare e gestire, attraverso la
riflessione consapevole, i contenuti mentali espliciti,
incongrui e disfunzionali, senza indagare
troppo sulla natura neurologica della coscienza, la quale, colpita nel
suo naturale orgoglio, si prende qualche inevitabile rivincita.Quando il
cervello interagisce con stimoli e messaggi (chimici e sensoriali)
rimossi dalla coscienza, fornisce, attraverso la trasmissione sinaptica,
una traccia mnemonica, con informazioni che potrebbero essere attivate -
implicitamente o anche esplicitamente - come accade nella sensibilità
percepita in un arto amputato.
A complicare la vita del cervello, ci si mette anche l'entropia, che
spinge gli stimoli sensoriali a manifestare un'incessante predilezione
per ogni tipo di variazione finalizzata a potenziali d'azione e a
trasformazioni funzionali più o meno permanenti.
Queste variazioni daranno origine a specifiche forme di memoria, che
verranno a loro volta immagazzinate in maniera differenziata formando
quei correlati neurali dell'apprendimento responsabili della
complessità del pensiero umano.
E' curioso sapere che quasi tutte le idee e i comportamenti umani non
sono altro che variazioni della finzione o emulazione biologica.
Il carattere di assuefazione negli schiavi e la grande pazienza dei
saggi non dipende solo da una risposta difensiva, ma anche da
condizionamenti, senza apparenti motivazioni, abbinati dal cervello a
stimoli reputati pericolosi, utili o neutri.
Lo stesso concetto di oblio, caro a molti poeti nichilisti, non è solo
la conseguenza di una rimozione psicologica ma è
generato dal contrasto esistente fra memoria
a breve e a lungo termine, fra inibizione di messaggi impliciti e
trasformazione degli stessi in finzioni ritenute esplicite.
Il più astratto e squisito gusto estetico condivide con la crapula
d'osteria una variazione dello stimolo del disgusto: sia questo
alimentare, olfattivo, uditivo, ambientale o fisiologico.
Nell'incessante scambio fra finzioni astratte che divengono concrete e
fenomeni fisico-chimici che si smaterializzano, il vero capolavoro del
cervello rimane l'attitudine a trasformare il dolore in sofferenza e la
sofferenza in uno stupefacente continuum che va dalla più tragica
disperazione alla più imprevista felicità.
Si tratta qui di una predisposizione al teatro particolarmente
fantasiosa, arricchita da rappresentazioni.
Secondo questa prospettiva, i più antichi dolori legati alla nutrizione
(sazietà), alla difesa (accoglimento fra i membri della propria specie)
e alla rivalità, trasformandosi, sublimizzandosi, inventandosi, ci
hanno dato modo di recitare la parte degli esteti incalliti, dei
perfetti cittadini sempre alla ricerca di amore fraterno, dei leali eroi
olimpici degni della più ammirabile gloria.
Se ogni tanto ci capita di notare qua o là qualche attitudine arcaica
rimasta in vita come l'invidia, non possiamo esimerci dal rallegrarci
che questo deprecabile vizio si possa velocemente trasformare anche in
gratitudine, come, d'altronde, se ci capita d'incontrare un qualche
nostro simile segnato dal complesso d'inferiorità, sapremmo gioire con
lui per l’opportunità a lui data di competere, proprio grazie a questo,
con maggior forza!
Purtroppo, qualche inconveniente ci doveva pur essere in un sistema
aperto capace di simulare il fenomeno dell'autocoscienza in modo così
convincente tanto da lasciare la sua traccia anche nei freddi e tanto
misteriosi genomi.
D'altronde, se concezioni antropomorfe ritenute congrue in una certa
epoca e non ancora del tutto esaurite, fanno si che nella
civilissima Torino gli abitanti non si meraviglino di prendere una tazza
di cioccolato con il diavolo, cosa succederà ai
nostri discendenti quando l'immagine della
materia sarà più simile a una formula matematica che a un vulcano in
eruzione?
Per dirla con Konrad Lorenz, cosa stiamo combinando con i nostri
genomi, cosa faremo loro trasmettere ai nostri discendenti?
Nella difficoltà di tentare una qualche risposta a questi interrogativi,
ci rendiamo conto che l'idea di civiltà potrebbe ancora possedere
qualche potere connotativo di sintesi dell'avventura umana.
A essa si potrà forse affidare quel sincronismo analogico che rende la
finzione di una voce animale così simile alla finzione di un laboratorio
di astrofisica.
In mezzo a questi due eventi Mnemosine, madre delle muse, dorme il suo
sonno millenario.
Civiltà intesa non come addomesticamento dei popoli, ma come substrato
culturale nel quale il mutamento non sia stato rallentato. In essa è
probabile scorgere la sopravvivenza di costanti che
permettano il verificarsi di eccezioni, di
accessibili imprevisti, di fertili incertezze, di conflitti
fortificanti, di complessità imperfette, di disuguaglianza creatrice,
d'intrecci di contraddizioni, di imperfezioni che celino straordinari
scopi.
Certo, per poter "isolare" tali principi attivi dal
conformismo che rende le civiltà perpetuabili nelle loro
variazioni, bisogna sapere immergersi nelle sue idee più decadenti, in
quelle stesse idee che sono riuscite a diventare quasi luoghi comuni in
seguito alle lotte intraprese dai pochi contro i molti: come per
Montaigne messo all'indice dal Vaticano, o come altri fatti giusto un
filo ingombranti, quali, per esempio, il rogo di Bruno o il processo a
Galilei.
La decadenza genera l'illusione della costanza e della continuazione di
un valore, genera l'errore come presupposto della variazione.
All’interno dei valori espressi dalle grandi civiltà, le consonanze
generano conseguenze dilatabili in tempi diversi: la risonanza della
memoria, quasi la sua eternità.
Ci rendiamo conto che per i maniaci del nuovo-a-tutti-i-costi questa
rivalutazione della decadenza possa apparire come una minaccia alle
esigenze di un consumo-motore-dell'economia, ma, spesso, l'accumulo di
obsolete finte novità impedisce la variazione di novità più sostanziose.
Dallo spirito della tragedia, che non elude il conflitto fra
immediatezza e futuro, si fa presto a passare alla farsa di una storia
che simula la sua ripetizione per nascondere i problemi di assimilazione
e reale cambiamento: da una parte la poesia dell'errore che genera
mutamento, dall'altra la pantomima dell'accumulo dei rifiuti come
simbolo di una impossibile autodistruzione della “vera modernità”.
IL DUBBIO (Secondo Capitolo)
“When
the mind swings by a grass blade
an ant’s forefoot shall save you”.
The clover leaf smells and tastes as its flower”
(Ezra
Pound)
“Quando la mente oscillerà presso un filo d'erba
la zampina di una formica ti salverà
la foglia del trifoglio odora e sa del suo fiore”
Dalla teatralica e saltimbanchesca rappresentazione di un'inedita
genesi, messa in scena fra verosimiglianza e plausibilità nel precedente
capitolo, la nostra compagnia dell'arte potrà rubare qualche maschera
così da sortire negli spettatori quell'effetto di meraviglia e
d'inspiegabile timore tanto caro ai religiosi e a noi, gente di
palcoscenico.
Abbiamo visto come la nobile arte del recitare c'impedisca di opporre
concretezza ad astrazione, per rendere possibile l'entrata in scena del
plesiadapis mutante, con tutte le sue straordinarie canagliate e con
tutte le sue filogenetiche conseguenze.
Abbiamo anche visto come questo Furbone non possa svolgere la parte del
capocomico, perché, essendosi perso il copione, procede per maldestri
tentativi spesso improponibili anche sulle tavole di un palcoscenico,
specialmente quando ce li vuol far passare come gli errori inconfutabili
dell'umanità.
Pur essendo certi della capacità del Tracotante di scrivere altri
copioni dall'aspetto formale ancor più allettante di quello perduto,
siamo convinti che la trama originale non sia del tutto farina del suo
sacco.
Abbiamo infatti buone ragioni per credere che quella trama fu imbastita,
come Monod ci suggerisce dal proscenio, giocando al caso e alla
necessità, quel gioco così simile alla "mosca cieca" nel quale le azioni
del non vedente condizionano quelle dei vedenti, fino a che la necessità
di pervenire a un contatto ne provoca il caso o viceversa.
A noi interessa poco che questo problema crei qualche scompiglio fra i
post-kantiani, idealisti per abitudine ed epistemologi per necessità, a
noi interessa il suo confuso effetto di mischiamento del tono tragico
con quello dell'avanspettacolo.
Per far pagare un biglietto bisogna, sottrarre lo spettatore al sonno
televisivo, proponendogli quello strano spasimo che va sotto il nome di
ammutolimento: la finzione di un mistero o la contrazione del riso; la
finzione di quello che sanno tutti ma che vogliono sentir dire dagli
altri.
Se la finzione non è altro che una conseguenza genetica di una
determinata selezione naturale, per munire l'encefalo di quelle
informazioni utili per fornirci delle immagini differenziate, e quindi
ordinabili, che ci aiutino ad adattarci all'ambiente, come potremmo
trasmettere al nostro pubblico quel tremor, quello stupore, quel thambos
tragico, quando volessimo recitar Leopardi "Oh natura, oh natura
perché di tanto inganni i figli tuoi.." senza impedire al nostro
allenato diaframma di rattrappirsi in una risata?
La faccenda della natura che ci fornisce i mezzi per la sopravvivenza,
ottenendone una così strampalata risposta, ci ricorda la tonante voce di
Giuseppe Toffanin, quando, al wagon-restaurant, rimandava indietro il
piatto degli antipasti, sbraitando: “questa è una truffa, una fame
autentica non ha bisogno d'essere stimolata”.
La finzione è l'antipasto che permetterà al pensiero di nutrirsi dei
più raffinati e selezionati piatti, anche se, fra un'astrazione e
l'altra, ci sarà sempre chi, credendosi - e non a torto - truffato,
bramerà solo l'impossibile, camufferà di metafisica il suo selvaggio
istinto all'immediatezza.
Il divorare con fame autentica, prima di diventare un sofisticato ed
ellenistico mito, dev'essere stato quasi un'emozione, poi, come si sa,
anche il selvaggio finisce col diventare un demodé.
La metafisica, cibo di platoniche pastoie rimasticate, riduce a
manichini le proprie solipsistiche malattie: più cerca di uscire dai
limiti dell'umano più discopre la sua maschera claunesca.
Intanto la vecchia megera Immortalità se la ride di lato.
Eppure, quando la metafisica ci ha mostrato la propria agonia, l'abbiamo
amata: ridotta al silenzio ha saputo mostrarci, nei teatrini di Giorgio
De Chirico, "l'enigma nell'ombra di un uomo che cammina al sole".
Per tornare al tragico quotidiano del recitare, che di tragico non ha
nulla - alla faccia del malinconico Papini -, che dire allora dell'altro
verso leopardiano: "ed io nel pensier mi fingo". Verso
meraviglioso ma ingenuo; come se fosse possibile fingersi in
qualcos'altro, senza che l'occhio professorale di qualche antropologo -
tutto totem e tabù - ci fulmini per analizzare in noi una tanto rara
specie di animisti, così ignari di logica aristotelica e altrettanto
segretamente propensi a mangiarci l’osservatore: così… per amor di
conoscenza. Crudo o cotto fa lo stesso.
La verità è che l'unica fabbrica di maschere tragiche che ci rimane per
difenderci dallo smascheramento dell'avanspettacolo è quel meccanismo di
rimando che il nostro cervello elaborò a nostra insaputa, per non farci
impazzire fra le apparenze da noi stessi create: il santissimo e
diabolico dubbio.
Come tutte le maschere tragiche anche il dubbio può vantare un’origine
guerriera, uno spirito agonistico di tutto rispetto.
Il dubbio comparve quando concatenazioni d'immagini astratte,
strutturalmente analoghe e sottoposte a stimoli esterni differenti,
diedero vita a manifestazioni simili per origine ma diverse nella forma
e, soprattutto, nel grado d'interazione con la realtà.
Montaigne ricorda che già gli stoici credevano come questo "inconveniente
fosse un moto dell'anima fuori dall'ordine e dalla regola, venendo in
noi da un impulso estraneo accidentale e fortuito”.
Nella teatralizzazione, condivisa da un gruppo di individui, che ci
piace immaginare all'inizio dell'avventura umana (sia sotto forma di
potere immaginativo della mente sia sotto quello della
rappresentabilità), la continua sovrapposizione d'immagini astratte,
svincolate da una qualsiasi idea di riferimento organizzata ma non dalle
necessità biologiche della sopravvivenza, tendevano a sostituirsi a
quest'ultima, creando immagini fantastiche, allucinatorie, del tutto
reali per il soggetto che le subiva ma, come s'è già detto, assai
pericolose per la conservazione di quella specie che le aveva sapute
implicitamente selezionare.
L'attività culturale dell'uomo, fin dall'inizio, stava per fare uno dei
suoi disastri irreparabili quando il suo cervello elaborò uno schema
capace di fingere la differenza, di ordinare cioè le immagini mentali
non per sovrapposizione bensì per concatenazione.
L'utilizzo di metodi concatenatori permise all'uomo di elaborare
immagini seriali, di individuare in esse costanti e variabili e quindi
di attivare un'azione di scelta.
Costantemente il sole variava diventando luna, costantemente Eva mandava
Adamo a prendere cibo per Caino e Abele. Variabilmente Adamo non ne
aveva voglia, costantemente Caino si variava in Eva per rubare il cibo
ad Abele, il quale, costantemente, ci cascava, mentre Eva,
variabilmente, si chiedeva se fosse veramente Eva o se si doveva invece
considerare diventata Caino.
La maschera del dubbio, quest'impensato regalo, fu all'inizio solo una
maschera allegra, perché consentiva di scegliere, in quel coacervo
d'immagini che rappresentavano la natura, solo le più utili.
Man a mano che il meccanismo della scelta, come già' quello della
finzione, diventava più astratto, allontanandosi dalla sua origine, dava
all'uomo la possibilità d'associarlo al suo gioco preferito, quello di
provare la sua forza, quello di competere con finzioni sempre più
astute, sempre più pericolose.
Così come aveva tentato di fingere la finzione, l’uomo osò dubitare del
dubbio: riuscì quindi a farsi l'immagine del dubbio.
La confusione fra tragedia e avanspettacolo, tema vero di questo
capitolo, nacque con il dubbio ed è per questo che si tenterà di
costruire la maschera del dubbio per ripristinarne l'ordine.
Fino a che non sopraggiunse la maschera del dubbio, le immagini
comparivano come un insieme di associazioni non oppositive ma
addizionabili.
In un sano agonismo fra immagini, poteva accadere che un'immagine
vincesse per aver qualcosa in più rispetto all'altra. Era come un
movimento cellulare, nel quale l'attacco di una cellula si risolveva
sempre con un inglobamento.
Non era infatti credibile immaginarsi qualcosa che, pur non
assomigliando a niente, aveva il potere di far sparire tutto quello che
toccava.
Con la maschera, il meccanismo della scelta s'avvitava su se stesso,
provocando un' allucinazione peggiore di tutte quelle che aveva
sperimentato.
I nostri antenati provarono una sensazione terribile, un nuovo dolore
per un'immagine che non aveva volto, per una pura dissolvenza di tutto
l'immaginabile: sentirono fisicamente la presenza dell'abisso, del
vuoto, della vertigine, e... si disperarono.
Ma quel dolore sordido, quel "disseccamento del mondo del senso",
come direbbe T. S. Eliot, quella maschera senza faccia divenne ben
presto, da urlo lanciato verso l'immenso che non risponde, messaggio
percepibile dal cervello, quella parte così vicina... così distante.
Disse Lucrezio: "... facile ut quivis hinc noscere possit /esse
animam cum animo coniuctam quae cum animi vi /
percusset, exim
corpus propellit et icit"
(...
“facile per ognuno conoscere che l'anima è congiunta al pensiero
colpendola anche il corpo ne viene colpito”).
La risposta questa volta fu piuttosto crudele, ma, per gente nomade
senza definizioni, abbastanza accettabile.
Si trattò di abituarsi ad avere esperienze emotive, non rinunciando alle
finzioni ma a quelle immagini immediate, anche se distorte, dalle quali
erano state rese possibili.
Si trattò d'associare immagini a quel vuoto inesplicabile per rendere
possibili strani simulacri che, in determinate situazioni, avrebbero
sostituito l'antico legame con quel tutto coagulato dal quale questa
strana avventura aveva avuto inizio.
Lentamente ma inesorabilmente, quei nostri antenati, con la rabbia del
mendicante che maledice il suo benefattore, con l'odio del guerriero che
medita una rivincita, impararono ad articolare dentro di sé delle idee e
fuori di sé delle parole. E, come avevano fiutato di meno, corso di meno
per pensare di più, ora immaginavano di meno, sentivano di meno, per
conoscere di più, se quella poi era "la conoscenza".
Cantò un
giorno T. S. Eliot: “Because
one has only learnt to get the better of words // For the thing one
longer has to say...”
(“Perché si è imparato a servirsi bene delle parole // oltanto per
quello che non si ha più da dire”).
Prima che qualche furbone inventasse il mito di Babele, per trovare una
buona scusa in grado di peggiorare la consapevolezza degli uomini, ci fu
chi tentò di conoscere la conoscenza con la stessa imprudenza con cui,
poco prima, aveva tentato di conoscere il dubbio; ma questa volta,
dietro la conoscenza, ritrovò la sua stessa faccia, che,
smaterializzandosi, come un vampiro colpito da regolamentare paletto,
gli ripresentava la formidabile maschera del dubbio. Quella Gorgone che
ancora per un po' rende la nostra arte la più imbattibile delle
tracotanze, la più eroica delle rappresentazioni.
Arte tragica perché ineludibile, capace di mascheramento solo per
necessità, sempre pronta alla dissolvenza quando una musa, rapendola,
volesse farle dimenticare l'affanno delle teatraliche battaglie.
L'uomo si abituò a riconoscere, senza la pretesa d'afferrare se non un
lembo di un riflesso, il fantasma di quella maschera, che, ogni giorno,
insinuandosi come un ingannatore, sibilando come per un avvertimento,
irretendo come una sirena, lo faceva partecipe di un'attesa insaziabile,
quell'attesa che ipoteca il futuro facendosi compiangere nel passato.
Il futuro e il passato, quel dipanarsi del tutto per differenza,
divennero per lui un nuovo fantasma con il quale stringere un patto
impossibile, un patto mortale: l'eterno presente.
Il presente nel passato con il ricordo, il presente nel futuro con
l'aspettativa, il presente nel presente con la percezione della morte.
La morte, ingrata traditrice del dubbio, pessimo gioco illusionistico da
prestigiatori – ceca per finta, muta per finta - col piattino delle
elemosine sempre in vista.
La morte finì col distogliere gli uomini dalla tragedia, favorendo il
più irresponsabile degli avanspettacoli; divenne, per chi voleva fuggire
dalla responsabilità di permanere in contemplazione del vuoto, la
compagna di quel buffonesco teatro scenografico che tanto interessa gli
egittologi, gli etruscologi e il simpatico popolo napoletano, inventore
della pizza e delle cuorna a schifio.
Fortunatamente questa sceneggiata non riuscì a corrompere poeti come
Orazio, che seppe cantare: Absint inani funere neniae // lutctusque
turpes et querimoniae // compesce clamorem, ac sepulcri // mitte
supervacuos honores" (“Siano lontane dalle vane esequie // lacrime e
nenie e brutte querimonie // raffrena i clamori, tralascia // le
sepolcrali inutili onoranze”). (Orazio Odi II, trad. G. Vitali).
