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IL FINGITOR CORTESE

Sapere come finzione

Giudizi e Considerazioni sul "Fingitor Cortese"
1)
Gentile dottor Granetto, la ringrazio per avermi inviato il suo pamphlet, che ho apprezzato per la sottile ironia, i colti riferimenti, i collegamenti con alcune recenti teorie della psicologia evoluzionistica (relativamente agli ingannatori free-riders) e gli accenni alla terapia cognitivo-comportamentale (che è il mio orientamento psicoterapeutico).
Lei ha ragione per quanto riguarda le capacità di ragionamento: sono un’arma a doppio taglio, possono essere molto utili ma anche creare grossi danni.
Come forse saprà, io sono specializzato nel disturbo ossessivo-compulsivo e in questa condizione il ragionamento è uno dei fattori di mantenimento del quadro patologico, anche perché la macchina computazionale del sillogismo viene utilizzata male giungendo a conclusioni formalmente corrette ma non vere.
Mi permetto di allegarle, in un accesso narcisistico, un mio articolo che tratta proprio di questo; forse le potrà interessare.
La ringrazio. Cordiali saluti e buon lavoro
Davide Dettore, Professore di Psicologia Clinica all'Università di Firenze
2)
 Gentile Luigi, ho trovato il suo testo raffinato, affascinante e sagace.
Un cordiale saluto, Sara Uboldi, archeologa e Dottore di ricerca in Scienze Umanistiche. Università di Modena e Reggio Emilia
3) Mi sembra interessante questa visione dall’alto delle cose, che parla di entropia, di capacità cranica, ecc. Coraggioso cimentarsi con questi argomenti così vasti, in un modo che rende gradevole la lettura. Come tutti i testi ibridi, che stanno a metà tra il saggio e il racconto, anche il "Fingitor Cortese" non è facile  da afferrare. La scansione dei capitoli: finzione dubbio luogo memoria paura abitudine, mi sembra buona. Il testo forse ha un po' troppe citazioni.
Forse sarebbe meglio raccontare quello che le citazioni evocano.. Molto divertente  il capitolo sulla memoria e la parte sul lottare per il fiasco dove viene amalgamata cultura scientifica e sapere mitologico. Importante soffermarsi dettagliatamente sulle vicende degli dei, che l'autore conosce molto bene e vedere quanto queste vicende siano vere.
Adrian Bravi scrittore argentino, vincitore della prima edizione del premio Testo in cerca di regista, associato ai Premi David di Donatello, 2014. e del premio Bergamo con  "L'albero e la vacca" edito da Feltrinelli
4)  Mi piace, il suo modo di mettere in difficoltà chi legge. Argomentare attraverso continui passaggi che vanno dalla epistemologia, alla filosofia, fino alla psicologia mettono una certa soggezione, ci ha pensato alla qualità dei lettori? Sembra un percorso perverso per spingere all'autoanalitico e all' autocritica. Non mi sono mai imbattuto in pensieri introspettivi partendo da una sorta di "elogio dell'imperfezione" in chiave psicologica. Giuliano Savi docente Sociologia del Diritto nella Comunicazione.
5)
L'inizio  faticoso, molta carne al fuoco, tipico desiderio di spiegare, cumulo di citazioni, insomma intenso, troppo intenso.  Superate venti, trenta righe, il concetto si distende, s'incanala sulla via dell'analisi accattivante, diventa adorabilmente chiaro e "catturoso"!
 Dunque affascinante, anche a livello di scrittura.
 
Adriana Mulassano giornalista, scrittrice italiana e storica "penna" del Corriere della Sera e docente di giornalismo di moda presso il corso triennale di Fashion Communication all'Istituto Europeo del Design
6)  Molto bello il tuo "Fingitor Cortese! Mandami altri tuoi scritti. 
Andrea Molesini  scrittore, poeta, traduttore italiano, vincitore del premio Supercampiello del 2011
7) Un curioso saggio, un tema sempre misterioso e imprendibile, il doppio, la rappresentazione, il racconto, povera umanità bisognosa di ricreare, un italiano che mi piace molto, così giocato, a colpi di piccole sintesi luminose, bravo!
 
Andrea Barzini, scrittore e regista.
8)Testo affatto ostico, anzi... se mai troppo “semplice”, ma si sa che queste cose imbarazzano i ben-pensanti delle variabili umanità.  