La Morte fu per molto tempo una delle tante armi ciarlatane che
l'uomo utilizzò per prendersi le sue nevrotiche rivincite contro
l'instabilità del dubbio, vestendola con gli abiti da parata delle
verità assolute: quelle pesanti droghe che, in una maniera o in
un'altra, lo riportavano in uno stato fisico simile a quello dal quale
era venuto: lo stato simbiotico con il tutto coagulato.
La differenza fra l'aderire a un'immagine allucinatoria, scaturita da
una concatenazione associativa di finzioni-funzioni astratte, e
l’aderire alla finzione di un'idea scaturita dall'impossibilità di
risolvere l'aporia del dubbio come forma pura, a noi attori, abituati
alla strumentalità della rappresentazione, sembra irrisoria.
Nel nostro teatro le verità logiche sono nello stesso libro paga di
quelle sciamaniche e non permettiamo, dietro la scena, che quelle
finzioni drammatiche continuino inopportunamente a recitare, svilendo
quest'arte che tanto amiamo.
Dietro la scena non c'è tempo per questi bisticci da grande opera, anche
il dubbio deve tacere, con o senza volto.
A noi gente nomade, riposti gli strumenti di lavoro, piace vivere così,
semplicemente, come su di una "distanza", evitando di fiaccarci
nell'assoluto. E' per questo che il Fingitor Cortese cantò: “Vivere
d'una distanza // dove l'armonia colma // assolute visioni // e
variabilmente // idisegna ampiezze // figurazioni dilata. // Saprò
condurre // sulla via, sulla maniera // una sazietà profonda? // Fatica
d'indeterminare // il nostro messaggio // inseguendo relazioni //
scambiando mutevolezze // e quando cedevolmente // fingiamo l'assoluto,
// siamo come sempre”.
(L. Granetto;
“Archeologia Poetica”; Verona 1971)
IL LUOGO
(Terzo Capitolo)
“Learn of the green world what can be thy place
In scaled invention or true artistry...”
(E.
Pound; Canto LXXXI)
“Impara dal mondo verde quale sia il tuo luogo // Nella misura
dell'invenzione, o della vera abilità // dell'artefice…”
En el silencio sigue
la lira pitagorica vibrando,
el
iris en la luz que llena
mi
estereoscopio vano.
Han cegado mis ojos las cenizas
del fuego heraclitano.
El mundo es, un momento,
Trasparente, vacio, ciego, alalo.
Machado, “Nuevas canciones”; trd. S.
Solmi)
“Nel silenzio continua // a vibrare la lira pitagorica, // l'iride nella
luce ch'empie il mio // stereoscopio vano. // Le ceneri del fuoco
eracliteo // gli occhi m'hanno accecato. // Per un istante il mondo
attorno è fatto // evanescente, vuoto, senza fiato.”
Chi ci ha seguito fin qui, si sarà accorto che senza la più miserabile
delle spiegazioni, abbiamo continuato a spostare gli obiettivi,
dimenticandoci, con spavalderia, di quel luogo originale dal quale
eravamo partiti.
Vi chiediamo venia, con tutte le smorfie di cui siamo capaci, ma a voi
spettatori incalliti, dubbiosi più del naso di Voltaire, vogliamo
svelare un segreto della nostra arte.
§Fra le molte regole che fanno un buon attore le più importanti sono:
sfuggire la spiegazione e lasciare la storia agli scenografi.
La spiegazione, questa malefica parola così cara ai critici, noi la
intendiamo con diversa leggiadria, sia per chiedere alla bella villana
di spiegar le sue grazie al nostro colto Priapo, sia per tentar di
spiegar le ali alla poesia, quando ci capita di trovarci nella
traiettoria di un pomodoro di troppo.
Sappiamo bene che le spiegazioni ci vengono fornite dalla nostra incerta
coscienza per giustificare la sua mania di fare inferenze causali con
azioni e sensazioni altrimenti incomprensibili.
Con i processi del nostro subconscio desideriamo comportarci con più
rispetto, evitando le scorciatoie delle facili e lente analogie spesso
in grande contrasto con ciò che viene chiamata consapevolezza.
Prima che il nostro emisfero sinistro si preoccupi di fornirci un senso
e quello destro si preoccupi di organizzarlo, noi sappiamo attuare
quella reazione di attacco e fuga che ci rende degli invidiabili e ben
pagati attori.
La storia poi, con tutto quel mischiamento fra casi irreali e reali
fantasie, non può che starci dietro, la dove, complice una luce
adeguata, potrà svolgere un ruolo di sfondo.
La storia deve per noi creare quel bel colpo d'occhio d'apertura di
sipario, predisponendo lo spettatore all'immediatezza dell'ascolto, non
deve incombere goffamente, come troppo spesso ci capita di vedere, per
rimediare le deficienze di una compagnia d'artisti mercenari, tutto paga
e fuggi, senza la più piccola dignità almeno nella presenza.
La nostra guitteria ci fa già abbastanza vergognare senza che si
aggiunga la furbizia di nascondersi dietro quest'attrezzeria da
palcoscenico.
Pur recitando sullo stesso piano, noi non ci sentiamo né dentro né fuori
la storia, ma casomai davanti, anche se, lo ammettiamo volentieri, a chi
sta dietro le quinte questo modo di vedere le cose potrebbe non andare a
genio.
Comunque, su questo sfondo nebuloso noi di storie ne raccontiamo quante
ce ne pare, cercando di confonderle, un po' per impedire in futuro che
qualche screanzato, con la malattia della spiegazione, finisca con il
deturparcele.
Le nostre storie non possono mai essere raccontate due volte, un po'
come l'acqua di Eraclito; provenendo tutte da uno stesso luogo
ubbidiscono a quella trama perduta di cui abbiamo avuto modo di parlare.
Fu proprio per seguire l'ordito di quella trama, la qual ci permette di
scrivere i nostri copioni, che finimmo col trasformarci, fra cielo e
terra, in una compagnia di girovaghi.
Cantava
Pound: “The warp // And the woof // With a sky wet as ocean //
Flowing with liquid slate”.
“L'ordito // e la trama // con un cielo acquoso come un oceano //
disciolto in liquida ardesia”
Seguire un ordito non e' da tutti. C'è, è vero, chi lo fa a occhi
chiusi, come i famosi ciechi vedenti; ma quanti, come noi, sono
obbligati a tenere ben aperti gli occhi - se non altro per evitare
d’inciampare in tutti quegli attrezzi così utili alla recitazione ma
anche così tremendamente ingombranti da sembrare superflui - si devono
adattare a quell'arte mimetica, prossima alla saggezza, del fiutar
l'orma nemica.
L'orma, la traccia, il segno hanno sempre un rapporto biforcuto sia con
l'utilità-inutilità del reale sia con i mezzi per comprenderlo. Abbiamo
infatti imparato, a forza di delusioni, che questi ultimi stentano ad
armonizzarsi con i nostri desideri, specialmente quando, inseguendo la
mania di truccare le regole del gioco, ci vogliamo convincere di una
qualche necessità dei desideri.
Il desiderio, finzione fra le più pericolose, la maggior parte delle
volte inganna se stesso mentre inganna gli altri, lasciandosi
imbrogliare dalla stessa finzione che si era ostruito.
E' questa una delle tante fischiettate per le quali non solo diffidiamo
della storia e ci teniamo lontani dalle spiegazioni, ma siamo portati a
soprassedere con intermezzi danzanti quando un racconto, inceppandosi,
non trova di meglio che mettersi a cincischiare di quel luogo primigenio
dal quale eravamo partiti.
L'evocazione di quel luogo, pur essendo un effetto speciale molto
gradito al pubblico, probabilmente per la sua analogia con le
sceneggiate di successo dedicate alla mamma, scatena vere e proprie
forme maniacali che a lungo andare sfociano in attività patologiche
particolarmente gravi.
Fra le varie nefaste conseguenze dell'ammorbarsi di queste psicoastenie,
due ci sembrano particolarmente dannose: la mania mistica e quella
definitoria-evoluzionistica.
La prima ci sottrae spettatori, i quali trovano più economico assistere
a un teatro inventato e recitato da se stessi, un teatro che sopprima
tutto ciò che invece reclamerebbe lo sforzo di pagare un biglietto; a un
tutto complesso essi oppongono un niente semplificante.
La seconda crea degli spettatori più fastidiosi dei mangiatori di
pop-corn: gente nevrotica, con la fissa del prima e del poi, sempre
pronta ad acclamare il primo attore, non riuscendo neanche ad accorgersi
che, di lato, nella penombra, un inaspettato pugnale, di lì a poco,
dominerà la scena nelle mani dell'ultimo dei caratteristi.
La nostra capacità di trarre informazioni dall'osservazione delle orme
ci ha abituato a rinunciare a qualsiasi pregiudizio lineare e
consecutivo; preferiamo allenarci alla sorpresa quasi come fosse una
realtà famigliare.
Comprendiamo molto bene che gli uomini per simulare se stessi abbiano
bisogno d'attaccarsi, come Münchhausen, al proprio
codino, ma ci è difficile capire perché vogliano convincersi, così a
buon mercato, che basti innalzare la necessità sopra la stessa finzione
per sentirsi tranquilli.
Il discorso sull'esistenza di quel luogo dovrebbe essere lasciato solo a
chi sa che l'oblio è una forma della memoria, la quale, a sua volta, è
la forma più alta della maschera del dubbio.
Quel luogo, per essere evocato, ha bisogno che l'eternità,
invulnerabilmente, s'inabissi nell'innominabilità, punto e basta!
Cantava J. L. Borges: “La arena de los ciclos es la misma // E
infinita es la historia de la arena // A si, bayo tus dichos o tu pena,
// La invulnerabile eternitad se abbisma.”
(La sabbia dei cicli è la stessa // E infinita è la storia della
sabbia, // Così, sotto le tue gioie e il tuo dolore, // L'invulnerabile
eternità s'inabissa.”)
Non si può confondere il fastidio che abbiamo provato davanti all'aporia
del dubbio con la presenza di un luogo intorno a noi, e ci sembra
abbastanza sciocco camuffare con simboli, metafore, gesti, suoni o,
peggio, con ridicole e antiteatrali concettualità matematiche, quella
che sappiamo essere poco più che una malattia.
Che l'uomo surroghi la vita con il linguaggio ("che muta la sua
parola nella sua stagione e la modella", come direbbe Ezra Pound) è
già abbastanza triste. E non si sente proprio il bisogno che esageri col
traslare i suoi problemucci sulla raffigurazione del linguaggio, anche
quando lo vuol presupporre nel vuoto di Mosè o intorno all'isola di
Utopia.
Se qualche cosa noi animali abbiamo imparato deambulando sulla nostra
trama, è quello di non fidarci dei rapporti consequenziali, di non
scaricare su di un inizio quello che non comprendiamo di una fine o,
peggio, di voler presupporre un inizio simulando la fine.
Intorno a noi il tempo atmosferico, così proficuamente mutabile con le
sue piogge improvvise e i suoi tuoni risveglianti, ci aiuta a uscire
dalle illusioni che costruiamo per lo spettacolo: come il tempo lineare,
utile per far nascere e morire qualche personaggio, o il tempo ciclico,
necessario per dargli la possibilità di rinascere dalla sua tomba: il
che fa sempre il suo bell'effetto.
La nostra natura di bestie nomadi, presupponendo l'esistenza di un luogo
del principio, ci spinge a non tradirla, a cercare di non bagnarci due
volte nella stessa acqua, lasciandoci liberi di rappresentare le nostre
ucranie, mentre la verosimiglianza, ci risponde, dal coro, con il suo
controcanto.
Bisogna
ancora fidarsi di Eliot quando canta: “What
we call the beginning is often the end // And to make an end is to make
a beginning // The end is where we start from.”
“Ciò
che chiamiamo il principio è spesso la fine // E finire è incominciare.
// La fine è là donde partiamo.”
Se, come dice Einstein, il grande vecchio non gioca a scacchi, non
saremo certo noi a sfidarlo su questo campo. Al massimo, possiamo
annusare, intuendo, i versi di Borges: “Dios mueve al jugador, y èste,
la pieza. //Què Dios detràs de Dios la trama empieza // De polvo y
tiempo y sueno y agonias?” (“Dio muove il giocatore, e questi, il
pezzo. // Quale Dio dietro a Dio dà inizio alla trama // Di polvere e
tempo e sogno e agonia?”).
Rispondere a questa domanda significherebbe rinunciare al pathos del
dubbio, finendo non nel luogo del principio ma in qualche tempio
edificato per crollare davanti allo starnuto del più sgangherato dei
pensatori.
Se gli uomini hanno bisogno di consolarsi pensandosi un sogno di un Dio,
che ha dietro a sé un altro Dio che crea la trama, imparino almeno a
sognare senza intasare le cliniche psichiatriche o gli scaffali delle
biblioteche; imparino che, anche per la finzione, c'è bisogno di sogni
che le somiglino.
MEMORIA (Quarto Capitolo)
“E troverai alla sinistra delle case di Ade una fonte e accanto ad
essa un bianco cipresso diritto a questa fonte non accostarti neppure da
presso. E ne troverai un altra, fredda acqua che scorre dalla palude di
Mnemosine; e davanti stanno i Custodi. Di loro: sono figlio di Terra e
di Cielo stellante, inoltre la mia stirpe è celeste; e questo sapete
anche voi. Sono riarsa di sete e muoio ma date, subito fredda acqua che
scorre dalla palude di Mnemosine. Ed essi ti lasceranno bere alla fonte
divina. E in seguito tu regnerai insieme agli altri eroi. Di Mnemosine è
questo il sepolcro...” (Laminetta trovata a Petella; IV secolo A.C.;
trd. G. Colli)
“Memoria certe non modo philosophiam, sed omnis vitae usurum omnesque
artes una maxime continent.” (Cicerone)
“La memoria certo contiene non solo la filosofia, ma tutto ciò che
concerne la pratica della vita e tutte le arti.”
Sol pur col foco il fabbro il ferro stende
al concetto suo caro e bel lavoro
né senza foco alcuno artista l'oro
al sommo grado suo raffina e rende.
Ma l'unica fenice se riprende
se no prima arsa, ond'io ardendo moro,
spero più chiar resurger tra coloro
che morte accresce e il tempo non offende
Del foco, di ch'i parlo, ho gran ventura
c'ancor per rinnovarmi abbi in me loco,
secondo già quasi nel numer de morti
(Michelangelo)
Prima che il gioco delle idee allucinatorie in libera uscita facesse
credere all'uomo che anche Mnemosine si potesse prestare a qualche
sceneggiata, questa dea, figlia di Terra (Gea) e Cielo stellante
(Urano), provvedeva a fargli venire quella voglia matta di vivere al
solo scopo di creare il più sfrenato, irresponsabile e tracotante dei
bevitori. Mnemosine utilizzò a questo scopo da osteria due regali di sua
madre Gea, figlia del Caos: la materia e i sogni.
I sogni, frutto di un incesto fra Gea e suo fratello Urano, diedero
all'uomo la possibilità di conoscere gli dei e divennero per lui
messaggi inconsci.
Si convinse che questi dei combattessero contro Urano, che aveva preso
la gran brutta abitudine di rinserrare i fratelli-figli nella profondità
di Gea senza mai lasciarli venire alla luce.
Un giorno, Cronos, il divoratore di tempo, il più infelice di quei
titanici pargoli, esasperato dalla sconveniente abitudine del padre,
ebbe la bella trovata di tagliarli i genitali.
Urano ne fu così umiliato, che fuggì ben oltre il più sofisticato
telescopio, in un luogo dove si rende visibile solo ai pazzi, ai
sognatori e agli amanti delle più disordinate e pericolose creazioni,
aiutati dalla bella Afrodite nata dalla schiuma insanguinata di
quell'antica castrazione. L'incomprensione per questo ombroso dio
suggerì inoltre a uomini assai vendicativi di immaginarselo come un toro
da ammazzare nelle arene, e questo molto prima che Teseo accoppasse il
Minotauro.
Questa chiarissima storia, tramandata da gente onestamente bugiarda,
viene raccontata da altri bugiardissimi, loro discendenti, con una certa
mancanza di pathos, giustificato dalle fredde grazie della puttanella
scienza, ancella di Minerva, dea civetta. Ancella di così scarsa
importanza da non essere menzionata neppure da Esiodo.
Ciò che trasforma una reazione fisica in un evento biologico è la
costanza ritmica del suo orologio molecolare (l'anima di Cronos). La
reazione chimica abbandona la sua magmatica attività (il ventre di Gea)
per creare il suo regno nell'equidistanza fra momento attivo e momento
resistente, tra questi, egli si pone come oscillazione ritmica e affida
la sua vita alla costanza.
René Char
cantò:
“Le
combat de la persèvcèrance.
asymphonie qui nous portaitr s'est tue.
Il faut craire à l'alternance
Tout de mysterès n'ont pas ètè pénétré ni détruits.
“
“La lotta della perseveranza. // La sinfonia che ci porta è muta. //
Bisogna credere al moto alterno. // Tanti misteri non sono stati
penetrati ne distrutti.”
Cronos, primo dei cibernetici (cibernetica: dal greco, con significato
di “pilotate/guidare una nave”), per poter uscire alla luce, caricando e
scaricando elettroni in sequenza, deve interrompere l'attività lineare
del padre (taglio dei genitali) per pilotare il suo segnale come
regolatore dell'omeostasi: quel processo fisiologico coordinato,
mediante il quale l'organismo vivente si mantiene in uno stato di
equilibrio.
Come si sa, Cronos aveva ereditato dal padre lo stesso vizio che gli
uomini erediteranno poi dagli dei: un esagerato egocentrismo. Dopo
essersi accoppiato con la sorella Rhea, aveva preso l'abitudine di
mangiarsi i figli, che non volevano capire la meraviglia del suo regno
perfetto, dove gli istinti non avevano bisogno di sublimarsi in fallaci
astrazioni per suggerire il puro desiderio insaziabile. Ma la sua
eccessiva fame di vita, il desiderio spasmodico d'andare sempre oltre i
propri appetiti, alla lunga gli fecero perdere la capacità di
valorizzare i dettagli. Fu così che lasciò a sua sorella Mnemosine il
compito di mettersi fra la materia organica e quella inorganica per
regolamentare il traffico, con segnali abbastanza imperfetti ma
tutt'oggi efficaci.
Quando il figlio di Cronos, Zeus, nascosto dalla madre Rhea in una
grotta, ubriacò, castrò e spodestò il padre dopo avergli fatto vomitare
tutti i figli inghiottiti, Mnemosine aveva già trovato il modo di
evitare che il corpo morisse una volta che la natura si stancava di
consentire dentro a un organismo vivente quella danza oscillatoria della
vita.
Mnemosine nascose infatti dentro ogni più piccola molecola organica,
anche la più insignificante, un’ampolla ricolma di un intruglio di acidi
miracolosi (DNA e RNA), che a contatto con qualsiasi cellula vivente
avrebbe avuto la possibilità di far nascere nuovamente ogni essere, dal
più grande al più piccolo, con un aspetto quasi del tutto simile a
quello che aveva avuto nella sua precedente vita.
A quest'ampolla Mnemosine allegò, per suo divertimento personale,
istruzioni per l'uso piuttosto fantasiose, al fine di ingenerare una
sana confusione che impedisse a quegli esseri sedentari, assai
tradizionalisti, convinti conservatori, di ripetersi con la stessa
sconsolante, noiosa, risaputa, faccia di bronzo.