Elio Grasso Critico e poeta tra i più notevoli in Italia, poeta, critico e traduttore (W. Shakespeare, T.S. Eliot, Wallace Stevens, C. Corman, tra gli altri)
9)  Mi ha dato molti spunti di pensiero. Sono esterrefatta per una coincidenza di interesse verso il vivere in una o molte parti di una recita. Scusa la stringatezza.
 Paola Libera fotografa e studiosa di architettura figlia di
Adalberto Libera
10)
Il Fingitor Cortese è deliberatamente una paradossale provocazione che suggerisce un approccio disincantato al “sapere” e ai suoi derivati.  Chi lo leggerà comunque si divertirà, ammirando l’autore, le sue letture e il suo disincanto.  
Cesare De Michelis, Editore,  docente di Letteratura Italiana moderna e contemporanea presso l'Università di Padova
11) Ho digerito il primo capitolo del Fingitor Cortese e mi sono pure divertito.
 Manda pure gli altri capitoli, anche se non so bene quando li leggerò.
 Ho una montagna di arretrati da leggere che non cala mai, oltre a una mole (più importante in quanto remunerata) di roba che devo leggere per lavoro!  Bravo, comunque. Grazie e a presto.
 
Alberto Bracci Testasecca scrittore, traduttore e curatore di una mostra su Leonardo Da Vinci a New Delhi e Bombay. Fra i suoi romanzi più noti: "Ottantatré" e" il Treno"  per la edizioni e/o e "Volevo essere Moccia"  per le Edizioni La Lepre.
12)
Enrico Nascimbeni; "Lo storico dell'arte e filosofo Luigi Granetto..se tutto va bene...sara' tra gli autori della collana Le due anime che curo per Rupe Mutevole Edizioni". MIA RISPOSTA: Larga è la spirale del pensiero, tutto comprende tutto contiene. Strani i tempi dove gli artisti devono provare a fare i filosofi loro malgrado. Grazie Enrico per la tua generosità.( Dialogo su Facebook con Enrico Nascimbeni, scrittore e cantante)
13) La Paura della paura  mi sta accanto ma la multiforme Mnemosine esorcizza ogni oscuro avvenimento.  E "Il tempo grande scultore" fa sì che tutto si integri e tutto si trasformi.
Poi c'è l'Abitudine, là dove il mito prende forma.  Morte, Desiderio e Legge, le tre figure in "un'unica configurazione" nella Vita stessa dell'uomo e nel mito dell'eterno ritorno.
 Così, caro Gigi, non ho avuto bisogno di coraggio per leggere il tuo "Fingitor Cortese" ma solo piacere e divertimento......a volte cercando di "districarmi" fra citazioni di autori più o meno noti. Paola Scandolara pittrice e insegnante di
Hatha Yoga
14)
 Il "Fingitor Cortese è una brillante discettazione sul dramma della dualità e, soprattutto, sui rischi che si addensano sopra/sotto i cervelli di chi persevera di-battendovisi (come accenna qui sotto il Professor Dettore). Sono ansioso di leggere altri tuoi scritti per scoprire se per te il dubbio è solo il sale di questa orribile pietanza o lo stimolo coevo della sua stessa doppia natura che ci consente di mangiarla. Sta minestra.  Luca Fabbri autore di Logos e pathos edito da Youcanprint
15) Allora caro Luigi, ecco ad un primo sguardo: non posso che risponderti a modo mio:
 1) Leggo poco di letteratura contemporanea in senso narrativo e poetico ... dunque manco dei riferimenti che mi servirebbero per "collocarti"
 2) Le "cose" che dici sono interessanti e rapidamente esposte (non c'è affanno nelle singola frase semmai nella catena di frasi).
 E tuttavia dopo poco ci si accorge che, per quanto tu sia così ironico nel dire, vuoi essere preso sul serio, esigi concentrazione e scrivi per questo
 3) Io ho gradi sempre più bassi di concentrazione e quindi mi stanco presto
 4) Evidentemente sono un moralista, e della scrittura amo lo scopo: una dichiarazione di necessità irrimandabile
 5) Questa necessità  mi priva della capacità di entrare nel "merito"; insomma sono incompetente...
 6) Parlando più serenamente - senza paura di me stesso - direi che dovresti lavorare di scalpello e lima sul testo ... e ce la puoi fare perché, al contrario di me, non mi pare che il peso della cultura ti affatichi e preferisci smarrirti piuttosto che smarrirla 
 
Alberto Abruzzese, sociologo e scrittore e ex preside della facoltà di scienze della comunicazione dell'università “La Sapienza” di Roma.
16) Caro Luigi,si intuisce che il tema del tuo "Fingitor Cortese" è interessante. Ma ogni volta che mi è parso di afferrarne il bandolo, questo mi sfuggiva tra molti grovigli, come nei sogni. Una cosa posso dirti. Appena ho iniziato a leggerti mi è tornato in mente il meraviglioso film Mr Nobody (2009). Se non lo hai visto, non puoi astenerti.  Un caro saluto.  
Andrea Garbarino, scrittore e giornalista

  LA FINZIONE (Primo Capitolo)


"Humanum genus est avidum nimis auricularum" (Lucrezio)
“Il genere umano è troppo avido di frottole”
"Mundus universus exercet histrioniam"
(Petronio)
Il mondo intero recita la commedia”

"Non puoi non voler rinunciare alla menzogna e non puoi dire la verità"(L. Wittgenstein)

Prima dell'idea, un po' complicata ma sicuramente vincente sul piano competitivo, che Abramo lasciando l'Ur aveva di Dio, prima che Cartesio s'accontentasse d'essere vivo per la risibile convinzione di pensare e dubitare, prima che Bertoldo, scarpe grosse e cervello fino, la pensasse come Cartesio, senza la mancanza di stile di doverlo anche dire, prima che il barone di Münchhausen beneficiasse salvificamente dei frutti della logica formale per tirarsi fuori dalla palude con l'afferrarsi alla propria treccia, prima che Thot inventasse la sciagurata parola, reputata da Platone un succedaneo della memoria che induce negli uomini l'oblio, prima dell'autocoscienza che procurò la tazza di cicuta a Socrate e un ego pornomane al Dottor Freud, prima dei principi causali e casuali, con i quali si potrebbe ridicolizzare questo tassonomico incipit, prima di tutto questo: nacque la finzione.
Il tutto, la sostanza, il coagulato si differenziò passando da uno stato di ordinato equilibrio a uno stato entropico che permise la connessione fra gli elementi della materia attraverso la somiglianza della sua natura originaria, delle sue regole e delle sue possibilità.
Più aumentava l'entropia più i fenomeni diventavano non solo disordinati ma quel che è peggio anche irreversibili. Probabilmente il tutto, la sostanza, il coagulato, preso dalla nostalgia del suo antico equilibrio, cercò di collassare su se stesso, ma ormai il danno dell'irreversibilità aveva creato il tempo che rendeva impossibile ripetere qualsiasi fenomeno che non accettasse la spietata legge della variazione.
Il tempo fu il primo responsabile del fenomeno della finzione che sostituì, in qualche modo, la tendenza alla ripetizione senza mutamenti.
Da quel giorno non ci sarebbe stato più l'equilibrio ma un quasi equilibrio e persino il moto costante sarebbe stato sostituito da un moto relativamente costante: in una parola la realtà aveva imparato a fingere.
Fingi oggi, fingi domani, capitò che la realtà, fingendosi diversa da sé, percepì l'esperienza del nulla e rese necessaria l'astrazione come concretezza che si manifesta.
Utilizzò per questa sua nuova sceneggiata una sua piccola parte, il sistema neurologico di un primate, discendente, pare, dai plesiadapis . Il sistema neurologico in questione apparteneva a quel  truffatore, chiamato in seguito Homo habilis, che a forza di fingere suoni della natura, gesti e versi di altri animali col nobile fine di mangiare prima d'essere mangiato, finì con il convincersi dell'utilità di questa sua predisposizione all'ingordigia.
Pur non conoscendo l’ “a priori” di Kant, si diede da fare per sviluppare questa attitudine con i suoi compagni. Questi commedianti scoprirono ben presto che la finzione li portava a essere ogni giorno un animale o una cosa differente, fino a che, un bel dì, forse per scherzo, finsero anche la differenza.
Una leggenda, molto strimpellata, racconta che si riunirono in un luogo adatto per addestrarsi nelle più spericolate e ciarlatanesche finzioni, ricoprendo alternativamente il ruolo di attori e di spettatori, per farsi l'immagine della differenza.