In queste istruzioni per l'uso, alcune regole però non venivano mai
variate; nello specifico:
1) RICORDATI CHE SI VIVE PER BERE: perché l'entropia biologica non può
far altro che aumentare rendendo i nostri processi fisiologici
irreversibili. Bevendo (acquisizione di energia) ci differenziamo e
invecchiamo pagando il costo energetico dei processi omeostatici. I
bevitori più egocentrici e individualisti devono sapere non solo che
nell'agognata differenziazione diminuisce l'entropia a spese
dell’energia, ma anche che l'entropia “persa” aumenterà in qualche altra
parte dell'universo. Comunque, la dissipazione fa parte di qualsiasi
buon bevitore, anche di chi non disprezza equilibrio e costanz
2) RICORDATI DI LOTTARE PER IL FIASCO: perché, anche nel più vigliacco
dei sedentari, i genotipi si occupano esclusivamente della loro
sopravvivenza. Il bevitore è solo un parco giochi utile alle loro
competizioni.
Mnemosine fra l'uomo e gli aminoacidi scelse l'eternità solo per
quest'ultimi.
La lotta per il fiasco, oltre a un’ottima recita, può servire comunque
per capire come il fenotipo non sempre può arrogarsi il merito di
rappresentare il mutevole e flessibile genotipo, abituato a dialogare
con i più capricciosi fattori ambientali.
3) RICORDATI CHE BERE IN COMPAGNIA FA RIMA CON ALLEGRIA: perché i
neuroni specchio hanno bisogno di scaricare energia, determinando in noi
la simulazione attiva del comportamento degli altri e la conseguente
comprensione sia delle nostre che delle loro azioni.
Anche quando non riusciamo a riconoscere in noi azioni analoghe a quelle
messe in atto dagli altri, avviene un’inferenza capace, in un secondo
tempo, di attivare un meccanismo di riconoscimento di un’esperienza
emozionale comune.
4) IMPARA A BERE UN PO' DI TUTTO MA SAPPI SCEGLIERE I VINI MIGLIORI:
perché anche se ci si rifiutasse di bere un po' di tutto i nostri sogni,
i nostri pensieri impliciti, si ubriacherebbero smodatamente senza alcun
rispetto per la nostra risibile volontà.
Mnemosine ama la creatività e l’ancella di questa l’Invenzione; entrambe
si nutrono, anche per il più egocentrico degli ubriaconi,
dell'interazione delle immagini che provengono dall'ambiente esterno con
le immagini interne provocate dai sensi, dagli impulsi, dagli stimoli e
a una buona quantità di finzioni-funzioni.
Nati per sognare ed emulare il mondo come altri esseri viventi più
poetici di noi, abbiamo finito col diventare gli antagonisti di quei
sogni e di quel mondo.
Per adempiere a questo tragico destino, abbiamo confuso la pura arte del
recitare, ossia l’emulazione (che consiste nell'attivare azioni non
intenzionali), con l'osservazione meticolosa e leggermente pornografica
di quel che stavamo facendo.
Il nostro cervello, sempre tanto impietoso e vendicativo, affidò, per
punirci, un nuovo lavoro all'ATTENZIONE: un demone che sonnecchiava in
una specie di mandorla, chiamata amigdala, posta alla base dei suoi
emisferi cerebrali.
In quel luogo, l'Attenzione svolgeva solo il ruolo di sentinella, si
accorgeva prima di tutti se c'era qualcosa di particolarmente pericoloso
e si premuniva di avvertire la neocorteccia di trovare le soluzioni
giuste per risolvere il pericolo. Soluzioni messe in atto senza che
nessuno si rendesse conto del perché la neocorteccia si fosse comportata
in quel modo.
Con la nuova mansione affidata alla povera sentinella ATTENZIONE, un
certo numero di soluzioni automatiche divennero valutate con più
ponderatezza, con più dubbi da risolvere, ma, soprattutto, fu loro
impedito d’avere una reazione immediata al giudizio d'istinto.
Scriveva Nietzsche: "L'intelletto è essenzialmente un apparato che
impedisce una reazione immediata al giudizio d'istinto: trattiene,
medita ulteriormente, vede la catena delle conseguenze più lontano e più
estesamente.” (F. Nietzsche; “Frammenti Postumi”)
In questo contesto “SCEGLIERE I VINI MIGLIORI” può voler dire anche
valutare le conseguenze del loro consumo su quella che vorremmo
divenisse la nostra ersonale visione del mondo e, perché no, il nostro
comportamento.
5) IMPARA A DANZARE UBRIACO: perché i sistemi regolatori dell'essere
vivente, cerebrali, fisiologici, adattivi e dipendenti da molti altri
fattori chimico-fisici, tendono continuamente a ristabilire un insieme
di costanti che assomigliano a quel concetto che asceti e logici
chiamano equilibrio, ma che, in realtà, sono un insieme di messaggi
inerziali, i quali, invece di disperdersi, possono essere codificati e
quindi ripetersi con una stabilità relativa. I biologi chiamano questo
fenomeno equilibrio dinamico.
Qualsiasi sia la loro finalità apparente, qualche volta anche manifesta,
sanno conservare in se stessi una causalità nascosta, capace d'indurre
in noi la sensazione di essere perennemente ubriachi: la consapevolezza,
dolorosa o felice, di essere incapaci di organizzare il nostro
comportamento intenzionale.
Il danzare ubriachi non corrisponde solo al bisogno di trovare un
compromesso con la nostra coscienza esplicita, ma si associa anche alla
necessità di non opporre eccessiva resistenza alle continue mutazioni
che avvengono in noi.
Inoltre, un ottimo motivo per danzare ubriachi è che, trovandoci in uno
stato tipicamente ambivalente e arbitrario, potremmo essere in grado di
produrre un messaggio che potrebbe trasformarsi, per chi ci guarda, in
un nuovo messaggio magari anche di quelli che cambiano il mondo.
La capacità referenziale fra due o più soggetti che tendono a non
capirsi da molto lavoro ai neuroni specchio delle rispettive cortecce
motorie.!
6) IMPARA A REGGERTI SU UNA GAMBA: perché l'equilibrio è solo il figlio
bastardo dell'EQUIVALENTE, una delle tante maschere della finzione.
Reggendosi su una gamba si può sperare di fare l'esperienza di cadere
per errore.
Esperienza simile a quella che fa il DNA quando, per replicarsi, muta se
stesso se gli capita che un punto sulla sua copia della mezza elica sia
errato o quando si vede detronizzato dalla sua funzione esclusiva di
distributore dell'informazione biologica per la capacità di certi
sciagurati enzimi che utilizzano le potenzialità del suo fedele servo
RNA.
Nella caduta, inoltre, se si è particolarmente fortunati, si può
esperire la molteplice natura del dolore: quello fisico per la botta
ricevuta, quello psichico per averlo riconosciuto, quello psicotico per
la vergogna provata.
Ci si renderà conto, in una sola volta, come sia facile per il nostro
corpo mettere in atto quel processo di trasformazione della sofferenza
finalizzato ad arricchire i medici, gli editori, i farmacisti e altri
utili lavoratori del benessere individuale e collettivo.
7) RICORDATI DI PRENDERE FIATO PER TRACANNARE MEGLIO: perché l'apporto
della troppa energia che è in noi, producendo un aumento dell' entropia
globale del sistema biologico, ci fa invecchiare troppo presto.
Prendendo fiato, riposandoci, sintonizziamo la nostra voracità alle
forze inerziali dell'omeostasi: la facoltà di autoregolazione di tutti
gli organismi viventi. Con qualche sollazzo sedentario possiamo
perseverare nello stato di quiete attendendo che nuove bevute (energia
esterna) convincano l'entropia a diminuire un po' la sua inesorabile
corsa. Inoltre, il fine di TRACANNARE meglio è un'opportunità che ci
aiuta a brillare nei migliori salotti dove, fra una tartina e un
martini, sono molto apprezzati i discorsi sulla biocompatibilità e sui
vari processi rigenerativi.
In fondo, anche quelle chiacchiere hanno una certa importanza per la
selezione e la trasformazione dell'ambiente in relazione ai
comportamenti umani e, naturalmente, viceversa!
Queste istruzioni, etilicamente gioiose, generarono un mondo multiforme,
popolato da esseri fantastici, uno rigorosamente diverso dall'altro,
tutti però uniti in un solo scopo: bere e tracannare.
Ci si è spesso chiesto, fra una bevuta e l'altra, perché Mnemosine,
fosse così legata al bere, probabilmente perché aveva visto come quel
suo pronipote Zeus, il traboccante, il fermentante (Zeus significa
risplendere ma contiene anche la risonanza analogica di
zéin-fermentazione, lievitazione), aveva saputo approfittare di una
sbronza di suo padre per evirarlo e mandarlo in Inghilterra, terra di
molti gay liberamente accettati.
Ma c'è chi - come i moderni scienziati poco interessati a queste
veritiere menzogne - si ostina a fornirci un'altra interpretazione.
Quando Mnemosine era giovane e vestiva alla marinara, nell'atmosfera
l'ossigeno non era presente allo stato libero, o almeno così credono
loro, in quanto nelle rocce primitive il ferro è depositato sotto forma
di composto ferroso (FeO), mentre in presenza di ossigeno si deposita
sotto forma di composto ferrico (Fe2O3).
In un tale ambiente, risultava difficile che avvenisse una sintesi delle
proteine, con quei pochi aminoacidi e nucleotidi e altri composti
organici, sintetizzati abioticamente in quello strano brodo molecolare
che assomiglia così tanto a quell'ichòr che traboccò dalla caverna dove
nasceva Zeus.
Quindi, se non era possibile ottenere energia per ossidazione, non
rimaneva altro che ottenerla attraverso la fermentazione degli zuccheri,
come accade anche oggi per molti tipi di batteri e di animali, come i
parassiti intestinali che vivono in un ambiente privo di ossigeno.
Questi piccoli ma originali animaletti, perfettamente istruiti da
Mnemosine a fare casino, dopo che Zeus, sfuggendo da quell'isterica di
Giunone, riuscì a farsi una sveltina con Latona per creare Apollo,
riuscirono a moltiplicarsi e a ingigantirsi catturando l'energia solare
direttamente con la fotosintesi.
Fu forse dopo quell'avvenimento che i poeti, istruiti da Mnemosine a
festeggiare i compleanni, si diedero a ringraziare Apollo, chiedendoli
sempre più "foco", per, come ci dice il nostro Michelagnolo, "sentirsi
delle fenici" che "ardendo morono" ma che, come dice Petrolini "poi
rinascon più grandi e più belle di pria".
Gli artisti, i nostri più cari fratelli, hanno questo di bello: possono
bere il liquore di fuoco, possono far fermentare le idee della
creazione, possono distruggere per ricostruire, come ci dice Picasso
quando afferma che "ogni atto di creazione è prima di tutto un atto di
distruzione", senza che il simbolo li ottenebri, senza che la loro
stessa mente crei loro quell'inconveniente filosofico, tutto tedesco. di
perdere una vita intera a cercare un improbabile assoluto, fra un
a-priori impossibile, fuori dal tempo e dallo spazio e uno strumentale
a-posteriori, che finisce quasi sempre col trasformare l'assoluto in
assolutismo o in pazzia.
Un buon artista, per essere tale, deve essere anche un buon bevitore. Un
buon bevitore non è ricattabile, specialmente da chi, come Kant, non si
degna di sedersi alla sua tavola, e, se lo fa, lo fa sempre per
interposta persona.
Non ci rendiamo ancora conto come le notti gotiche abbiano saputo
sostituire i nostri gioiosi riti dell'immediatezza con quel coacervo di
macabri equivoci, inventati da un popolo che non seppe convivere con
eleganza le proprie istintualità.
Nella nostra fanciullesca allegria fummo presi da terrore quando Hegel
pronosticò "l'avvento della verità assoluta come autodeterminazione
della libertà, quella libertà che ha come scopo la sua forma
assoluta".Quella libertà, aggiungiamo, che ti porta dritto in un lager,
dove "la volontà di potenza" di in nicciano convinto si è rivestita
dell'ineluttabilità di un altro hegeliankantiano: il generoso
pasticcione Carlo Marx.
Ma non ci viene voglia di ridere neanche quando, visto il fallimento
sanguinario di queste teorie, Heidegger tentò di riciclarsi con la sua
delirante "impossibilità possibile dell'esistenza", facendo rientrare
dalla finestra quel tipo di aporia che pensavamo volatilizzata nel fumo
dei forni crematori.
La bilancia utopica, fra assoluto metafisico ed enigma conoscitivo,
tenderà sempre o verso l'ineluttabilità di una legge odiosa, o verso la
schizofrenia dell'ascetismo, togliendo all'uomo l'opportunità di
ascoltare Mnemosine quando suggerisce d'imparare a "DANZARE UBRIACO".
A dire il vero a questi tedescacci, Mnemosine avrebbe dovuto suggerire
l'impossibilità di farsi bevande da soli, ma questo suggerimento le deve
essere apparso inelegante, non degno di una dea, che, unendosi a Zeus,
procreò la seconda generazione delle Muse. Ci dice infatti Apollonio
Rodio che "nei versi attribuiti a Museo, si racconta di due generazioni
di muse, delle più anziane, dei tempi di Crono e delle più giovani,
figlie di Zeus e Mnemosine".
Le Muse della prima generazione erano, come sappiamo, solo dei
suggerimenti allegati a un’ampolla, le seconde invece sono attività
concrete vere e proprie, come l'inchiostro e i pensieri di queste
pagine.
Ritornando ai nostri tedescacci indiavolati, probabilmente l'equivoco
delle loro esagerazioni fu generato dall'aver preso troppo sul serio
quell'istruzione: RICORDATI DI LOTTARE PER IL FIASCO.
Il lottare per il fiasco non significa suggerire agli altri bevitori di
andare a morire ammazzati, imponendo un sistema complicato di leggi
vessatorie che vanno tutte a finire in interminabili film su Robin Hood,
inventati per surrogare il desiderio di bere con l'inaccettabile
morbosità dei guardoni. Questa lotta, anche nei periodi più
rivoluzionari della differenziazione, deve avvenire sempre allo scopo di
BERE IN COMPAGNIA, per far rima con allegria.
Se poi, qualche batterio autolesionista, qualche organismo
schopenhauriano, viene preso dall'irrefrenabile desiderio di andare
"alla sinistra delle case di Ade" a bere a quella fonte che sta accanto
"a un bianco cipresso diritto", peggio per lui, vorrà dire che noi,
bevitori incalliti, ci impadroniremo del loro lascito di fiaschi, senza
nessun romantico senso di colpa.
Ci rendiamo conto che l'arte del bere non è fra le più semplici per
gente fisicamente disadatta alla danza; perché l'arte del bere richiede
due sforzi che sembrano antitetici: quello dell'equilibrio e quello
della mutazione.
Il primo ha bisogno del secondo, ma il secondo fa di tutto per far
perdere l'equilibrio all'equilibrio ed è per questo che Mnemosine
suggerisce d'imparare a REGGERSI SU UNA GAMBA PRIMA DI DANZARE UBRIACHI.
Tristan
Corbière cantò:
“Va
donc, balancier soul affolé dans ma tete!”.
(“Va dunque, bilanciere ubriaco affollato nella mia testa.”).
Abbiamo già visto come Adamo scoprì fuori di sé le proprietà della
costanza, come tempo ripetuto, mentre, essendo nato fra il Tigri e
l'Eufrate - nel territorio africano delle perfette danze significanti -
non aveva tempo d’occuparsi anche del suo equilibrio interno, il quale,
nella sua naturale ubriacatura, funzionava certamente meglio del
"bilanciere" di Corbière, poeta marinaio.
Per ragioni squisitamente estetiche - e quindi conoscitive -, Adamo
preferiva farsi trasportare dal ritmo stesso della danza piuttosto che
rovinare tutto con un semi-meccanico-minuetto, che tanto sarebbe poi
piaciuto a quei selvaggi totemisti della ragione, così ignorantemente
blasfemi, d'aver sostituito nei loro riti magici la maschera di Apollo
con delle ridicole lampade a olio, per le quali furono chiamati con un
nomignolo privo di senso: illuministi.
Gli illuministi, a furia di scambiare quei lumini con la luce del sole,
finirono con il permettere agli elettricisti di prendere il posto dei
pensatori.
Quell'incauta mossa, dovuta alla frivolezza francese, diede la
possibilità all'ordine mentale squisitamente prussiano di elaborare un
infallibile sistema per rovinare un qualsiasi gioco di scacchi,
riducendo la casualità assetata in causalità astemia.
Ma noi, guitti e saltimbanchi, da generazioni figli di Terra e Cielo
stellante, abituati a barare per sopravvivere, non cadiamo in questi
trabocchetti robotici. Noi riconosciamo la fonte di Lete a prima vista
ed è per questo che abbiamo elaborato una serie infinita di modi per
procacciarci da bere, e una serie altrettanto infinita per adattarci
agli effetti eccitanti che ci danno le nuove sconosciute bevande come ci
consigliò un giorno Lucrezio: “Post aliud cum contigit illud, avemus
// et sitis aequa tenet vitai semper hiantis” (“Per noi desideriamo
dell'altro e la stessa sete di vita ci tiene sempre con il fiato
sospeso”).
Mnemosine ci ha insegnato, oltre alla danza, il metodo di prender fiato
per poter sibilare parole ubriache ai più irresponsabili astemi; parole
infallibili che indossano la maschera del dubbio. Maschera scaltra, che
annienta i finti svelamenti heideggheriani, fatti d'indigeste angosce e
le furberie fataliste pigramente covate dagli orientali.
Venezia, città di maschere, intercala la sua deliziosa lingua con una
parola che ha il suono della danza, il sapore di un sorriso e il volto
marino della laguna: “conforme”.
A un venexian se te disi che “conforme” xe n'aporia, xe na brase coverta,
che prima o poi la scota, te risponde, co’ na fassa da tola: conforme!
(se dici a un veneziano che conforme è un'aporia, una brace coperta, che
prima o poi scotta, ti risponde, con faccia da impunito: conforme!).
Se non si conoscono tutti i suggerimenti di Mnemosine per bere
spasmodicamente è meglio, per non soccombere, troncare subito la
discussione.
Una tenzone alcolica con un veneziano finisce sempre o a cantar sotto le
stelle o nelle limacciose acque di qualche canale: raro esempio di
commedia che non sa dissimulare le sue origini tragiche.
Una discussione sul “conforme” veneziano risulta particolarmente
difficile; questa parola infatti non appartiene alla tracotanza
dell'uomo e ai suoi maldestri tentativi di nascondersi da Mnemosine
(come fece quel furbo di Zenone quando se la rise di Parmenide con il
suo fastidioso “è e non è”).
Zenone, da bravo siciliano, aveva una visione catartica del pensiero e,
probabilmente, tentò d'assassinare la dialettica fin dal suo nascere.
Zenone, abituato ad assistere comodamente seduto in qualche delizioso
anfiteatro della sua splendida isola a delle straordinarie opere
musical-poetiche, riteneva disarmonico dividere ciò che, non unito ma
coagulato, dava di sé una così convincente prova di spettacolarità
rappresentativa.
Il “conforme” dei veneziani, in quanto comportamento concreto, non si
concede al pensiero geroglifico del rimando, non procede per soluzioni
“altre”, se ne infischia del rigore maniacale della segnaletica.
Se Mnemosine conserva biologicamente l'essenziale, permettendo la
differenziazione delle forme, significa che queste ultime sono
l'estensione del suo corpo e non la sua mera rappresentazione.
Vivere e pensare “cum-forma” vuol dire indossare la maschera del dubbio
senza farsi paralizzare dalle sue aporie: abbandonando l'aristotelica
“causa prima dell'essere” si può vivere in complementarietà non
necessariamente causali. Come scrive Michael Gazzaniga: “Stabilire un
corso d'azione è un processo automatico, deterministico, modularizzato e
guidato, in ogni dato momento, non da un solo sistema fisico ma da
centinaia, migliaia, forse milioni: il corso dell'azione intrapresa ci
appare una questione di scelta, ma si tratta del risultato di un
particolare stato mentale emergente, selezionato dal complesso ambiente
circostante, frutto di costanti interazioni. L'azione è fatta di
componenti complementari che hanno origine dall'interno e dall'esterno:
è così che funziona la macchina (il cervello).”....” Ciò che avviene è
l'abbinamento tra i sempre presenti molteplici stati mentali e le forze
contestuali incidenti” (M. Gazzaniga “ Chi comanda?” Codice Edizioni;
2013).