A poco a poco quest'immagine diventò così credibile che finì con il condizionare addirittura il funzionamento del loro cervello, rendendo plausibile l'attività astratta come reale.Anche se l'avrebbero scoperto molto più tardi, avveniva in loro quel fenomeno naturale d'adattamento all'ambiente che fa sì che i pesci siano dotati di branchie e gli uccelli di ali, con in più la simpatica facoltà di potersene vantare.
Man mano che la loro capacità cranica aumentava, ebbero sempre meno bisogno di utilizzare gli altri organi, fiutarono di meno, corsero di meno, urlarono di meno ma pensarono molto, molto di più.
Fu così che la concatenazione verticale di finzioni sempre più astratte diede loro l'impressione, esaltante e penosa, d'allontanarsi da un’origine che da quel momento i più creduloni avrebbero considerato con nostalgia o, in qualche raro caso, con disprezzo.
A posteriori si era in loro manifestata la memoria, e con essa quel sofisticato meccanismo che trasforma l'abitudine a lottare per la bistecca nella predisposizione a litigare per delle finzioni astratte.
I litigi continui per motivi così futili finirono col procurar loro un'improvvisa e incomprensibile insicurezza, una sensazione nuova, simile a quella che prova un elefante che abbia la disavventura d'incagliarsi con le sue formidabili zanne in un passaggio troppo stretto; sentirono l'impaccio di quell'organo che era sembrato così utile; ne percepirono l'esistenza. Le funzioni differenziali del sistema neurologico, a loro insaputa, avevano elaborato un meccanismo di autoregolamentazione del sistema stesso, facendo emergere informazioni di tipo dubitativo capaci di inibire i disturbi psicotici generati dall'eccesso di finzioni allucinatorie.
Probabilmente, quella nostalgia del luogo certo, contrapposta ai continui tentativi, con relativi catastrofici errori, per ritornarci, aveva provocato nella loro mente i primi disordini ideativi; la mente, affannosamente, si sfinì per trovare qualche immagine di riferimento che non avesse quell'aspetto angoscioso dell'ennesima finzione.
Compito non facile per chi aveva affidato all'imbroglio il proprio sistema di sopravvivenza.
Come scrisse qualche anno più tardi il loro discendente René Char: "L'Homme est capable de faire ce qu'il est incapable d'imaginer. La tete sillone la galassie de l'absurde". L'uomo è in grado di fare ciò che non è in grado d'immaginare. La sua testa solca la galassia dell'assurdo. (R. Char)
Con il dubbio, la finzione di esistere, come entità indipendente dal tutto coagulato, generò l'immagine polisensa di se stessa. La quale, a sua volta, cercò, con alterna fortuna, di selezionare le finzioni concatenabili dubitativamente per somiglianza e differenza, secondo un sistema ritenuto congruo, ordinato, capace di connettere a sé immagini ritenute incongrue.
Per far questo la mente di quegli animali fu costretta un'altra volta a fingere. Finse d'abbandonare il luogo che la rese possibile per spostarsi in un punto d'osservazione periferico, dal quale si poté far coincidere la visione con il sistema congruo prescelto.
Scelse così la possibilità di osservarsi solo attraverso un’immagine riflessa, che restituiva la sua stessa immagine deformata attraverso le regole di quel sistema. Aveva scelto un imbroglio tanto vero che le permetteva una sincerità menzognera.
Quegli animali si abituarono così a vivere al cospetto della propria immagine deformata, trascinando con sé la natura che li aveva partoriti, trasformandola in una fantastica, mutevole allegoria.
Deformazione difficile da decodificare, ma ripiena di messaggi, che alcuni sapienti come Borges ritennero intuibili da chi sappia assaporare l'immediatezza del vivere oltre la maschera della verità: "...miro este querido // mundo que se deforma y que se apaga // con una palida ceniza vaga // que se parece el sueno y al olvido".
(...guardo questo caro // mondo che si deforma e che si spegne // in una pallida e vaga cenere // che assomiglia al sonno e all'oblio). (J. L. Borges)
Tutto questo molto prima del barone di Münchhausen: l'uomo era riuscito a tirarsi fuori dalla palude della schizofrenia con l'afferrarsi a se stesso, pagando però un prezzo che noi sappiamo non ancora saldato. Un prezzo che rende equivoca la convinzione evoluzionista della nostra superiorità rispetto alle altre mute specie. Equivoco difficile da dipanare anche leggendo Konrad Lorenz, che chiamò quell'evento paradigmatico "la folgorazione dell'autoriflessione": curiosa immagine poetica per convincerci del bizzarro comportamento interattivo dei genomi fra le doppie eliche dell'acido desossiribonucleico e i pensieri dell'uomo.