Il metafisico “pensiero che pensa se stesso” diviene, da prerogativa
trascendentale del Motore immobile, pratica quotidiana di comportamento
e in rari casi di conoscenza.
Un comportamento prevalentemente estetico, attento alle mutazioni della
forma, intesa come opportunità, lontana dagli assoluti e prossima alla
indeterminatezza mimetica, verso una natura che si fa, non disgiunta da
ciò che reputiamo essere la nostra coscienza.
In questa mimesi, l'uomo riconosce in se stesso la natura e nella natura
se stesso, un po' come in quella frase di Pico della Mirandola, che, se
non fosse viziata da una pretesa magica, da una volontà di potenza,
ingenua e anacronisticamente rinascimentale, potrebbe illustrare, a mò
di motto, ciò che intendiamo per “conforme” e per “estetico”: “quod
magus homo facit per artem, facit natura naturaliter faciendo nomine”
(“ciò che il mago produce mediante l'arte, la natura lo produce
naturalmente producendo l'uomo”).
“La natura è piena d'infinite ragioni che non furono mai in
esperienza”, direbbe Leonardo per evitarci brutte figure con ciò che
ci sembra determinato o determinabile.
La causalità è un gioco birichino che Mnemosine ci ha messo in testa per
ricordarci di lei: non è lecito sostituirla con qualche assurdo
succedaneo filosofico che la falsifichi.
Agli azzeratori epocali, ai futuristi guerrafondai, agli innovatori per
forza, Mnemosine fa trainare - al massimo - sacchi pieni di conseguenze
antiche, per ridicolizzarli ben presto sui libri di storia.
Quando un veneziano ti dice “conforme”, ti sta parlando di una
particolare abilità nel conformare le sollecitazioni che un avvenimento
gli suggerisce con l'avvenimento stesso.
Questa abilità ha il carattere dell'equilibrismo: se esagera in
opportunismo verrà preso a calci, se si fa prendere dal fatalismo finirà
col cascare, ma se riesce a mimetizzarsi con l'avvenimento sino al punto
di una quasi totale immedesimazione, allora otterrà un trionfo: quello
SAPERE COME FINZIONE ESTETICA.
Riassumendo,ma non semplificando!
Mnemosine si manifesta come materia che determina al suo interno dei
rapporti fenomenici regolati da delle reazioni, sotto l'aspetto
biologico, i rapporti fenomenici appaiono come delle successioni
correlate da reazioni che gli uomini trovano utile chiamare messaggi.
I messaggi, da questo punto di vista, sono fenomeni di carattere
naturale che ubbidiscono a quelle regole interpretabili, con sempre
maggiore precisione, dalla mente speculativa degli uomini, istruita a
questo scopo dai messaggi stessi.
I messaggi, intesi sia come reazioni chimico biologiche sia come
reazioni del pensiero umano, hanno bisogno per agire di nutrimento, il
quale condiziona la loro forma per adattamento e funzionalità. Questo
adattamento avviene principalmente per selezione e sedimentazione.
Nel caso specifico dei messaggi elaborati dal cervello, la natura ha
sedimentato una successione di analogie, fra esse inferenziali, che gli
permettono di “conformarsi” con grande duttilità alle sollecitazioni
interne ed esterne.
Il sapere come finzione estetica potrebbe, e in parte è già stato, una
tecnica conformativa, una ginnastica del pensiero che riunisce le
inferenze, cercando di fare emergere la memoria in tutti i suoi aspetti,
sedimentativi (ricordi) e selezionatori (innovazioni possibili, nuove
inferenzialità).
L'esteta percepisce la possibile narrazione dai processi non integrati,
tentando di liberarsi da se stesso. Non fidandosi del proprio e
dell'altrui sistema neurale, sottostante all'esperienza cosciente,
diffida della coerenza e della unitarietà. Dubita di tutte le credenze
che uniscono gli uomini e che rafforzano le loro azioni collettive.
Anche se forse non dubita dell’ANALOGIA, che rende intellegibili le
CIRCOSTANZE, dubita delle sue applicazioni, presenti e passate, se non
quando gli agenti analogici rendono intellegibili nuove circostanze; in
una parola: pur dubitando anche dell'errore lo venera con particolare
amore.
Ciò che rende possibile questo sapere è l'empatia fondata sulla
diffidenza, sull'incertezza e sull'imprevedibilità.
Ignoto e rischio sono il contesto del suo agire, evidenza e soluzione
dei problemi le macerie con le quali si forma il pensier condiviso dei
più contro i meno.
Fra le molte superstizioni generate da tale ginnastica vi è la credenza
che la solitudine degli individui che intraprendono questa strada sia
attribuibile a un eccesso di egocentrismo e da una sostanziale
incapacità di condividere con altri le loro esperienze.
In realtà la loro solitudine dipende dalla consapevolezza di non
esistere come individui e di essere agenti inconsapevoli di fenomeni che
partecipano a un’accumulazione complessiva fondata su agglomerati di
risposte asimmetriche date in epoche temporali anche lontanissime le une
dalle altre.
Fra le caratteristiche storicamente più evidenti di questo
comportamento, suggeriamo di annoverare anche l'attitudine a convivere
con il dubbio della fede. Da questo dubbio nascono molte idee, come
quella che il mondo nel quale viviamo non sia solo quello creato dal
cervello degli uomini, anche se, come scrive il neurochirurgo Arnaldo
Benini: “a questa visione pare oltretutto opporsi un limite
invalicabile, perché l'organo che studia la coscienza, il nostro
cervello, è anche quello che la crea. Allora siamo forse condannati a
cercare all'infinito i criteri per indagare su noi stessi, rimettendoli
un discussione a ogni nuova scoperta” (A. Benini; “La Coscienza
imperfetta”; Garzanti).
Dal dubbio su cosa sia realmente la coscienza nascono una serie di
problemi scientifici. Qualsiasi astrazione viene generata da un fenomeno
fisico, qualsiasi astrazione genera un fenomeno fisico e qualsiasi
fenomeno fisico è conoscibile solo attraverso l'astrazione.
Il problema se sia nata prima l'astrazione o il fenomeno fisico provoca
risposte chimico-fisiche, psicologiche e religiose. Per il pensiero
esplicito elaborato nella mente dell'uomo, l'insieme della relazione fra
questi due insiemi genera una concatenazione di causalità nascoste e di
causalità manifeste nell'essere vivente.
Per la religione esiste una causalità nascosta, non conoscibile
esplicitamente, ma implicitamente attraverso un fenomeno al quale viene
dato il nome di Dio, che genera fatti concreti come poesie,
comportamenti, filosofie, valori, malattie, guarigioni, etc. Il credente
ha fede in Dio, l'ateo ha fede nella sua inesistenza, ma i loro pensieri
impliciti o intenzionali, attivando le medesime regioni del loro
cervello, generano variazioni analogicamente simili.
In un testo babilonese del secondo millennio avanti Cristo si trova
scritto: “Ciò che si giudica per il dio è abominevole, ciò che si
trova cattivo per il proprio cuore, per il proprio dio è bene!”
E qualche anno dopo Euripide cantava: “Gli dei sovvertono, confondono
il valore di ogni cosa perché nell'incertezza del futuro noi continuiamo
sempre a venerarli”.
LA
PAURA (Quinto Capitolo)
“difatti una grande, attonita, atterrita reverenza per gli dei
impedisce la voce” (Omero)
“Volai via dal cerchio che da affanno e pesante dolore” (Laminetta
trovata a Turi)
“Pensa che tutto è pauroso e incerto nella vita. Quando si è fuori
dai malanni occorre guardarsi da ogni rischio, vigilare con gran cura
perché la nostra vita inopinatamente non perisca” (Sofocle)
“Mostra ai dormienti ciò che è furtivamente destinato a piacere e
sofferenze” (Pindaro)
Le infrenabili dolcezze che germogliano nelle tenebre, immensa
gratitudine fan sorgere nel cuore dell'uomo” (Euripide)
“Le nostre più grandi agitazioni hanno cause ridicole” (Euripide)
“Faelix qui potuit rerum cognoscere causas. Atque metus omnes
inexorabile fatum. Subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari.
Fortunatus sylvanumque senem, nymphasque sorares” (Virgilio;
Georgiche)
(Felice chi può delle cose conoscere la causa e calpestare ogni paura e
l'inesorabile fato e lo strepito dell'avaro Acheronte. Fortunato chi
conosce gli dei campestri: Pan, l'antico silvano, e le ninfe sorelle.)
Nel precedente capitolo abbiamo visto come si possa discorrere della
forma come di un'azione intrinsecamente legata all'atto del conformarsi.
Per far questo, abbiamo mescolato alquanto le argomentazioni: del mondo
organico con quello inorganico, della filogenesi con la tradizione
culturale, degli archetipi mitici con le credenze scientifiche.
Abbiamo stravolto l'eco delle pertinenze per ottenerne una risonanza che
assomigli, anche in questa scrittura oscenamente logica, all'oggetto del
quale vorrebbe farsi paladina.
La risonanza poggia sul fortuito che tende a travalicare come per una
speranza di conoscenza. Essa agisce sul lettore come una bella armonia
che smussa la pulsione del ritmo sincopato, facendo fluttuare la
contingenza dei rapporti nello spazio della rappresentazione: un teatro
che ci offre un comodo posto in platea.
Forse per questo ci siamo sforzati di ignorare interpretazioni
fonicamente aristoteliche, anche quando, come per il sinolo, c'è
sembrata una forzatura.
Abbiamo applicato le regole di qualsiasi teatro possibile, regole un po'
comiche e un po' tragiche, come lo possono essere quelle che abbisognano
di maschere.
Si tratta sempre e solo di una licenza, analoga a quella della
metafisica, che utilizza le poco credibili polarità oppositive:
astrazione e concretezza, tutto e nulla, forma e contenuto fino alle più
moderne stravaganze non necessariamente oppositive, come
significato-significante e linguaggio-metalinguaggio.
Anche noi affidiamo a simili finzioni la nostra recita, con però questa
accortezza: tentiamo la passività che trasformi il nostro possesso in
possesso posseduto.
Noi sentiamo la finzione come il demone di un'esperienza istintualmente
concreta, nella quale la coazione biologica non soggiaccia come eterno
rimando, bensì emerga in tutta la sua forza di continuità, fino al punto
di apparirci come immagine della sua azione.
Il farci possedere è per noi la mimetica danza che trasforma una
pulsione in suono, un’immagine in oggetto, una progressione in visione.
Marc Chagal diceva a questo proposito: “il principio dell'arte è uno
stato d'animo e questo stato d'animo che la gente chiama letteratura e
mancanza di logica è il fondo stesso della purezza”.
Le immagini con le quali vorremmo imbastire le nostre
rappresentazioni sono il prodotto concreto della natura che vive in noi,
perciò come scrive James Hillman, nel suo saggio su Pan: “ogni
trasformazione delle immagini, incide sui modelli di comportamento,
talché ciò che facciamo nella nostra immaginazione possiede rilevanza
istintuale”.
Da questo punto di vista il pensiero artistico, analogo a quello
magico, è propenso ad approfittare delle coincidenze fortuite e nega i
fatti contraddittori: le prime gli si manifestano nella loro apparente
immediatezza, i secondi bloccano la sua pulsione vitale.
Scriveva Paul Eluard: “Non c’è differenza, per l’uccello, tra il mago
e l’uomo; non c’è differenza, per un’immagine, tra l’uomo e ciò che egli
vede, tra la natura delle cose reali e la natura delle cose immaginate.
Il valore è lo stesso, materia, movimento, bisogno, desiderio, sono
inseparabili”.
Anche Marcel Mauss nella sua “Teoria generale della magia” affermava
che le coincidenze fortuite sono scambiate per fatti normali,
dimenticandosi però che questa tipologia del pensiero è tale proprio
perché non considera mai nulla come normale.
Il normalizzare, il generalizzare e il loro corollario peggiore,
l’assolutizzare, appartengono solo a quella norma comportamentale,
religiosa prima, filosofica poi, resa possibile dall’accettazione dei
principi di polarità astratta sopra descritti.
Polarità impossibile per il pensiero estetico fondato sul caso o su ciò
che chiamiamo con questo nome; disse Braque: “è il casuale che ci
rivela l’esistenza”.
Lo stesso Aristotele, nella sua Poetica, riconosce che “se la
favola è l’insieme dei fatti, il pensiero è la sola dimostrazione di
quei fatti”, dimenticandosi, però, che anche la dimostrazione è
favola in quanto sistema agnitivo, segnico e istintuale, anche se si
presenta nella nota forma del surrogato.
Intendiamo qui per istinto non solo quel segnale che attraverso il
nostro corpo la natura ci fornisce per portarci testimonianza rilevante
della sua esistenza, ma anche lo sforzo di trasformarlo in modello
conoscitivo della realtà stessa.
Henry Miller, con il consueto sarcasmo, diceva: ” il malato di mente
ha una potente ossessione per la logica e l'ordine, allo stesso
modo dei francesi”, raccontando, in tal modo, la peculiarità
istintualmente barbarica del popolo che cercò nella ragione una fragile
difesa dalle proprie nevrosi.
Il disagio provato dall'uomo al cospetto dell'aporia del dubbio riduce
la differenza fra il più complesso istinto astrattivo, che fa si che
l'uomo selezioni gruppi di idee elaborate e i fenomeni che le resero
possibili.
L'istinto che guida la più complessa fuga di Bach è analogo a quello che
suggerisce all'uomo primitivo, alle prese con la nascita del linguaggio,
di “scegliere dalla totalità del significato quelle parti che
presentano, una all'altra la relazione più soddisfacente di mutua
convenienza” (Lévi Strauss).
Lo stesso linguaggio umano, responsabile dell'illusione della
separatezza, ha bisogno per articolarsi che ogni suo segno ne richieda
un altro, riproducendo quel comportamento che lo antecede: la pratica
mimetica della finzione.
Questa pratica viene alimentata principalmente dall'istinto della PAURA
più semplice e meno culturale: evitare di morire.
Non morire per vivere la propria differenza e separatezza, che si sia
agili gazzelle o vanitosi professori universitari.
Tale differenza agisce come comportamento volto alla resistenza contro
analoghe forze ad essa contrarie, come accade in qualsiasi fenomeno
sub-cellulare, dove, né la gazzella né il professore troverebbero spazio
sufficiente per mettersi a piangere.
E' abbastanza naturale pensare che, come accade in parlamento e nelle
assemblee di condominio, gli uomini, ma anche le gazzelle, abbiano
trovato la maniera di accordarsi con le proprie e altrui PAURE,
integrando forze diverse in modo che le differenze si assomiglino.
Da questa pratica adattiva dipese la nota polarità egoismo-altruismo,
con tutte le conseguenze retoriche del caso.
La PAURA, quando la “differenza” non produceva crimini, fu una semplice
guardiana delle leggi naturali, come le Erinni e le Gorgoni; si
trasformò, in seguito, nella vendicatrice degli eccessi della coscienza
mentitrice degli uomini.
Medusa rappresentò la vanagloriosa esaltazione dei desideri, Eurialo la
perversione sessuale, Steno quella sociale.
Ritornando sull'idea di differenza, è interessante sapere quello che ne
pensava Lévi Strauss, utile, se non altro, per limitare l'impudico
desiderio dei razionalisti di invadere il teatro della sapienza
estetica: “Se l'espressione ci è permessa, non sono le
rassomiglianze, ma le differenze, che si assomigliano, con questo
intendiamo che non ci sono, primo, anmali che si assomigliano, l'un
l'altro (poiché tutti partecipano del comportamento animale) poi,
antenati che si rassomigliano tra di loro (poiché tutti partecipano del
comportamento ancestrale), ed infine, una rassomiglianza globale fra i
due gruppi, ma da un lato esistono animali che differiscono tra di loro
(poiché appartengono a specie distinte, ognuna delle quali ha propria
apparenza fisica e proprio modo di vita) e, dall'altro, uomini, tra cui
gli antenati formano un caso particolare, che differiscono anch'essi tra
di loro (poiché sono distribuiti tra differenti segmenti della società,
occupando ognuno una particolare posizione della struttura sociale). La
rassomiglianza presupposta dalle rappresentazioni denominate totemiche,
è tra questi due sistemi di differenze” (Lévi Strauss; Le Totémisme
aujourd'hui;
1962).
La rassomiglianza di gruppi di differenze, per la sua tremenda
difficoltà d’essere raggiunta e per l'ambiguità della finta polarità
egoismo-altruismo, deve aver suggerito all'uomo primitivo quel passaggio
illusionistico, non privo però di un senso delle origini, che veste la
rassomiglianza con i panni dell'alterità, dell'impossibile oltre, dove,
secolo dopo secolo, dal totemico sistema di riferimento mimetico si è
passati al raffinato politeismo sapienziale e, infine, alla
divinizzazione dell'identità.
Fu a questo punto che la PAURA diventò, come disse Omero, veramente
paurosa: “difatti una grande, attonita, atterrita reverenza per gli
dei impedisce la voce”.
La voce, intesa come lingua, ha questo di bello: può creare
l'assurdo logico ma poi non riesce a orientarsi, viene presa in giro
dalle stesse forze che aveva creduto di scatenare con la sua tremenda
furbizia da animale da preda, ed è per questo che abbiamo dato dei
barbari ai francesi.
Si potrebbe scrivere un saggio di successo, cavalcando la rinascente
moda per la Grecia, sull'aspetto panico e dionisiaco di tre quarti dei
più noiosi fra i professori della Sorbonne. Scrisse Karl Kraus: “Che
sono tutte le orge di Bacco al cospetto delle ebbrezze di colui che si
abbandona serenamente alla continenza!”.
Ritornando ai nostri primitivi, sempre meno primitivi, per loro la
PAURA del diverso divenne PAURA per l'identico; capovolsero il senso del
linguaggio. Per la prima volta una trama di rovesciamenti prese il posto
della metamorfosi biologica, nacque così, simultaneamente, l'idea del
mistero e della sapienza intellegibile separata da tutte le cose.
Disse Strobeo: “Nessuno, fra tutti coloro le cui espressioni ho
ascoltato, si è spinto sino a questo: riconoscere che la sapienza è
separata da tutte le cose”.
Ma è anche a questo punto che la natura, abituata a ben altre
battaglie, ingaggiò con la sua parte umana la lotta più aspra, facendo
sentire la sua presenza totalizzante nel continuo straniamento di questa
sua parte ribelle: impedì all'uomo la fuga e gli mise contro una
sapienza divisa, una sapienza che contraddice se stessa.
La sapienza che la natura suggerì all'uomo, malgrado la sua proterva
attitudine a mentire, nacque col ghigno del dolore ma visse con il
sorriso della vita; trovò la forza di farsi sentire oltre gli stessi
limiti del linguaggio, raddrizzando nella realtà quello che l'uomo tentò
di capovolgere.
L'arbitrarietà del linguaggio e il suo sostanziale destino a tradire il
suo inventore, giocò e gioca sempre dalla parte della natura, perché,
nel suo fondo germinale, conserva il seme della realtà, quello strano
fenomeno che ne rende possibile la finzione, la quale, a sua volta, per
quanti si perda nelle sue più straordinarie peripezie, finirà sempre col
ritrovarsi al punto di partenza.
Ed è forse per questo che la Paura, con tutte le sue varianti, ritorna a
simulare l'istintualità primaria, si confonde con essa per riapparire in
tutta la sua chiarezza magmatica, non in un oltre che l'annulli ma in un
tutto che l'arricchisca.
Al mediocre gioco nevrotico della coincidenza dei contrari, la natura
sostituisce la complementarietà dei diversi come in Euripide: “Dolci
son per chi soffre le lacrime e i gemiti e i canti dolorosi”.
All'uomo è concesso non solo di capire ma anche di sentire l'impulso
della vita. Gli è permesso di interloquire con se stesso, ovvero con la
natura: altro che impossibilità metafisico-razionalista, buona solo per
camuffare qualche imbroglio.
Sempre Euripide scrisse: “troppi sono, e sono sempre stati, e, haimé,
saranno i miei dolori! Oh dei! Chiedo soccorso ad alleati sordi,
tuttavia alquanto ci solleva, e invocarli, quando ci colgono le
sciagure”
Gli alleati sordi di Euripide, i sogni, i titani che sanno sorridere
dall'orrida e meravigliosa loro età dell'oro, ci parlano quando meno
siamo difesi, come per quel fanciullo della terza elegia duinese di
Rilke: “Così, rasserenato, nel suo letto,/ solvendo la dolcezza della
tua lieve figura/ sotto le palpebre assonnate nel gusto del primo sonno
- :/ pareva difeso... Ma dentro: chi contrastava,/ chi frenava in lui i
greto/ di madri d’un tempo -; ma tutto/ il muto paesaggio sotto il
Destino/ nuvoloso o limpido -; questo, fanciulla, era prima di te.
flutti dell’origine?/ Ah, non c’erano precauzioni quando dormiva:
dormiva ma sognava, ma febbricitava: e come ci si prestava!/ Lui, il
nuovo, il timido, com’era irretito/ dalle liane striscianti dell’intimo
accadere:/ già aggrovigliate in archetipi, in strozzante rigoglio,/ in
forme dallo slancio ferino. Come si abbandonava. Amava./ Amava il suo
intimo, il selvame del suo intimo,/ quell’originaria foresta ch’era in
lui, sulla cui muta rovina/ stava, verde luminoso, il suo cuore. Amava.
Quando lasciava il suo cuore, andava/ oltre le proprie radici, alla
potente scaturigine,/ dove la sua piccola nascita era già
sopravvissuta./ Amando affondava nel sangue più antico, nelle forre
dov’era la paura sazia ancora dei padri. E ogni/ orrore conosceva lui,
ammiccava, era come d’intesa./ Sí, l’orrido sorrideva..., di rado/ hai
sorriso così teneramente tu, mamma. E lui come faceva/ a non amarlo, se
gli sorrideva. Prima di te/ l’aveva amato, perché già quando lo
portavi,/ era sciolto nell’acqua che fa lieve il germoglio./ Vedi, noi
non amiamo come i fiori, attingendo/ da un’annata soltanto; a noi,
quando amiamo/ sale alle braccia un’immemorabile linfa. O fanciulla/ è
così: noi non amiamo in noi, un essere solo, futuro, ma/ l’immenso
fermento; non un singolo figlio,/ ma i padri, che come frane di monte/
posano al fondo nostro, ma l’arido
Solo in un poeta straordinario come Rilke, la PAURA, l'istinto
primario di tutta la vita, nonché della conoscenza, poteva
rappresentarsi così meravigliosamente pacificata con se stessa, libera
persino dall'irriverente tracotanza della finzione.
Ancora una volta solo un poeta riesce a disinibirsi totalmente, forse
perché un poeta è il solo che non crede al proprio “io”, se ne fotte
dell'autocoscienza, e, posseduto, possiede la forma, come in quei versi
un po' scherzosi di Gioimi, poeta persiano del 1400: “E, se mi
ferisce invidiosa lama d'accusa // e freccia d'ingiusto tormento, //
sufficiente almeno m'è l'abbandono dell'io, // mi basta il nulla per
scudo...”.
Versi scherzosi, quasi diabolici, perché quel nulla evocato
assomiglia maledettamente al suo pretestuoso antagonista, alla visione
dell'orrido magmatico che sorride al bambino di Rilke: Questo nulla ne è
la rimozione, un’ipotetica e un po' cialtrona salvezza dal linguaggio,
da parte di chi conosce il suo ambiguo mestiere: quello di giocare con
le sostituzioni fino alle illusioni dei nomi, nomi che non esistono.
Si tratta, molto furbamente, di trarre beneficio da quella trama di
rovesciamenti che garantisce una certa congruità con il reale, una
contrizione limitativa del sistema di riferimento, l'evento originale di
qualsiasi postuma contrizione, di natura metafisica o epistemologica -
ma, forse, non di quella misterica proferita su Caino - la quale esce
dai limiti qualitativi e quantitativi del linguaggio, dubitando di
qualsivoglia relazione, espressa nella Bibbia come “Alleanza”: durissima
prova per la furbizia (o la sapienza) di Abramo.
Solo una contrizione senza più un sistema di riferimento, senza alcuna
speranza e senza alcuna fede in una possibile grazia è, come fa dire a
Faust Tomas Mann, “degna di redenzione”; ed è per questo che
Abramo farà proferire al suo Dio le tremende parole: “chiunque
ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte”. Frase che apre la
strada dell'interpretazione teologica intorno alla figura del nemico,
del diverso, frase che conduce, con il cristiano “ama il tuo nemico”, a
un nuova visione del mondo.
La rimozione della differenza con l'unità
non impedisce ad Abramo di far parlare dentro di sé l'istinto
primario della PAURA con la quale è obbligato a rivestire il suo
perfetto Dio. La restaurazione della “differenza” come processo
conoscitivo d'amore, consente invece, e poi, al Nazzareno di impedire
agli uomini questa sofisticata idolatria, questa blasfema arte della
fuga nella impossibile mascalzonata dei nomi.
Nell'amare il diverso ci si rende conto che non tutta la potenza della
mente sta nel limitarsi, perché, o prima o dopo, questa egocentrica
stitichezza verrà sopraffatta dalla liberatoria e cacatoria
torrenzialità della natura.
Non si tratta solamente di una conoscenza o della sua mutazione, si
tratta della complementarietà dell'autocoscienza con le leggi della
natura.
La natura non si accontenta della modificazione del preesistente, esige
la comparsa del nuovo, del diverso come scrive il biologo Grassè:
“l'evoluzione creatrice non si esplica soltanto mediante la
modificazione dei geni preesistenti, ma esige la genesi di nuovi
geni”...”il DNA isolato non può nulla perché l'organismo è sempre un
tutto, ha bisogno di reagire con l'esterno, la sua vita è una continua
lotta contro l'entropia”.
Eppure, piuttosto di farsi trascinare dalla creazione, l'uomo è
capace di inventarsi di tutto, fino all'ammirazione di un se stesso così
irreale che, come ci suggerisce
sempre Mann: “lo potrebbe far rinunciare perfino a ogni
ammirazione esteriore, ad ogni ammirazione altrui...” provando “...i
brividi della venerazione per se stesso, anzi del delizioso orrore di se
stesso, per cui egli si ritiene un portavoce privilegiato, quasi un
mostro divino. E intanto si scende altrettanto in basso, onorevolmente
in basso, non solo nel vuoto e nel deserto e nella tristezza
impotente, ma anche nel dolore e nel malessere ... dolori del resto
familiari, che ci sono sempre stati, che fanno parte della costituzione,
salvo che sono molto onorevolmente rafforzati dalla illuminazione e
dalla nota sbornia” sbornia fatta di “ esaltazioni e illuminazioni,
esperienze di libertà scatenata, di sicurezza, di leggerezza, di tale
potenza e trionfo che il nostro uomo non crede ai propri sensi”...”Sono
dolori che si accettano con piacere e con orgoglio in cambio degli
enormi godimenti, dolori ben noti dalle fiabe, quei dolori che provava
la sirenetta, trafitture inferte alle sue belle gambe umane, quando le
acquistò al posto della coda. (Thomas Mann;
Doctor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata
da un amico, Milano, Mondadori,1996, p. 267)
C'è in queste poche righe la sintesi diabolica di un intero secolo
malato di un solipsismo mai visto prima; qualcosa di più della troppo
facile “distruzione della ragione” e qualcosa di meno della grande epica
romantica di un Baudelaire: lo schifoso non relazionato, il doloroso
stronzo, che, per il solo fatto di non uscire, crede d'essere una gemma
di recondito valore, un cielo dove non potrebbe volare neanche
un'anatra, altro che angeli ciechi, invasamenti apollinei, lucidità
dionisiache.
Si tratta solo d'imperdonabile stitichezza, di un inferno di cartapesta
come quello del più lamentoso e scomposto degli scrittori, mitizzato da
un gusto psicologista a oltranza, Antonin Artaud: “Quando mi penso,
il mio pensiero si cerca nell'etere di un nuovo spazio. Sono sulla luna
come altri sono sul loro balcone. Partecipo della gravitazione
planetaria nelle fenditure del mio spirito. La vita si svolgerà, gli
avvenimenti si snoderanno, i confini spirituali, si risolveranno, e io
non vi parteciperò. Non m'aspetto niente né dal lato fisico né dal lato
morale. Per me c'è il dolore perpetuo e l'ombra, la notte dell'anima, e
non ho voce per gridare. Dilapidate le vostre ricchezze lontano da
questo corpo insensibile a cui non importa di nessuna stagione
spirituale o sensuale. Ho scelto il dominio del dolore e dell'ombra come
altri l'irradiarsi e l'ammassarsi della materia. Non opero
nell'estensione d'un dominio qualsiasi. Opero nell'unica durata”
Tutta questa stitichezza, investita da un inevitabile “io”, al quale
non si pone rimedio del tutto, per non cadere nelle morbosità mortuarie
del buddismo formato occidentale, ce la portiamo addosso corporalizzando
nel linguaggio tutte quelle forze, interne ed esterne, che consideriamo
avverse: svalutando le regioni basse del nostro corpo a favore di quelle
alte, diamo del coglione al saggio e viceversa.
Otteniamo così, come scrive Jarry:”il minimo di comprensione opposto
al massimo di cerebralità, dalla realtà del consenso universale
all'allucinazione intelligente”.
Non c'è da meravigliarsi se la natura ogni tanto si prende le sue
rivincite nella maniera più sadica, come quando fa scalare il cervello,
il nostro Olimpo personale, da quelle schifose spirochete, che, una
volta raggiunto l'obiettivo, suggeriscono a tanti insensati Ludwig,
castelli in Baviera abitati da cigni ed esaltazioni Wagneriane.
Rivincita inesorabile anche quando si esagera con il mitizzare la
leggerezza per trovare l'ennesima scappatoia.
Alla fine, anche il comportamento ispirato alla più ineffabile
leggerezza del vivere dovrà fare i conti con qualche gratuita rimozione,
con qualche morbosità che, prima o poi, presenterà il suo conto: la sua
piacevolezza eufonica tenderà a inabissarsi, lasciando un “gallo
gracchiante in repertorio” (Karl Krauss).
Questo gallo, ancor più infido delle spirochete, non potendo farsi
sentire nell'encefalo, per mancanza di ricettori sensitivi localizzati,
finirà molto presto per scendere, utilizzando quelle stesse vie
omeostatiche per le quali le disgraziate erano salite.
La leggerezza è spesso così inautentica, che non può pretendere che in
essa l'autentico non si esalti, finendo, magari, col perforare
un’ulcera…
Con la leggerezza si finisce come il famoso dente di Boris Vian, uno dei
poeti più ironicamente “leggeri” della rivolta antinichilista e
antiromantica degli chansoniers francesi:
“ La vie, c’est comme une dent // D’abord on y a pas pensé // On
s’est contenté de mâcher // Et puis ça se gâte soudain // Ça vous fait
mal, et on y tient // Et on la soigne et les soucis // Et pour qu’on
soit vraiment guéri // Il faut vous l’arracher, la vie.
(La vita, è come un dente // All’inizio non ci si pensa // Felici di
masticare // Ma poi ecco che d’improvviso si guasta // Fa male, e
preoccupati // Lo si cura non senza fastidi // E per essere veramente
guariti, // Bisogna strapparlo, la vita…”)
Nel collocare la leggerezza fra le “tentazioni” più marciscenti e
più dolorose dell'individualismo, Thomas Mann scrive una pagina
decisamente extra-epocale, ponendosi, novello Epicuro, in una posizione
di chiarezza metastorica, in quello spazio nel quale l'acume critico
viene travalicato da un sapere che ne smussa gli angoli contingenti, a
favore di una completezza degna dello spessore culturale che i nostri
padri chiamavano humanitas.
Giustamente Alessandro Masi, scrive che: “per gli artisti del
Novecento il tema della leggerezza non è un compito ma una condizione
d'esistenza, è un antica sfida sulla materia e sui luoghi del martirio.
L'artista è così angelo-mostro e nel contempo vive le altitudini,
chiedendo al mondo di compiangerlo, ma aborrisce la materia cercando di
salvarla. Il suo profilo è un contraddittorio storico”.
Sembra di sentire Paul Valery: “Io non sono ne angelo ne bestia,
ma se fossi un angelo desidererei profondamente essere una bestia e
viceversa”.
Ci si può chiedere perché il Novecento non sia riuscito quasi mai a
reagire a questa predisposizione alla fuga “non importa dove fuori dal
mondo” come per il titolo del quadro del 1919 di Marc Chagal.
Inutile evocare la brutalità di due guerre mondiali, utile forse
chiedersi se queste stragi siano state rese possibili da una generale
resistenza a valori nuovi, incomprensibili con argomenti vecchi.
Purtroppo, come ricorda Roberto Bazlen nelle sue paradossali Note senza
Testo: “il nemico peggiore è il nemico che ha i nostri argomenti”.
E gli argomenti utilizzati da Marx per descrivere l'alienazione,
“l'estraniarsi da sé che il capitalismo rappresenta per l'uomo, sono gli
stessi di Kierkegaard contro l'estraniarsi da sé che la cristianità
rappresenta per il cristiano” (K. Lowith).
Non potendo più accettare come credibile il sistema mimetico di
riferimento di un sapere filosofico-religioso, che portasse a livello di
metalinguaggio le rappresentazioni soggettive, sia nella forma simbolica
delle raffigurazioni mitologiche sia in quella alchemica dell'emulazione
della natura, l'uomo non trova di meglio che trasformare l'istinto della
paura in fuga dalla disgregazione, in negazione, pura e semplice, della
simultaneità dell'esistente fra un dentro di sé e un fuori di sé.
Egli, come nota Maurizio Calvesi è portato a “sublimare la propria
specularità”, a camuffare eroicamente, ancora una volta, il proprio
naturale collassamento entropico in chissà quale meraviglioso volo
luciferino, reso possibile dalla finta e mascalzona oggettività della
morte.
Questo bamboleggiarsi con il non essere, vecchia e in un certo senso
simpatica trovata che, come in Schopenhauer, aveva in fondo generato
qualche innocua contemplazione estetica, finirà, con Heidegger, nel
trasformarsi addirittura in autentica disperazione, in assoluta
precarietà solipsistica, pronta ad accogliere un ennesimo capovolgimento
dei valori dell'esistente, fino al punto raccapricciante in cui, come
lui stesso afferma, “l'esistenza significa permanenz
nel nulla”.
Ed è fin troppo facile, a questo punto, descrivere lo “stimmung”, lo
stato d'animo, non come un’emergenza istintuale che ci riporti alla
comprensione sempre più chiara dell'oggettività della natura, ma come “
carattere ontologico dell'esistenza, oscuro nella sua origine e nel suo
destino”, capace di far nascere una coscienza morale quale “richiamo
dell'inquietudine, della situazione penosa dell'essere nel mondo, che
richiama l'esistenza al suo più proprio poter essere colpevole”.
Questo essere colpevoli, o come dice Masi, questo ritornare “nel luogo
del martirio”, farà intendere o meglio fraintendere “la propria
esistenza nella penosa situazione del suo isolamento”, quella situazione
che sembra fatta apposta per accogliere la risolutezza hitleriana che
pur lasciando “l'irresolutezza del si impersonale” la sa avversare con
“l'esistenza risoluta”.
La brutalità di questi ragionamenti è resa ancora più insensata perché
in Heidegger non troviamo, come invece e per esempio in Giovanni
Gentile, unitamente alla distruttività insita nel pensiero
dialettico-metafisico quegli elementi estrapolati dal pensiero
umanistico-cristiano che ne attenuano l'elemento nichilistico.
Per Gentile, l'uomo naturale viene chiamato sub-umano e la sua lotta per
liberarsi dalla schiavitù della materia dovrà tendere a “ trasfigurarlo
nella luce che è propria del mondo della libertà”, egli sentirà
“l'immanenza dello spirito” attraverso l'acquisizione dei valori
religiosi che fanno “la serietà morale di ogni uomo”.
Questa religiosità, per Gentile: “aggiunge all'obbligazione morale il
sigillo di quell'assolutezza che è un limite della libertà, e che nasce
dall'immediatezza dello spirito che il ritmo della sintesi spirituale
deve negare e superare, ma non può non incontrare come limite appunto da
negare e superare: limite eterno, che fiacca eternamente l'arbitrio del
soggetto nella libera posizione di se medesimo”.
Questo limite per noi italiani è una specie di garanzia, la coglioneria
nazionale é impedita a spingersi più avanti di una sana vita
parrocchiale o di un paesano mito della personalità.
Il comico di tale lugubre notte della decadenza, che a forza di decadere
bisogna che prima o poi sappia mostrarci il suo giacere, sta nel fatto
che pur non essendo ineluttabile è stata ritenuta tale dallo scorso,
infelice e ripetitivo secolo.
Che “l'esistenza risoluta” divenga, in pittura, la paesana vitalità del
primo Picasso, temperata dalla potenza di un significante indotto dai
suoi geniali furti ispirati a El Greco, Velasquez, Gauguin, Goya, alla
Grecia e all’Africa, o che rimastichi il bell’effetto manierista che un
enigma classicista fa sempre a un popolo di balilla (tutto preso da
eroici furori per potersi dimenticare delle sue scarpe di cartone, come
in certi quadri di Giorgio De Chirico) o che tenti il più sciocco e
malato degli azzeramenti come nell’irrazionale razionalismo di Mondrian,
il risultato sarà sempre lo stesso: impedire che l’uomo rifondi su basi
chiare, tendenzialmente oggettive, il suo sentirsi partecipe di una
civiltà evoluta.
In questa particolare prospettiva vissero l’indigesto ritorno all’ordine
e la presuntuosa oggettività marxista, ma non Picasso che seppe salvarsi
nell’epica di Guernica, in quella frase detta a un ufficiale tedesco:
“questo quadro fu dipinto da voi”.
Frase lontana dal pietismo fin de siecle dei suoi quadri blu e rosa,
frase non retorica perché non capace, neppure per un attimo, di
concepire la realtà come qualcosa di estrinseco, di nebuloso, bensì
piuttosto come una singolarità, zavorrata dall’esperienza dell’humanitas
e dalle sue esigenze.
In quella frase e in quel quadro, l’intelligenza soggettiva seppe
riallacciarsi a valori morali necessari, riabilitando quel “si”
impersonale che Heidegger avrebbe voluto soffocare per onorare
un’affettata logica: ingenua mascherata della solita barbara saga del
terrore.
La manipolazione della paura è difficile; è possibile invece che essa si
faccia pagare la nostra incongrua tracotanza, senza che poi, a nostro
maggiore scorno, ci permetta d’incolparla di alcunché.
La paura, emergendo, diviene campo segnico, rendendo possibile il
visibile là dove non possiamo che indagare nella sua invisibilità; essa
ci indica una strada sicura dove è auspicabile non sentirsi sicuri,
perché anche la sicurezza è una forma di superstizione e di aberrazione:
il peggior atto blasfemo come ci insegna la contrizione di Caino.