Sull’epistolario, ricolmo d'informazioni e piccole truffe, fra quest'acido e le menti più speculative della specie non si sa molto, ma la sua esistenza procura una paura simile a quella percepita dal loro antenato quando sperimentò le conseguenze della sua predisposizione a mascherarsi, quando, per vivere, gli fu necessario dubitare. Terribile deve essere stata per lui l'esperienza del dubbio, suscitata dalla differenza fra i suoi  comportamenti impliciti e le immagini distorte che aveva di essi, senza l'ausilio delle certezze di Cartesio e delle consolazioni poetiche dell'Achmàtova: "Sei tu, Psiche-Confusionaria, che in aria agiti bianco-nero ventaglio". (A. Achmàtova
Ancora più arduo deve essere stato per lui orientarsi in un sistema mentale interattivo fra quello che era sicuro fosse concreto e ciò che, pur non sapendolo, era decisamente astratto.
Quel poveretto non poteva certo sapere che i suoi discendenti avrebbero continuato per molto tempo a contrapporre concretezza e astrazione come se non fossero due sinonimi di finzione.
Qualsiasi pensiero astratto modifica il funzionamento e, in parte, la struttura del cervello in una maniera molto simile a quella dipendente da eventi considerati concreti come le stimolazioni ambientali o le psicoterapie attuate con farmaci o con la sola parola.
Da quando l’efficacia clinica della terapia cognitivo-comportamentale, nel curare gravi malattie mentali, risulta essere valida quanto la farmacoterapia, si sono generate, oltre alle solite liti, anche nuove interpretazioni della realtà.
Anche il più sprovveduto psicanalista - abituato a guarire lievi nevrosi trattandole come instabili incongruità alle quali dare una qualche idea di riferimento più stabile - comincia a guardare con sospetto la stessa idea di congruità, ne percepisce la deformità strutturale: peccato originale di non semplice decodificazione.
Il bisogno di congruità si manifesta come inibitore di quella parte del cervello nella quale si esplica la funzione di emulazione), prima della realtà, con
la quale interagisce, e poi con se stesso quando cerca di rappresentarsi nella coscienza.
Questo fenomeno di parziale inibizione di alcune facoltà del cervello consente all'uomo di credersi autocosciente. Si crea in tal modo la sensazione di accordare all'unisono i diversi messaggi ricevuti dal cervello.
Questa ennesima finzione è responsabile anche dell'auto riflessività, che permette di avere un qualche controllo sui messaggi ricevuti e, quel che è più importante, di averne una convenienza!
Per molti anni si è cercato di modificare e gestire, attraverso la riflessione consapevole, i contenuti mentali espliciti, incongrui e disfunzionali, senza indagare troppo sulla natura neurologica della coscienza, la quale, colpita nel suo naturale orgoglio, si prende qualche inevitabile rivincita.Quando il cervello interagisce con stimoli e messaggi (chimici e sensoriali) rimossi dalla coscienza, fornisce, attraverso la trasmissione sinaptica, una traccia mnemonica, con informazioni che potrebbero essere attivate - implicitamente o anche esplicitamente - come accade nella  sensibilità percepita in un arto amputato.
A complicare la vita del cervello, ci si mette anche l'entropia, che spinge gli stimoli sensoriali a manifestare un'incessante predilezione per ogni tipo di variazione finalizzata a potenziali d'azione e a
trasformazioni funzionali più o meno permanenti.
Queste variazioni daranno origine a specifiche forme di memoria, che verranno a loro volta immagazzinate in maniera differenziata formando quei  correlati neurali dell'apprendimento responsabili della complessità del pensiero umano.
E' curioso sapere che quasi tutte le idee e i comportamenti umani non sono altro che variazioni della finzione o emulazione biologica.
Il carattere di assuefazione negli schiavi e la grande pazienza dei saggi non dipende solo da una risposta difensiva, ma anche da condizionamenti, senza apparenti motivazioni, abbinati dal cervello a stimoli reputati pericolosi, utili o neutri.
Lo stesso concetto di oblio, caro a molti poeti nichilisti, non è solo la conseguenza di una rimozione psicologica ma è generato dal contrasto esistente fra memoria a breve e a lungo termine, fra inibizione di messaggi impliciti e trasformazione degli stessi in finzioni ritenute esplicite.
Il più astratto e squisito gusto estetico condivide con la crapula d'osteria una variazione dello stimolo del disgusto: sia questo alimentare, olfattivo, uditivo, ambientale o fisiologico.
Nell'incessante scambio fra finzioni astratte che divengono concrete e fenomeni fisico-chimici che si smaterializzano, il vero capolavoro del cervello rimane l'attitudine a trasformare il dolore in sofferenza e la sofferenza in uno stupefacente continuum  che va dalla più tragica disperazione alla più imprevista felicità.
Si tratta qui di una predisposizione al teatro particolarmente fantasiosa, arricchita da rappresentazioni.
Secondo questa prospettiva, i più antichi dolori legati alla nutrizione (sazietà), alla difesa (accoglimento fra i membri della propria specie) e alla rivalità, trasformandosi,  sublimizzandosi, inventandosi, ci hanno dato modo di recitare la parte degli esteti incalliti, dei perfetti cittadini sempre alla ricerca di amore fraterno, dei leali eroi olimpici degni della più ammirabile gloria.
Se ogni tanto ci capita di notare qua o là qualche attitudine arcaica rimasta in vita come l'invidia, non possiamo esimerci dal rallegrarci che questo deprecabile vizio si possa velocemente trasformare anche in gratitudine, come, d'altronde, se ci capita d'incontrare un qualche nostro simile segnato dal complesso d'inferiorità, sapremmo gioire con lui per l’opportunità a lui data di competere, proprio grazie a questo, con maggior forza!
Purtroppo, qualche inconveniente ci doveva pur essere in un sistema aperto capace di simulare il fenomeno dell'autocoscienza in modo così convincente tanto da lasciare la sua traccia anche nei freddi e tanto misteriosi genomi.
D'altronde, se concezioni antropomorfe ritenute congrue in una certa epoca e non ancora del
tutto esaurite, fanno si che nella civilissima Torino gli abitanti non si meraviglino di prendere una tazza di cioccolato con il diavolo, cosa succederà ai nostri discendenti quando l'immagine della materia sarà più simile a una formula matematica che a un vulcano in eruzione?
Per dirla con Konrad Lorenz
, cosa stiamo combinando con i nostri genomi, cosa faremo loro trasmettere ai nostri discendenti?
Nella difficoltà di tentare una qualche risposta a questi interrogativi, ci rendiamo conto che l'idea di civiltà potrebbe ancora possedere qualche potere connotativo di sintesi dell'avventura umana.
A essa si potrà forse affidare quel sincronismo analogico che rende la finzione di una voce animale così simile alla finzione di un laboratorio di astrofisica.
In mezzo a questi due eventi Mnemosine, madre delle muse, dorme il suo sonno millenario.
Civiltà intesa non come addomesticamento dei popoli, ma come substrato culturale nel quale il mutamento non sia stato rallentato. In essa è probabile scorgere la  sopravvivenza di costanti che permettano il verificarsi di eccezioni, di accessibili imprevisti, di fertili incertezze, di conflitti fortificanti, di complessità imperfette, di disuguaglianza creatrice, d'intrecci di contraddizioni, di imperfezioni che celino straordinari scopi.
Certo, per poter "isolare" tali principi attivi dal
conformismo che rende le civiltà perpetuabili nelle loro variazioni, bisogna sapere immergersi nelle sue idee più decadenti, in quelle stesse idee che sono riuscite a diventare quasi luoghi comuni in seguito alle lotte intraprese dai pochi contro i molti: come per Montaigne messo all'indice dal Vaticano, o come altri fatti giusto un filo ingombranti, quali, per esempio, il rogo di Bruno o il processo a Galilei.
La decadenza genera l'illusione della costanza e della continuazione di un valore, genera l'errore come presupposto della variazione.
All’interno dei valori espressi dalle grandi civiltà, le consonanze generano conseguenze dilatabili in tempi diversi: la risonanza della memoria, quasi la sua eternità.
Ci rendiamo conto che per i maniaci del nuovo-a-tutti-i-costi questa rivalutazione della decadenza possa apparire come una minaccia alle esigenze di un consumo-motore-dell'economia, ma, spesso, l'accumulo di obsolete finte novità impedisce la variazione di novità più sostanziose.