Il farsi possedere lucidamente dall’insicurezza, accogliendo la
tradizione più consistente dell’humanitas, permanendo in una tradizione
senza mai essere tradizionalisti, ci consente di accorgerci come lo
stesso Rilke sappia contraddire se stesso.
Rilke non riuscendo a opporre alla latenza dell’essere “invisibile e
sinistro” se non la centralità di un rito dei padri, si colloca
esattamente in uno stato contrario a quello della volitiva “esistenza
risoluta” di Heidegger”.
“Rilke muore della propria morte non come Artaud nell’ingigantimento
del mito sadiano, ma perché: quella morte gli è stata trasmessa, insieme
con la vita, dai padri; ed è la morte sua, che gli giunge nel sangue
della sua stirpe e che si completa con la sua vita, come le due metà
simmetriche di un frutto” (Furio Jesi).
Ed è così che una visione del mondo, nata nell’individualismo più
sconveniente, si risolve, malgrado fosche premesse, in un rispettoso ed
etico dissolvimento del limite, nell’accettazione equilibrata della
propria singolarità personale, della morte individuale capace di
chiarire che sentire è svanire:
“Ma per noi, sentire è svanire; oh, noi // ci esaliamo, sfumiamo, di
brace in brace // buttiamo odore più lieve” (Rilke).
Tutto ciò non per fare della disperazione il fulcro di una pseudo
utilitaristica “volontà di potenza”, ma per poter trapassare in nuove
forme di vita
“come tutto ciò che è nella sua stessa natura. Il suo divenire
impossibile in una determinata epoca non è che un’apparenza; esso ha in
se medesimo le forze, grazie alle quali, dopo ogni profanazione, torna a
santificarsi” (Tomas Mann).
Straordinario è come Tomas Mann sostituisca profanazione a errore e
santificazione a verità, dopo averli fatti annunciare da una
terminologia squisitamente scientifica, estrapolata da un biologismo
naturalista di sapore goetiano.
Non si tratta comunque di un rovesciamento gratuito, perché il continuum
scientifico permane nell’ovvietà strutturale del discorso che,
presupponendo una necessità morfologica non uniforme, se la ride di
eventuali condizionamenti assiomatici.
La contraddizione nichilista rilkiana esce dal simbolo irrazionale
dell’angelo cieco, che infatti nella decima elegia udinese scompare,
spinta dalla stessa necessità: quel meccanismo vitale, non rilevabile
dal semplice principio di causalità ma capace di contenere la
polisensità del linguaggio simbolico, di un linguaggio che non può far
altro che “santificarsi” in qualche modo con essa.
La natura, ancora una volta, fa capolino per impedirci la fuga,
obbligandoci a “santificare” le nostre farsesche incongruità nella sua
fondamentale congruità.
La “necessità” stessa viene strappata dal campo metafisico, nel quale
tenderà sempre a confondersi con l’utilità, per ritornare a collegarsi
alla sua più intima genesi che è quella di nascere da “un disturbo
anatomico o funzionale conseguente a una rottura dell’equilibrio
fisiologico o anatomico tra essere vivente e il suo ambiente” (P. Grassé).
Ha proprio ragione Euripide: “le nostre più grandi agitazioni
hanno impulsi e cause ridicole”.
Il povero Rilke, e con lui un’intera generazione, a forza
d’ascoltare lo strepitum dell’avaro Acheronte, per calmare un bisogno
del tutto panico, e in fin dei conti non molto spirituale, ha finito con
il rallegrare noi, esaudendo il nostro bisogno lucreziano che è quello
di un Virgilio un po’ copione: “qui potuti rerum conoscere causas”.
Le cause delle cose non della “profanazione” idolatra delle cose, anche
quella che veste i panni del dogmatismo relativista, fatto apposta per
non pagare il dazio, non un’etica del provvisorio, ma, come suggeriva
Wittgenstein, un’epica dell’ascolto: “non temere mai di dire cose
insensate ma ascoltale bene, quando le dici”.
A conclusione di questo capitolo dedicato alla farsa della paura,
presente in tutte le epoche ma totalmente invasiva nella nostra,
riportiamo lo scritto di uno degli uomini più coraggiosi, che nel 1924
aveva saputo, con invidiabile chiarezza, “santificare” la cultura della
nostra epoca: Pietro Gobetti. “Di scoperte metafisiche, di
relativismo, di arte applicata ai grandi problemi è rimasto, appena il
ricordo. La generazione che ci precedette combatté allora l'ultima
battaglia della sua passione romantica.
Cercò la salvezza nelle conversioni, nei programmi neoclassici, negli
appelli spirituali, con giovanile innocenza, come l'aveva cercata prima
del futurismo nell'idealismo attuale, nelle cento religioni che venivano
dai profeti d'oltralpe, nella guerra.
Tutte quelle formule erano espedienti, fatti personali, classicismo
senza classici, misticismo senza rinunce, conversioni crepuscolari. Era
naturale che gli uomini che nel relativismo avevano cercato l'epica del
provvisorio venissero così a perdere nelle crisi individuali il senso
dei valori più semplici di civiltà e di illuminismo e rinunciassero
anche alla difesa della letteratura insidiata e minacciata dalla
politica.
Le confuse aspettazioni e i messianismi di questa generazione dei
programmi, che per aver messo in forse si trovava a dar valore di
scoperte anche alle più umili faccende quotidiane, preparavano dunque
l'atmosfera di una nuova invasione di barbari, a consacrare la
decadenza.
Anzi i letterati stessi, usi agli estri del futurismo e del medievalismo
dannunziano, trasportarono la letteratura agli uffizi di reggitrice di
stati e per vendicare le proprie avventurose inquietudini ci diedero una
barbarie priva anche di innocenza.
Con la loro audacia spavalda con cui erano stati guerrieri in tempo di
pace, vestirono abiti di corte, felici di plaudire al successo e di
cantare le arti di chi regna. (da il Baretti).
Ecco un vero angelo - non cieco - di ventun anni, nel primo anno
dell'era fascista, volare nei cieli della paura, che avrebbe
terrorizzato, come non mai, il mondo intero.
ABITUDINE (Sesto Capitolo)
“Dalle regole generali non si può decidere nulla, neppure da quelle
che espongono eccezioni” (Testi Halakic - Talmud)
“Così copiando i mutamenti cosmici la mia casa diventa un universo”
( Lu Yun: IV secolo D.C.)
“Are
You groping Your way? // Do You do it unknowing? // Or mark Your wind
blowing? // Night tell You from day, // O Mover?
Come,
say!’ // Cried Xenophanes.”
(T. Hardy)
(“Ti
muovi a tentoni? Lo fai inconsapevolmente” // O noti il tuo vento che
soffia ? // Distingui la notte dal giorno, // O animatore?
Su dimmi!! //
Gridò Xenophanes.”)
“Tornare agli abissi profondi dove quel che è esistito giace ignoto”
(M. Proust)
“La conoscenza impone una trama e falsifica e ogni momento è nuovo e
sconcertante” (T. S. Eliot)
“La procrastinazione è una formula fondamentale dell'edificio della
nostra vita” (R. Musil)
Fra tutte le abitudini, care o deprecabili, caste o pervertite, sensuali
o filosofiche, l'unica che veramente può dirsi tale è quella che le
condiziona tutte: l'abitudine a non abituarsi.
Scriveva Sant’Agostino: “Ecce illa discedunt ut alia succedunt”
(Qui ecco, ogni cosa dilegua per far posto ad altre).
Questo bel regalo di natura ci impedisce di prendere troppo sul serio la
tendenza a trascendere il nostro pensiero, finendo in quei goffi voli
che fanno la fortuna della cattiva poesia, quella che agli angeli
potrebbe sembrare uno starnazzamento indecoroso di quattro polli che si
siano messi in testa di fingere il volo del condor.
Come tutte le immagini opportunistiche che l'uomo si costruisce per
autoglorificare in sé quei segnali reafferenti rielaborati dal cervello,
anche l'abitudine, come la paura, tende in lui a cambiare volto. A farsi
espressione mutevole e contraddittoria: “ut cumque video, sed quomodo
id eloquar nescio” (“io vedo in qualche modo, ma non so come
esprimerlo”) (Sant’Agostino).
Abbiamo visto, nel primo capitolo, come un modulo comportamentale -
quello che rende possibile la finzione - abbia creato un insieme di
segnali capaci di concatenarsi indipendentemente dal legame fattuale che
li aveva creati, e abbiamo visto come, subito, quei nostri concettuali
predecessori trovassero conveniente approfittarne.
Uno stimolo astrattivo, per poter dar luogo a una concatenazione
indipendente dalla causalità dei fenomeni esterni alla sua realtà
neuronica, deve essere in grado di sostituire a un unico fenomeno
fattuale - subito verificabile - più fenomeni diversi, che presentino
fra di loro almeno una relazione della quale ci si possa fare
un'immagine causale.
Questa immagine, per non collassare su se stessa, per non cadere in
quell'aporia del dubbio della quale si è più volte parlato, diverrà
funzionale solo se saprà porsi come sistema armonico equipotenziale, nel
quale la variabilità si ripeta, più o meno, sempre nello stesso modo,
tale da apparirci come un'invarianza.
Tale immagine pagherà lo scotto alla costanza: quel meccanismo con il
quale la natura scandisce sempre un tempo possibile anche quando l'uomo
vorrebbe trasformarla in una meno corruttibile ripetizione, virtualmente
scandita in un tempo irreale.
Eppure, il gioco d'azzardo con tale realtà, a ben vedere, è l'unico vero
concetto astratto che differenzia l'uomo dal rimanente mondo animale, o
almeno così crede lui, senza aver fino a ora mai intrapreso con gli
animali delle discussioni serie su questo argomento!
Dal primo totem, nel quale ha esteriorizzato un concetto astratto, che
come scrive Freyer “gli è stato insuflato nell'attimo in cui è stato
fatto, che in esso è divenuto fenomeno oggettivo e che ora sussiste in
quanto tale”, alla messa in opera di una macchina cibernetica, alla più
scimmiesca, ma sempre umana, ripetitività di certa arte concettuale,
l'uomo utilizza quella pratica mentale, resa possibile dallo
svincolamento dell'oggettualità concettuale da qualsiasi uso
immediatamente pratico e dalle leggi del logoramento spazio temporale.
Musil fa dire al suo turbato giovane Törless, alle prese con i numeri
immaginari:
“..cosa strana è appunto che in quei valori immaginari o in qualche
modo impossibili si possano tuttavia compiere le ordinarie operazioni e
alla fine ottenere un risultato tangibile”.
Potrebbe essere divertente prendere un qualsiasi testo logico - con
la selvaggia pretesa d'occuparsi dei principia - come fosse una tana
sicura o una torre d'attacco, per accorgersi che più questa pratica
mentale è in esso elusa, più questo testo è costruito sulla sua latenza,
dando ragione a quella fulminante battuta proustiana per la quale “è
l'istinto ha dettare il dovere e l'intelligenza a fornire i pretesti per
eluderlo”.
Prendiamo come esempio la famosa definizione di sillogismo di
Aristotele - che per vie traverse provocò al Galilei qualche ulcera di
troppo - e ritraduciamolo per i nostri infimi e antiscolastici scopi:
SILLOGISMO= ciò che mi faceva soffrire prima che lo risolvessi E' UN
DISCORSO= era il possesso di una pulsione reafferente, di una risonanza
dentro di me che mi si rendeva in parte manifesta nella lingua con la
quale fin da bambino ero uso parlare IN CUI POSTI ALCUNI DATI= che mi
dava l'illusione di poter dividere alcune parole o immagini da essa
provocate SEGUE DI NECESSITA' QUALCOS'ALTRO, DISTINTO DA ESSI PER IL
SOLO FATTO CHE QUESTI SONO STATI DATI= quest'illusione era ancora più
incomprensibile in quanto le immagini che io dividevo, per i porci
comodi miei, perché mi era utile, generavano immagini completamente
diverse da quei miei bisogni, eppure in qualche modo utili a essi E CON
L'ESPRESSIONE “PER IL FATTO CHE QUESTI SONO STATI POSTI” INTENDO= con il
dire” immagini completamente diverse da quei miei bisogni, eppure in
qualche modo utili” intendo IL CONSEGUIRE IN FORZA DI ESSI= che con esse
io potevo conseguire, anche se mi sembrava del tutto incomprensibile...
E ULTERIORAMENTE CON L’ESPRESSIONE “ CONSEGUIRE IN FORZA DI ESSI”
INTENDO NON AVER BISOGNO DI ALCUN TERMINE ESTRANEO IN AGGIUNTA= solo per
la forza di esse, senza bisogno di ulteriori giustificazioni esterne che
mi dessero ragione, che scatenassero in me quel meccanismo del premio
con il quale nasce quasi tutto il pensiero esplicito degli uomini
PERCHE’ ABBIA LUOGO LA NECESSITA'= io potevo fare indipendentemente i
miei porci comodi senza dovere niente a nessuno, rendendo questo
giocattolo o quest’arma
pesante, secondo i gusti, assolutamente necessaria.
Con queste premesse, non c'è da meravigliarsi se Aristotele finisca con
l'aprire una strada così pericolosamente attigua al pensiero dell'arte,
alla finzione come sapere estetico: la stessa che in questo libro ci sta
tanto a cuore,
Quando, come lui dice
“il principio del discorso razionale non è un discorso ma qualcosa di
più forte” finisce con il rifugiarsi nelle nebulosità deistiche,
nelle estasi oniriche, nella follia dei temperamenti malinconici:
"Chi mai, al fuori di un dio, potrà essere più forte sia della scienza
sia dell'intuizione? L'eccellenza, difatti, è strumento dell'intuizione,
per questo, al dire degli antichi, fortunati si chiamano coloro che
riescono, ovunque si slancino, senza possedere razionalità, e a loro non
conviene prendere decisioni. Possiedono infatti un principio la cui
natura è più forte dell'intuizione e della deliberazione. Altri
possiedono il discorso razionale, ma non hanno il principio suddetto. E
i primi possiedono lo stato entusiastico, ma non sono capaci di cogliere
il resto. Essendo privi di razionalità, difatti colgono nel segno.
E l'arte divinatoria di questi sagaci e sapienti dev'essere rapida,
soltanto non venir assunta dal discorso razionale; piuttosto, tra questi
ultimi alcuni si servono dell'esperienza, altri anzi dell'assiduità
della contemplazione. Ma tali qualità appartengono al dio. Il dio vede
distintamente tutto ciò, il futuro e ciò che è, e le cose da cui questo
discorso razionale si distacca. Perciò le vedono i melanconici e quelli
che sognano il vero. Pare infatti che il principio sia più forte del
discorso razionale." (Aristotele, Etica Eudemia 1248 a 26-bl, citata
da Giorgio Colli in “La Sapienza Greca).
Non "PARE", caro Aristotele, (essere platonico che i neo platonici
disconoscono), il principio "È" più forte, così forte da essere l'unico,
come il tuo predecessore Omero ben sapeva. Ed è ancora più forte quando
genera errori, divisioni, fughe, razionalismi e determinismi alla
rovescia, perché in essi l'invisibile - da rendere visibile - è compito
più emozionante che vaneggiare sulla malinconia e sul sogno: basse
materie mediche, quasi chirurgiche.
Come è risaputo, i vizi di forma del ragionamento sillogistico sono
stati ampiamente emendati dalla logica, ma purtroppo, la cattiva
ABITUDINE che quel ragionamento ha creato nel senso comune, continua a
mietere vittime nella circolarità delle finzioni comunicative, che
determinano non la comprensibilità dei linguaggi ma la loro subdola
utilità metalinguistica.
Se qualche volta conservare le ambiguità generate dalle strutture
astrattive può, sotto la spinta di una potente necessità fattuale,
essere anche utile, come nel caso dell'intuizione, altre volte
quest'ambiguità, creando una serie di pseudo concetti, può finire con il
determinare una specie di superstizione bigotta, che precipiterà l'uomo
in quegli immondezzai barbarici dai quali ha fatto tanta fatica a
uscire: lasciamo alla finzione la prerogativa di fornirci delle fresche
ambiguità, meno gliene chiederemo più ce ne regalerà.
Questo esagerare con il fingere la finzione, per poter continuare a
giocare con l'arte della fuga, porta a creare quell'immagine cinestetica
conosciuta come autocoscienza, immagine difficile da digerire dal più
lucido degli assassini come dal più sapiente dei santi.
E' incredibilmente poetica la descrizione di Sant Agostino dell'incontro
con la sua coscienza: “et venerat dies, quo nudarer mihi et
increparet in me coscientia mea” quell'increparet, screpitare, è
intraducibile se non si pensa all'uso che ne fa Virgilio, quando lo
mette in relazione al minaccioso avvicinarsi di una bufera (“saevas
increpat aura minas”) o Properzio: “tuba terribilum sanitum increpuit”.
Sia il vento che fa screpitare fiere minacce, sia la tromba, il suo
squillo tremendo, ci fanno sentire in realtà una risonanza, un ritorno
di suono più che un'espressione di esso.
Nell'immagine di Sant'Agostino, la coscienza non osa porsi come
autocoscienza, essa si presenta come un qualcosa di “nudo”, astratto,
che fa risuonare dentro se stessa quell'intricato mondo psichico, le cui
ramificazioni si sperdono sino al mondo dei silenzi inorganici.
L'inferenza che qui ci si manifesta poggia su un sistema già
algoritmico; l'insieme denotato da Sant'Agostino, con il porsi davanti a
se stesso non vestito da nessuna referenza (nudo), crea il presupposto
relazionale con la risonanza fattuale.
Divertente è notare come Sant'Agostino, in questo suo linguaggio
poetico, tradisca l'impianto deduttivo per trovarsi nel bel mezzo di
un'inferenza induttiva, nella quale “invece di permettere di asserire
una conclusione vera, quale conseguenza di un insieme di premesse vere,
permette di asserire una conclusione corroborata in una certa misura
dall'insieme delle premesse date” (A. Pasquinelli).
Inferenza descritta da Musil come: “la condizione in cui non si è
capaci di nessun altro moto dello spirito se non quello morale, l'unico
dunque in cui sia una morale senza interruzione, anche se consiste
soltanto in questo: che tutte le azioni vi galleggiano senza forme”.
E' questo il modulo comportamentale di chi sa ascoltare, di chi non
s'impedisce di vivere.
Non oltre la distinzione tra soggetto e oggetto, bensì all'interno del
loro rapporto biunivoco, avviene l'uniformazione non separativa con le
mutazioni espansive del cosmo.
In questo spazio, nel quale il funzionamento bioritmico del cervello
coordina immagini che immaginano se stesse, nel lento modificarsi fra
stati intensivi, - relativamente invarianti - e stati espansivi -
relativamente mutanti -, la costanza occupa la posizione della nudità.
Questa nudità, impossibilitata a essere il nulla, è portata per sua
natura a forzare i confini che la pongono asimmetricamente in un centro
che non è un centro.
Nudità spinta ad accelerare o decelerare per poter creare il suo
vestito, che, probabilmente, assomiglierà sempre a quello confezionato
da Einstein: cucito da un sarto che si muove nello spazio a una velocità
inferiore a quella della luce.
Questo sarto, che Aristotele avrebbe avuto difficoltà a collocare nelle
sue troppo strette categorie, come tutti i sarti ci tiene alle
tradizioni, tanto che si fa vanto in ogni dove d'usare il valore
costante della luce (c=300000Km/sec), come sua universale griffe:
elegante trovata per piacere anche ai neo-platonici.