Dallo spirito della tragedia, che non elude il conflitto fra immediatezza e futuro, si fa presto a passare alla farsa di una storia che simula la sua ripetizione per nascondere i problemi di assimilazione e reale cambiamento: da una parte la poesia dell'errore che genera mutamento, dall'altra la pantomima dell'accumulo dei rifiuti come simbolo di una impossibile autodistruzione della “vera modernità”.
 

IL DUBBIO (Secondo Capitolo)

“When the mind swings by a grass blade
an ant’s forefoot shall save you”.
The clover leaf smells and tastes as its flower”
(Ezra Pound)

“Quando la mente oscillerà presso un filo d'erba
la zampina di una formica ti salverà
la foglia del trifoglio odora e sa del suo fiore”


Dalla teatralica e saltimbanchesca rappresentazione di un'inedita genesi, messa in scena fra verosimiglianza e plausibilità nel precedente capitolo, la nostra compagnia dell'arte potrà rubare qualche maschera così da sortire negli spettatori quell'effetto di meraviglia e d'inspiegabile timore tanto caro ai religiosi e a noi, gente di palcoscenico.
Abbiamo visto come la nobile arte del recitare c'impedisca di opporre concretezza ad astrazione, per rendere possibile l'entrata in scena del plesiadapis mutante, con tutte le sue straordinarie canagliate e con tutte le sue filogenetiche conseguenze.
Abbiamo anche visto come questo Furbone non possa svolgere la parte del capocomico, perché, essendosi perso il copione, procede per maldestri tentativi spesso improponibili anche sulle tavole di un palcoscenico, specialmente quando ce li vuol far passare come gli errori inconfutabili dell'umanità.
Pur essendo certi della capacità del Tracotante di scrivere altri copioni dall'aspetto formale ancor più allettante di quello perduto, siamo convinti che la trama originale non sia del tutto farina del suo sacco.
Abbiamo infatti buone ragioni per credere che quella trama fu imbastita, come Monod ci suggerisce dal proscenio, giocando al caso e alla necessità, quel gioco così simile alla "mosca cieca" nel quale le azioni del non vedente condizionano quelle dei vedenti, fino a che la necessità di pervenire a un contatto ne provoca il caso o viceversa.
A noi interessa poco che questo problema crei qualche scompiglio fra i post-kantiani, idealisti per abitudine ed epistemologi per necessità, a noi interessa il suo confuso effetto di mischiamento del tono tragico con quello dell'avanspettacolo.
Per far pagare un biglietto bisogna, sottrarre lo spettatore al sonno televisivo, proponendogli quello strano spasimo che va sotto il nome di ammutolimento: la finzione di un mistero o la contrazione del riso; la finzione di quello che sanno tutti ma che vogliono sentir dire dagli altri.
Se la finzione non è altro che una conseguenza genetica di una determinata selezione naturale, per munire l'encefalo di quelle informazioni utili per fornirci delle immagini differenziate, e quindi ordinabili, che ci aiutino ad adattarci all'ambiente, come potremmo trasmettere al nostro pubblico quel tremor, quello stupore, quel thambos tragico, quando volessimo recitar Leopardi "Oh natura, oh natura perché di tanto inganni i figli tuoi.." senza impedire al nostro allenato diaframma di rattrappirsi in una risata?
La faccenda della natura che ci fornisce i mezzi per la sopravvivenza, ottenendone una così strampalata risposta, ci ricorda la tonante voce di Giuseppe Toffanin, quando, al wagon-restaurant, rimandava indietro il piatto degli antipasti, sbraitando: “questa è una truffa, una fame autentica non ha bisogno d'essere stimolata”.
La finzione è l'antipasto che permetterà al pensiero di nutrirsi dei più raffinati e selezionati piatti, anche se, fra un'astrazione e l'altra, ci sarà sempre chi, credendosi - e non a torto - truffato, bramerà solo l'impossibile, camufferà di metafisica il suo selvaggio istinto all'immediatezza.
Il divorare con fame autentica, prima di diventare un sofisticato ed ellenistico mito, dev'essere stato quasi un'emozione, poi, come si sa, anche il selvaggio finisce col diventare un demodé.
La metafisica, cibo di platoniche pastoie rimasticate, riduce a manichini le proprie solipsistiche malattie: più cerca di uscire dai limiti dell'umano più discopre la sua maschera claunesca.