La facitura di quei vestiti, così importanti per l'aspetto drammatico
del nostro teatro, oltre a misurarsi sulle “modificazioni
teleonomiche di quei meccanismi fisiologici la cui funzione è il
comportamento” (K. Lorenz), dovrà fare esercizio di stile non
offrendo gli usi ritenuti necessari, ma, non appesantendo con orpelli
desueti il corpo nudo dell'apprendimento, dovrà saper fornire
leggiadria, seduzione e, infine, meraviglia.
La meraviglia, da sempre invidiata da filosofi e scienziati, riveste nel
nostro teatro la massima importanza come ebbe a dire il più blasonato
dei sarti:
“Per me non c’è dubbio che il nostro pensiero proceda in massima
parte senza far uso di segni (parole), e anzi assai spesso
inconsapevolmente. Come può accadere, altrimenti, che noi ci
“meravigliamo” di certe esperienze in modo così spontaneo?
Questa “meraviglia “ si manifesta quando un’esperienza entra in
conflitto con un mondo di concetti già sufficientemente stabile in noi.
Ogniqualvolta sperimentiamo in modo aspro e intenso un simile conflitto,
il nostro mondo intellettuale reagisce in modo decisivo.
Lo sviluppo di questo mondo intellettuale è in un certo senso una
continua fuga dalla “meraviglia”.
Provai una meraviglia di questo genere all’età di 4 o 5 anni, quando mio
padre mi mostrò una bussola.
Il fatto che quell’ago si comportasse in quel certo modo non si
accordava assolutamente con la natura dei fenomeni che potevano trovar
posto nel mio mondo concettuale di allora, tutto basato sull’esperienza
diretta del “toccare”.
Ricordo ancora – o almeno mi sembra di ricordare – che questa esperienza
mi fece un’impressione durevole e profonda. DIETRO ALLE COSE DOVEVA
ESSERCI UN CHE DI PROFONDAMENTE NASCOSTO.” (A. Einstein)
Ed è probabile che la meraviglia abbia recitato la sua parte quando
l'uomo tentò di fingere la finzione, in quel teatro, in quel luogo, in
quella rappresentazione, egli deve essere stato preso per incantamento,
come su di una mancanza si dev'essere dimenticato del fine, della
conseguenza, del precedente, deve aver rimosso quell'abitudine
deterministica, che ancora lo opprime, per ritrovarsi simbolicamente nel
processo dell'apprendimento stesso.
Questa meraviglia scrive Giacomo Marramao: “si manifesta attraverso
un urto, un conflitto fondamentale che è alla base non solo di ogni
necessità ma soprattutto di ogni autentico salto di qualità della
conoscenza del reale, attraverso il conflitto che oppone l'esperienza”,
ed è di nuovo Einstein che parla di “un mondo di concetti già
sufficientemente stabili in noi”.
Ma con la meraviglia, come con il dubbio e come con la paura, non si
deve giocare a scacchi; al massimo, si può tentare di ripeterla, fino al
giorno nel quale, logorata dall'abitudine, coperta di fischi, dovrà
rinunciare alla grande scena del sapere come finzione estetica, magari
per finire, vergognosamente coperta in volto da folti capelli, davanti a
Marcel Duchamp, che per rendere ancora più triste la scena le ripete che
in francese échecs (scacchi) ha lo stesso suono di échec (fallimento),
mandando così a puttane, dopo la partita, almeno un’intensa e salvifica
copula.
E pensare che questa seducente musa, qualche anno prima, aveva cercato,
in un delirio di verde speranza, d'imporre a quel nichilista di Duchamp
la sua voluttuosa presenza, in una quasi distrazione ammiccante, ai
piedi di una bruttacchiona androgena tutta presa a tirarsi su con la
solita tazza di tè. Forse però bisogna scartare la perfidia, perché, in
fondo, la colpa, come in una tragedia greca, deve essere data solo al
destino. Che colpa infatti può essere data a Marcel Duchamp - così
geloso della “meraviglia” di Cezanne da tradirlo tanto presto - per una
vecchia ABITUDINE al decadentismo della sua generazione.
Fra il quadro di Duchamp del 1910 e la fotografia del 1932, gli
argomenti per irritarsi certo non mancano, specialmente per chi ebbe una
certa propensione ottocentesca a incoronarsi, come scrive Achille Bonito
Oliva - di malinconia: “certo dell'impossibilità di variare la norma,
resta assiso sul suo proposito, consapevole di corrispondere alla norma
e alla sua astrattezza, si lascia rappresentare dall’assenza”.
Magari, (suggerirebbe dal proscenio un maligno) perché, se fosse
così, l'assenza avrebbe sbranato il povero Duchamp,: il delirio bacchico
lo avrebbe posseduto vincendo l'inconveniente della diffidenza che fa
esitare. Il suo contemporaneo Ezra Pound, che seppe vedere i pericoli di
una tradizione in dissolvimento. (“I have perhaps seen a waning of
that tradition” - Forse ho veduto un dissolversi di quella
tradizione”), concluse uno dei suoi straordinari canti, il XXXI, con i
seguenti versi che paiono la traduzione di un classico greco:
“To have gathered from the air a live tradition // or from a fine
old eye the unconquered flame // This is not vanity. // Here error is
all in the not done, // all in the diffidence that faltered” (Aver
raccolto dal vento una tradizione viva //o da un bell’occhio antico la
fiamma inviolata // Questa non è vanità. // Qui l’errore è nel non
fatto, nella diffidenza che fece esitare”).
E poi cos'è questa mania di cambiare la norma ogni cinque minuti, la
norma per ridire vecchie cianfrusaglie lamentose sulla sublimità della
leggerezza, sull'ambiguità della ragione, sull'invisibilità dell'essere
e via romantizzando.
Non sarebbe più proficuo recuperare antichi linguaggi come fece Eliot o
prima di lui Leopardi con indubbio successo. Questi due grandi, per non
essere stati colti da quest'insulsa febbre del nuovo per il nuovo,
finirono per essere posseduti da un'essenza-assenza modernissima, alla
faccia dei futuristi, dei deliri del nouveau roman e delle imprudenze
giovanili del Gruppo 63.
Il tempo delle mutazioni in arte, come nella vita biologica, non procede
con i capricci di una moda passeggera ed è opera di basso utilitarismo,
di sciacallaggio degli errori, quello che solitamente fa la critica, la
quale, come scrive Proust, consacra un artista solo per il suo: “tono
perentorio, per il suo ostentato disprezzo verso la scuola che lo ha
preceduto” in una “logomachia che si rinnova di dieci anni in
dieci anni (che il caleidoscopio non è costruito soltanto dai gruppi
mondani) ma anche dalle idee sociali, politiche, religiose, che
acquistano un ampiezza momentanea grazie alla loro rifrazione in vaste
masse, ma che ciò nonostante restano confinate nei limiti di quella
breve esistenza che è propria di tutte le idee la cui novità ha potuto
sedurre soltanto spiriti poco esigenti. S'erano succeduti così partiti e
scuole, adescando ogni volta le medesime persone, uomini di intelligenza
mediocre, pronti sempre a quelle infatuazioni da cui s'astengono gli
ingegni più coscienziosi e più difficili in fatto di prove”.
E in tutti i casi, chi veramente cambia una norma non lo fa mai per
ribellione, anzi ne è sempre un poco timoroso, come s'addice all'educato
Einstein: “E ora basta. Newton, perdonami: tu hai trovato la sola via
che, ai tuoi tempi, fosse possibile per un uomo di altissimo intelletto
e potere creativo. I concetti che tu hai creato guidano ancora oggi il
nostro pensiero nel campo della fisica, anche se ora sappiamo che
dovranno essere sostituiti con altri assai più discosti dalla sfera
dell’esperienza immediata, se si vorrà raggiungere una conoscenza più
profonda dei rapporti tra le cose”.
E' incredibile il paradosso che qui si crea fra il vero scienziato
concettuale e l'artista concettuale. Il primo è interessato
all'astrazione per rendere più profonda la conoscenza “dei rapporti fra
le cose”, il secondo per allontanarsi il più possibile dal contatto tra
le cose, fino all'assurdo di riciclarle nevroticamente solo con un nome.
Non ci si può meravigliare se, con questi presupposti, il sessantotto,
con quel recupero duchampiano dell'immaginazione al potere, firmò la sua
condanna, il suo fallimento, ancora prima di mettersi a giocare.
Aveva ragione Braque quando affermò che: “un'utopia è un mito, di cui
se si prevedono le conseguenze ci si sbaglia”.
L'utopia non è una visione aperta, speculare all'atto dell'ascolto,
del raccoglimento, delle possibili folgorazioni, ma è un gioco chiuso,
una classica macchina celibe significante solo per se stessa.
In un'utopia si potrebbero trovare per caso ancora cellule vive, ma,
certamente, per farle germinare, bisognerebbe toglierle dal loro
contesto.
Ci sono abbastanza vie dell'errore in natura perché si abbia il gusto
macabro di sprecare il tempo in una cibernetica del fallimento,
inseguendo fantasticherie che sembrano fatte apposta per consolare il
senso di colpa di ben altre vie dell'errore, quelle dei sistemi politici
arroccati nel loro castello kafkiano. Castello lieto di concedere al
povero signor K quel titolo, da lui stesso scelto, di Agrimensore,
dimostrando che: “al castello sapevano di tutto il necessario e,
pensato il rapporto delle forme, accettavano la lotta sorridendo”.
Questo sorriso K lo capirà quando il sindaco gli esporrà la sua via
dell'errore, quella vera, quella che ridicolizza la modestissima via
dell’errore degli artisti: “solo un forestiero poteva fare una
domanda simile. Se c'è un servizio di controllo? Tutto è servizio di
controllo. Certo non è fatto per scoprire errori nel senso grossolano
della parola, perché errori non se ne commettono e, anche se ciò per
eccezione accade, come nel suo caso, chi può dire alla fine che sia
davvero un errore?”.
E più avanti, l'ultima sfilettata:“no, non è questione di
rilievo, sotto questo aspetto lei non ha motivo di lagnarsi, è proprio
un caso fra i più insignificanti. La quantità di lavoro non determina
l'importanza del caso. Ma, anche se fosse come lei dice, il suo caso
sarebbe tuttavia uno dei più modesti; i casi ordinari, cioè quelli senza
cosiddetti errori, danno molto più lavoro e certo un lavoro più
profondo”.
Nel castello kafkiano-aristotelico, il luogo dell'artista è previsto
nella non esistenza del suo presupposto irrazionale, che ben che vada,
apparterrà a un dio, dotato di quella provvidenza manzoniana buona a
tutti gli usi, sia che si tratti del signorotto Don Rodrigo sia del
mefistofelico Innominato.
Di questa colossale impostura, di questo rovesciamento del rovesciamento
a scopi di rapina, sarebbe opportuno accorgersene per restaurare la
terapia agostiniana dell'ascolto, che procede dal soggettivo
all'oggettivo e viceversa, sradicando perniciose ABITUDINI e
ricostruendone altre, utili alla circolarità delle idee condivise nella
fondazione di una civiltà.
Il compito è faticoso, perché una qualsiasi finzione conoscitiva, capace
di elevarsi al di sopra del concettualismo dettato da ABITUDINI
inconsce, presuppone un coinvolgimento drammatico con la maschera del
dubbio, un continuo rovesciare se stessi e il mondo, non fidandosi se
non della propria e altrui incertezza fondante.
Bisognerebbe saper navigare in questo mare dell'incertezza fra la Silla
di un relativismo sciocco e la Cariddi di un egocentrismo esasperato,
fidandosi del proprio corpo, del suo rilevante esistere a sostegno della
vita.
Scrisse di questa navigazione Marcel Proust, parlando degli artisti:
“nell'arte le scuse non valgono e delle intenzioni non si tiene conto,
in ogni momento l'artista deve ascoltare il proprio istinto: il che fa
si che l'arte sia il fatto più reale, la più austera scuola di vita e il
vero Giudizio finale. Quel libro, il più arduo da decifrare, è
anche il solo dettatoci dalla realtà, il solo stampato in noi dalla
realtà medesima. Di qualunque idea lasciata in noi dalla vita si tratti,
la sua raffigurazione materiale, l’impronta dell'impressione da essa
prodotta in noi è sempre il pegno della sua verità necessaria. Le idee
formate dall'intelligenza pura posseggono soltanto una verità logica,
una verità possibile e la loro scelta è arbitraria. Il libro dai
caratteri figurati, non tracciati da noi, è l'unico libro nostro. Non
che le idee che noi formiamo non possano essere logicamente giuste; ma
non sappiamo se sono vere. Solo l'impressione, per quanto infima possa
sembrare la materia e inafferrabile la traccia, è un criterio di verità;
e solo essa merita perciò d'essere appresa dallo spirito, come la sola
capace, qualora esso sappia estrarne tale verità, di condurlo a una più
grande perfezione e di offrirgli una gioia veramente pura. L'impressione
è per lo scrittore ciò che è l'esperimento per lo scienziato: con questa
differenza tuttavia: che nello scienziato il lavoro dell'intelligenza
precede, nello scrittore segue. Quel che noi abbiamo dovuto decifrare,
chiarire con il nostro sforzo personale, quel che era chiaro prima del
nostro intervento, non è cosa nostra. Proviene da noi soltanto ciò che
noi medesimi traiamo dall'oscurità che è in noi e che gli altri non
conoscono”.
E più avanti, sempre nello stesso testo, per togliere la voglia ai
pressappochisti - che son tutto magia, tutto istinto e coglionesca
spontaneità - d'abbandonarsi a troppo facili voli, tutto: “questo
lavoro dell'artista, volto a cercar di scorgere sotto una certa materia,
sotto una certa esperienza, sotto certe parole, qualcos'altro. È
esattamente inverso a quello che, in ogni istante, allorché viviamo
stornati da noi stessi, l'orgoglio, la passione, l'intelligenza, e anche
l'abitudine, compiono in noi, ammassando sopra le nostre genuine
impressioni, per nascondercele, le nomenclature, gli scopi pratici, cui
diamo erroneamente il nome di Vita. Insomma quest'arte così complessa è
davvero la sola arte viva. Solo essa esprime agli altri e mostra a noi
stessi la nostra propria vita, la vita che non si può “osservare”, le
cui apparenze, che osserviamo debbano venir tradotte e spesso lette a
rovescio, e decifrate con grande fatica. Il loro lavoro compiuto dal
nostro orgoglio, dalla nostra passione, dal nostro spirito imitativo,
dalla nostra intelligenza astratta, dalle nostre abitudini, quel lavoro
l'arte lo distruggerà, ci ricondurrà indietro, ci farà tornare agli
abissi profondi dove quel che è esistito realmente giace ignoto”.
Per gli artisti non si tratta di inventarsi un'altra favoletta utile
alla fuga, nella quale si tende a sostituire all’Io interrogante, un Io
superpersonale di nicciana memoria, che poi, alla fine, si rivelerà
ancora più strumentale del primo, bensì di porsi nella totale
impersonalità, di essere in questa finzione ginnica, costi quel che
costi, fra le affinità e le omogeneità dei pensieri, in rapporto alla
loro genesi e al loro sviluppo.
Nell’attuare tale fine si dovrà sapere che l'impersonalità artistica ha
poco da spartire con quella degli scienziati, i quali ricoprono solo il
ruolo di spettatori-critici, mentre qui si tratta di recitare con il
proprio corpo, superandone l'ingombro.
Questa specie di “colica di tutte le circonvallazioni del cervello” come
la chiamò Musil, quando è finita “non ha più la forma del pensiero in
cui la si compie”, ma la forma che la risonanza esterna, per la quale è
stata resa possibile, le farà prendere in un gioco massacrante di
consolidamenti e dissoluzioni, in cui ciò che si è pensato dovrà
necessariamente modellarsi con ciò che altri hanno pensato.
Il procedimento artistico, quando sa scavare oltre l'intuizione - che
rappresenta solo una porta d'accesso - tende alla più completa
immedesimazione vitalistica, alla depersonalizzazione, per poi
fatalmente scontrarsi con la finzione che fa sopportare questa
immedesimazione stessa.
Ed è così che, spesso, la grandezza o la durata di un'opera
dell'ingegno, finisce con l'essere misurata nei suoi valori residuali,
in quei valori che non possono immediatamente essere determinati
neanche, e soprattutto, dal loro autore, il quale sa più degli altri di
agire nell'instabilità delle trasformazioni, in quell'indeterminatezza
ritmica che trasforma, sempre, il certo nell'incerto, il visibile
nell'invisibile, per rendere l'incerto certo e l'invisibile visibile;
disse Klee: “l'arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile”.
In una continua danza con il reale che abolisce se stesso, l'artista
è colui il quale sa danzare con il giusto ritmo, scardinando con
l'IMPREVISTO le sue ABITUDINI, in una serie di sostituzioni incessanti,
rovesciando in equilibrio mobile l'istinto a costruirsi l'Io, in una
sana perturbazione trainante, come nei versi di Klee:
“Nella tempesta io vedo chiaro // che la vita mi cattura”.
Gli artisti aspettano dietro la propria persona - in quella parte
che proficuamente li fa dubitare di se stessi - che il vento faccia
girare i mulini, per rendere il combattimento, ancestrale agonismo del
loro teatro, più tragicamente eroico agli occhi di Dulcinea o di
qualsiasi Beltà.
Strana situazione quella di dover cercare la dissoluzione non per
perdersi ma per ritrovarsi, ribaltando ancora una volta l'ordine
naturale delle cose, le quali si uniscono per dissolversi, per rendere
possibile la costruzione di una sostanzialità in cui il loro ricordo
sappia cancellarsi, in un insieme di variabili cosmiche sempre estranee
a una diretta osservazione.
Eppure, anche questo sovvertimento latente nel pensiero astrattivo
sembra si nutra della stessa “lontananza visuale”, la stessa che ci
sbarra la strada tutte le volte che vogliamo trovare una relazione
convincente fra la nostra voglia di fragole e un'esplosione nucleare,
fra la convinzione di Don Chisciotte di far diventare la poesia, la
letteratura, il nobile sapere realtà e la realtà, che, in quanto realtà,
procede sistematicamente alla distruzione di se stessa.
Ma insomma, non si tratta in fondo del solito vecchio problema della
traducibilità della somiglianza, con un cogito divenuto fin troppo
imbarazzante?
Messi davanti, finalmente, non al problema dell'esistenza ma della sua
nominabilità, la distanza che nel mondo antico intercorreva fra un
comodo continuum assolutizzato e la contingenza della riconoscibilità,
s'è spostata fra i movimenti discontinui della natura e il potere
dissociativo del pensiero riflessivo.
Ridicolizza, e giustamente, Joyce: “Io credo, o Signore, aiuta la mia
incredibilità // cioè. Aiutami o aiutami a discredere. // L'aiuto a
credere? Egomen. // Ci non crede? L'altro!”. Un “altro” che Don
Chisciotte rigettò in faccia alla realtà, per rovesciare l’allora
nascente discorso dell'empiria, ponendo per primo l'evidenza del
linguaggio in tutta la sua bellezza arbitrariamente verificabile:
dimensione che, da sempre, abita le stanze del sapere artistico.
Ma questo suo permanere con discrezione nel lato più oscuro della
somiglianza non riuscì a venire a noia a uomini ancora troppo gelosi
delle loro prerogative tribali, troppo tenaci nel coltivare la
ripetizione come rito analogico - patto adattivo con l'ABITUDINE - che,
per secoli, permise la trasmissibilità della cultura. Permanenza che è
forse paura di ritrovare l'immagine di se stessi, dove nelle finitudini
ignare danzarono felici gli dei.
Poi venne la scienza e, in un baleno, “l'altro” fu strappato dalle mani
di Hermes - l'imbroglione, il notturno psicopompo accompagnatore d'anime
- e il sorriso del dio finì con il diventare il sorriso di Galileo
Galilei: “Alla poesia sono in maniera necessaria le favole e le
finzioni che senza quelle non può essere; le quali bugie sono poi tanto
abborrite dalla natura che non meno impossibil cosa è di trovarne pur
una che tenebre nella luce.” .
Non male come linguaggio per gettare un guanto di sfida!
La poesia e le favole!
In realtà il loro potere allegorico-concettuale, la loro insufficienza
intensiva a liberare il “discorso”, il quale, sposandosi con la
verificabilità, ritrovò la sua libertà proprio dove a un umanista
sarebbe sembrato mettersi un cappio.
La similitudine, vecchia e cara baldracca di tante avventure eroiche,
d'infinite intuizioni anche scientifiche, non poté più assolvere i suoi
servizi multiuso per l'umanità; come tutte le ex belle donne finì
schiava della vanità, utilizzando seduzione e scompiglio fra la
corruzione delle regge e il bianco livore degli ospedali psichiatrici.
Intorno a lei, discrete ma decise: una lieve IDENTITA' a servizio del
MEDESIMO, delle scanzonate DIFFERENZE al seguito del DUBBIO e una
fascinosa PERFEZIONE sempre pronta a spiccare il volo in un cielo
bachiano.
Ma ritorniamo a Galileo Galilei: “Ma pur fossero i veri filosofi come
le aquile, e non più tosto come le fenici, “infinita è la turba degli
sciocchi”, cioè di quelli che non sanno nulla; assai son quelli che non
sanno nulla di filosofia; pochi son quelli che ne sanno qualche piccola
cosetta; pochissimi quelli che ne sanno qualche particella; uno solo,
Dio, è quello che la sa tutta. Sì che, per dir quel ch’io voglio
inferire, trattando della scienza che per via di dimostrazione e di
discorso umano si può dagli uomini conseguire, io tengo per fermo che
quanto più essa parteciperà di perfezione, tanto minor numero di
conclusioni prometterà di insegnare, tanto minor numero ne dimostrerà,
ed in conseguenza tanto meno alletterà, e tanto minore sarà il numero
de’ suoi seguaci: ma, per l’opposito, la magnificenza de’ titoli, la
grandezza e la numerosità delle promesse, attraendo la natural curiosità
degli uomini, e tenendoli perpetuamente ravvolti in fallacie e chimere,
senza mai far loro gustar l’acutezza d’una sola dimostrazione, onde il
gusto risvegliato abbia a conoscer l’insipidezza de’ suoi cibi consueti,
ne terrà numero infinito occupato; e gran ventura sarà di alcuno che,
scorto da straordinario lume naturale, si saprà torre dai tenebrosi e
confusi labirinti nei quali si sarebbe coll’universale andato sempre
aggirando e tuttavia più avviluppando. Il giudicar dunque dell’opinioni
di alcuno in materia di filosofia dal numero dei seguaci, lo tengo poco
sicuro. Ma ben ch’io stimi piccolissimo poter essere il numero dei
seguaci della miglior filosofia, non però concludo, pel converso, quelle
opinioni e dottrine esser necessariamente perfette, le quali hanno pochi
seguaci: imperocché io intendo molto bene, potersi da alcuno tenere
opinioni tanto erronee, che da tutti gli altri restino abbandonate “.
C'è in queste poche righe galileiane il destino di un'ambigua
battaglia, non ancora conclusa, descritta in perfetto stile derisorio,
alla Calcante in vena di scherzi.
Pochi nomi esemplificativi per delineare il campo d'azione: da una parte
gli esagitati della scienza, i Giuda del fiorentino, Cartesio e Comte
con i loro figli sciocchi, i concettualini del primo e del secondo
novecento, tutte controfigure dei La Fontaine e dei Perrault.
Dall'altra, i decadenti, i malati, i malinconici, i depressi, che
indegnamente e masochisticamente hanno usurpato la gloriosa figura del
Matto dei tarocchi per eccitare un castello divenuto palazzo,
appartamento, galleria d'arte, trattoria, sottoscala, marciapiede....
uomini da marciapiede.
Ecco la schiera del cavalier Marino che sa far stupire di meraviglia
perché “chi non sa far stupir vada alla striglia”, un verso quasi
più orrendo di quello dell'Aleardi scritto due secoli dopo
“malinconia ninfa gentil”.
Inoltre, mille pittori alla Pietro da Cortona, con un Nettuno sempre
nella vasca da bagno a placare tempeste, non tanto per ricchi signori
come i Doria Panphili che non ne hanno bisogno, ma per quelle
scollacciate signorine, eterne modelle, sempre pronte a riciclarsi per
gli Appiani, i Rossetti fino all'arcigno romano in calzamaglia:
Ferruccio Ferrazzi.
Fra nugoli di cipria ecco avanzare galanti mercurietti, Boileau, La
Fontaine, Racine, la cui voce oltre la tomba si farà delirante come
quella di un vampiro che abbia perso le staffe. E poi l'ingombrante
marchese De Sade con i suoi discendenti Celine, Bataille e Artaud,
stupendi casi clinici per l'ambizione della critica novecentesca.
Come dimenticare l'infinita schiera degli intellettuali sempre contro,
votati all'obbligo della provocazione per diritto divino che fecero
paura al ritrosetto Rilke o al cristianetto Papini ma che piacquero
tanto a De Buffet, il selvaggio, con tutti i suoi pataccari - vili
imitatori - in quel di Berlino, la sporca, e in quel di New York, la
danarosa.
Meno male che, dai gelidi mari del nord, Mondrian inseguì questi
scellerati come una cameriera ordinata, percuotendoli con il battipanni
magico di Schönberg, quello che fece
la fortuna delle musiche da thriller.
Di lato, ma più di lato che si può, i Rubens, i De Chirico, i Puccini e
tutti coloro che, sbagliando, si salvarono per essersi trovati nella
parte ascendente della ruota della fortuna, anche se fecero di tutto per
precipitare in quella discendente: bell’insegnamento per quanti non
osano credere alla provvidenza!
In mezzo, disperati per tale incresciosa querelle, altri grandi
trapassati: Bacone, il severo mediatore, Leibniz, il politicante, che
per mancanza di tempo abbandonò l'essenziale sulla sua scrivania, il
monumentale Montaigne, la gallina Cervantes che covò Bulgakov.
In alto, nell'incessante ordine discontinuo di Bach, i Vermeer e i
Velasquez, che nei loro studi presero l'ABITUDINE di farsi vedere di
spalle o dietro grandi quadri, visibilissimi nella loro studiata
invisibilità, accettando il guanto di sfida galileiano.
Questi geniali creatori pensarono una pittura capace di addomesticare,
senza ridicolizzarla, persino Melpomene, semplicemente portandosela in
casa, perché la musica è sempre qualcosa di più vicino alla nostra
intimità di quello che i metafisici vollero farci credere, come
d'altronde la pittura stessa, che, come scrisse Martini, proprio
riferendosi a Vermeer: “per la prima volta nella storia dell'arte
occidentale il soggetto del quadro diviene l'oggetto della visione,
senza compromessi di nessun genere”, e come accadrà anche nelle
Meninas, dove, fra l'altro, si tentò per un altra prima volta di
detronizzare un re, un re simbolo di un “ordine” che poté divenire
assoluto solo se inserito nella visibilità di uno specchio, come dire,
fuori dai denti, solo nella verificabilità dell'esperimento; e, infine,
nelle variazioni sul tema delle Meninas che ne fece Picasso, dove
l'esperimento tentò l'impossibile, quello di astrattizzare l'astratto
per creare una nuova storia che, in qualche modo, riuscisse a scartare
l'uomo come soggetto per far vivere la sua arte come oggetto,
riprendendo la magnifica intuizione di Mallarmé quando pronosticò che il
verso, la frase, ritornasse virtuale: “virtuale, svincolata da una
caduta di piuma o fronda, ormai intesa attraverso la voce, sino a quando
finalmente si articolò sola, vivente nella propria personalità”.
E qui sarà meglio fermarsi, chiedendo scusa agli assenti, ma,
l'esempio ha questo di bello, pur banalizzandosi nell'esplicativo
finisce con l'innalzarsi nella mancanza.
Per ritornare alle battaglie combattute dall'arte, come quando riuscì a
liberarsi dalla ritualità selvaggia ai tempi della nascita della
tragedia greca, o dall'assolutismo metafisico ai tempi di Platone o,
ancora, dall'eccesso di utilitarismo tra i retori romani, quella
rappresentata dal guanto di sfida di Galileo Galilei parrebbe la più
rischiosa perché il pensiero scientifico la sospinge quasi
inesorabilmente in una zona di precipizi, là dove la conoscenza conosce
l'orlo di se stessa, fra una comprensibilità della totalità dei segni,
che presupporrebbe la scelta della schizofrenia come metodo fondante e
il ribaltamento incessante delle prospettive soggettivistiche: in
ultima analisi si tratterebbe sempre dell'abbandono dell'uomo come
persona.
Nelle sue antiche battaglie, l'arte poté contare su una convenzione,
un’ABITUDINE comportamentale, che alla fine l'avrebbe sempre premiata:
l'invisibilità.
Ma da quando Galileo rese visibili molte stelle “del tutto invisibili
a qualsivoglia vista libera”, permise nel “cielo inalterabile et
immutabile” di poter scorgere “in esso delle alterazioni”.
Il fulmine della tempesta di Giorgione si impadronì così non solo dello
scadere dell'importanza del soggetto, come acutamente notò Venturi, ma
di tutta la verde luce del quadro, per un approssimarsi di un tempo
meteorologico in flagrante contrasto con un tempo relativo.
Su queste “alterazioni” fu “l'altro” visibile che l'esperienza diretta
non permise di vedere, ma che fece comprendere la nascita di una nuova
legittimità a riscrivere tutte le teorie che partiranno da quella
esperienza, forti della “cognizione d'un solo effetto acquistata per le
sue cause” si poté aprire “l'intelletto a intendere ad assicurarci
d'altri effetti senza bisogno di ricorrere alle esperienze”.
Come dire, non importavano più i fatti visibili ma le “relazioni
generali”, l'essenza, l'invisibile struttura che ce li rese visibili,
attraverso un linguaggio il più preciso possibile che, in un secondo
tempo, si sarebbe manifestato attraverso un esperimento convincente.
La precisione di questo linguaggio dipese, come ci disse ancora Galileo,
dal “promuovere quelle dubitazioni che ci è paruto che rendano
incerte l'opinioni avute sin qui, e di proporre alcuna considerazione di
nuovo, acciò sia essaminata e considerato se vi sia cosa che possa in
alcun modo arrecar qualche lume ed agevolar la strada al ritrovamento
del vero”.
Il linguaggio diventò quindi in se stesso arbitrario, abbandonando
l'intensività di qualsiasi assoluto a-priori e, anzi, dovette fare i
conti anche con “l'animal vivente” che è in noi, con la determinazione
del soggetto percipiente, nelle sue relazioni con l'oggettività
fisiologica.
Questo Hermes moderno, questo sorridente ladro patentato, parlò male dei
poeti e poi tentò di rubare loro l'ultima maschera, la più preziosa: la
maschera del dubbio.
Scrisse il gaglioffo:
“io dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che
concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella
è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in
relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo,
in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o
non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna
immaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba
essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato
odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali
condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero
scorta, forse il discorso o l’immaginazione per se stessa non
v’arriverebbe già mai.
Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc., per la
parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che
puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sí
che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste
qualità”.....
“Ma che ne’ corpi esterni, per eccitare in noi i sapori, gli odori e i
suoni, si richiegga altro che grandezze, figure, moltitudini e movimenti
tardi o veloci, io non lo credo; e stimo che, tolti via gli orecchi le
lingue e i nasi, restino bene le figure i numeri e i moti, ma non già
gli odori né i sapori né i suoni, li quali fuor dell’animal vivente non
credo che sieno altro che nomi, come a punto altro che nome non è il
solletico e la titillazione, rimosse l’ascelle e la pelle intorno al
naso.
E come a i quattro sensi considerati ànno relazione i quattro elementi,
cosí credo che per la vista, senso sopra tutti gli altri eminentissimo,
abbia relazione la luce, ma con quella proporzione d’eccellenza qual è
tra ‘l finito e l’infinito, tra ‘l temporaneo e l’instantaneo, tra ‘l
quanto e l’indivisibile, tra la luce e le tenebre. Di questa sensazione
e delle cose attenenti a lei io non pretendo d’intenderne se non
pochissimo, e quel pochissimo per ispigarlo, o per dir meglio per
adombrarlo in carte, non mi basterebbe molto tempo, e però lo pongo in
silenzio”. (G. Galilei, Il Saggiatore, Einaudi, Torino, 1977,
pagg. 223-228).
In quel “sieno levate ed annichilite tutte queste qualità”, Galilei
spinse la sua intuizione fino a quel sapere, che non poteva ancora
“vedere”, ma che in qualche modo sarebbe stato il presupposto
dall'impostazione del suo metodo che si sarebbe posto oltre la
rappresentazione. In quella finitudine, chiamata da sempre mito.
E' curioso come, nel descrivere l'episteme culturale della psicanalisi,
Michel Foucault abbia utilizzato, senza citarne la fonte, i medesimi
argomenti galileiani, riportando, fra l'altro, l'intero discorso in un
ambito che potremmo definire linguistico-etnologico:
“la psicanalisi avanza per scavalcare la rappresentazione, per
superarla dal lato della finitudine e far sorgere in tal modo, là dove
venivano attese le funzioni portatrici delle loro norme, i conflitti
colmi di regole e di significanti costituenti un sistema, il fatto puro
e semplice che possa esservi un sistema (e quindi un significato),
regola (e quindi opposizione), norma (e quindi funzione).
E in tale regione, in cui la rappresentazione resta in sospeso sul
limitare di se stessa, aperta in qualche modo sulla chiusura della
finitudine, prendono forma le tre figure attraverso cui la vita, con le
sue funzioni e le sue norme, viene a fondarsi nella ripetizione muta
della Morte, i conflitti e le regole nell'apertura denudata del
Desiderio, i significati e i sistemi in un linguaggio che è a un tempo
Legge.
Sappiamo come psicologi e filosofi hanno chiamato tutto ciò: mitologia
freudiana. Era ben necessario che questo procedere di Freud apparisse
loro tale; per un sapere che si pone entro il rappresentabile, ciò che
orla e definisce, verso l'esterno, la possibilità stessa della
rappresentazione, non può che essere mitologia.
Ma quando seguiamo, nel suo procedere, il movimento della psicanalisi, o
quando percorriamo lo spazio epistemologico nel suo insieme, scorgiamo
queste figure, probabilmente immaginarie per uno sguardo miope, sono le
forme stesse della finitudine, quale è stata analizzata nel pensiero
moderno: la morte, non è forse ciò a partire da cui il sapere in
generale è possibile, al punto che, sul versante della psicanalisi,
potrebbe costruire la figura di quella “duplicazione”
empirico-trascendentale che caratterizza nella finitudine il modo
d'essere dell'uomo? E quella Legge-Linguaggio (a un tempo parola e
sistema della parola) che la psicanalisi si sforza di far parlare, non è
forse ciò in cui ogni significato acquista un “origine” più remota di se
medesimo, ma anche ciò il cui ritorno è promesso nell'atto stesso
dell'analisi?
E' altrettanto vero che né questa Morte, né questo Desiderio, né questa
Legge non possono mai incontrarsi all'interno del sapere che percorre
nella sua positività il campo empirico dell'uomo; questo si spiega in
quanto essi designano le condizioni di possibilità di ogni sapere
sull'uomo”.
E qui, finalmente, il guanto di sfida galileiano potrebbe essere
raccolto dal Sapere Artistico con qualche possibilità di vittoria; non
contro la scienza, figlia scapestrata del disastroso divorzio fra
Sapienza (natura, temperanza, costanza, equilibrio, ascolto) ed Estetica
(finzione, dubbio, paura, abitudine, desiderio, sensualità, nutrimento,
adattamento, tradizione, empatia, comunicazione), ma contro quel Genio,
un po' malefico, un po' maggiordomo che l'Aladino Mallarmé, volle
liberare dalla vecchia lampada illuminista diventata obsoleta prima del
tempo: il capriccioso, dispotico, finto pieno, vuotissimo Linguaggio.
Ma perché finto pieno, vuotissimo linguaggio? Perché si riempie
d'invarianze supposte, proprio dove la varianza dei suoi “presupposti”
lo spinge a svuotarsi.
L'antica ABITUDINE animale di abitare una tana sicura, con tecniche
trasmissibili ai discendenti per difendere una qualche invarianza che ci
sta a cuore (individualismo, solidarietà tribale, poteri acquisiti,
civiltà etc.), ci fa “idolatrare” il linguaggio come pratica
conservativa della “ripetizione” di queste invarianti
Così ci si avvinghia a questa pura follia, a questo finto presupposto
impossibile, dato che non si è mai vista una ripetizione che non sia una
variazione, e ci si costruisce addosso una prigione che impedisce di
godere della splendida libertà della metamorfosi.
Si rinuncia a volare come farfalle, conservando e armonizzando
l'originale natura di bruchi, e ci si affida alle mute finitudini, in un
cielo nero, in una notte nera, dove un'impossibile visibilità verrà
delegata all'ambiguo potere degli angeli e dei demoni, dei consolatori e
dei perturbatori, delle “idee sistematiche” e della follia.
Se la tana sarà profanata dal nemico, se gli idoli cadranno, se la più
perfetta scienza si dissolve in una risata, dove sfogare la voglia di
paura, il vergognoso masochismo sacrificale, se non trasformando
l'eterna mutazione in eterna invarianza, ponendo, in questa inesistente
polarità, il corpo ambiguo del messaggio, della traduzione?
L'angelo-linguaggio impedisce di sentire il “concepimento”, la
finitudine, la morte.
Cantò Yves Bonnefoy:
“Il faut à la parole meme une matière, //un incerte rivage au delà de
tout chant.// Il te faudra franchir la mort pour que tu vives, // la
plus pure présence est un sang répandu”. (Occorre alla parola stessa
una materia //inerte sponda di là d'ogni canto. // Dovrai per vivere
varcare la morte, //la più pura presenza è un sangue versato.”) (Y.
Bonnefoy; Movimento e Immobilità di Douve; Einaudi; 1969; trd. S.
Agosti).
Eppure, dal momento stesso che si pensa, non si concepisce qualcosa che
sarebbe esistito senza di noi, come affermava molto metafisicamente uno
dei più grandi logici del novecento, F. L. Frege, ma con lo stesso
pensiero, cioè con una rilevante esistenza, si partecipa a modificare, a
creare l'esistente.
Se esistesse infatti un mago capace di far sparire un moscerino, questo
stesso mago avrebbe il potere di far cascare l'universo.
Tale partecipazione, potrà avere l'aspetto torrentizio del genio o
assomigliare a un’immagine stagnante, che si oppone al divenire come per
chi le oppone una diga protettiva, ma in tutti i casi avrà la sua
funzione, e non è detto che la “resistenza”, in termini generali di
“forza”, non sia meno utile dell'energia che occorre per debellarla.
Inoltre a chi cerca nel proprio stagno riparo dalle tempeste, dalle
cascate, dalle inondazioni tumultuose, può capitare, come affermò Blake,
di far crescere quei rettili del pensiero che lo sbraneranno prima del
tempo: “se le porte della percezione fossero purificate ogni cosa
apparirebbe all'uomo com'è, infinita. Poiché l'uomo ha totalmente
rinchiuso se stesso da veder tutto soltanto attraverso le strette
fenditure della sua caverna”...”l'uomo che non muta la propria
opinione è come l'acqua stagnante, e nutre i rettili del pensiero”.
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