Intanto la vecchia megera Immortalità se la ride di lato.
Eppure, quando la metafisica ci ha mostrato la propria agonia, l'abbiamo amata: ridotta al silenzio ha saputo mostrarci, nei teatrini di Giorgio De Chirico, "l'enigma nell'ombra di un uomo che cammina al sole".
Per tornare al tragico quotidiano del recitare, che di tragico non ha nulla - alla faccia del malinconico Papini -, che dire allora dell'altro verso leopardiano: "ed io nel pensier mi fingo". Verso meraviglioso ma ingenuo; come se fosse possibile fingersi in qualcos'altro, senza che l'occhio professorale di qualche antropologo - tutto totem e tabù - ci fulmini per analizzare in noi una tanto rara specie di animisti, così ignari di logica aristotelica e altrettanto segretamente propensi a mangiarci l’osservatore: così… per amor di conoscenza. Crudo o cotto fa lo stesso.
La verità è che l'unica fabbrica di maschere tragiche che ci rimane per difenderci dallo smascheramento dell'avanspettacolo è quel meccanismo di rimando che il nostro cervello elaborò a nostra insaputa, per non farci impazzire fra le apparenze da noi stessi create: il santissimo e diabolico dubbio.
Come tutte le maschere tragiche anche il dubbio può vantare un’origine guerriera, uno spirito agonistico di tutto rispetto.
Il dubbio comparve quando concatenazioni d'immagini astratte, strutturalmente analoghe e sottoposte a stimoli esterni differenti, diedero vita a manifestazioni simili per origine ma diverse nella forma e, soprattutto, nel grado d'interazione con la realtà.
Montaigne ricorda che già gli stoici credevano come questo "inconveniente fosse un moto dell'anima fuori dall'ordine e dalla regola, venendo in noi da un impulso estraneo accidentale e fortuito”.
Nella teatralizzazione, condivisa da un gruppo di individui, che ci piace immaginare all'inizio dell'avventura umana (sia sotto forma di potere immaginativo della mente sia sotto quello della rappresentabilità), la continua sovrapposizione d'immagini astratte, svincolate da una qualsiasi idea di riferimento organizzata ma non dalle necessità biologiche della sopravvivenza, tendevano a sostituirsi a quest'ultima, creando immagini fantastiche, allucinatorie, del tutto reali per il soggetto che le subiva ma, come s'è già detto, assai pericolose per la conservazione di quella specie che le aveva sapute implicitamente selezionare.
L'attività culturale dell'uomo, fin dall'inizio, stava per fare uno dei suoi disastri irreparabili quando il suo cervello elaborò uno schema capace di fingere la differenza, di ordinare cioè le immagini mentali non per sovrapposizione bensì per concatenazione.
L'utilizzo di metodi concatenatori permise all'uomo di elaborare immagini seriali, di individuare in esse costanti e variabili e quindi di attivare un'azione di scelta.
Costantemente il sole variava diventando luna, costantemente Eva mandava Adamo a prendere cibo per Caino e Abele. Variabilmente Adamo non ne aveva voglia, costantemente Caino si variava in Eva per rubare il cibo ad Abele, il quale, costantemente, ci cascava, mentre Eva, variabilmente, si chiedeva se fosse veramente Eva o se si doveva invece considerare diventata Caino.
La maschera del dubbio, quest'impensato regalo, fu all'inizio solo una maschera allegra, perché consentiva di scegliere, in quel coacervo d'immagini che rappresentavano la natura, solo le più utili.
Man a mano che il meccanismo della scelta, come già' quello della finzione, diventava più astratto, allontanandosi dalla sua origine, dava all'uomo la possibilità d'associarlo al suo gioco preferito, quello di provare la sua forza, quello di competere con finzioni sempre più astute, sempre più pericolose.
Così come aveva tentato di fingere la finzione, l’uomo osò dubitare del dubbio: riuscì quindi a farsi l'immagine del dubbio.
La confusione fra tragedia e avanspettacolo, tema vero di questo capitolo, nacque con il dubbio ed è per questo che si tenterà di costruire la maschera del dubbio per ripristinarne l'ordine.
Fino a che non sopraggiunse la maschera del dubbio, le immagini comparivano come un insieme di associazioni non oppositive ma addizionabili.
In un sano agonismo fra immagini, poteva accadere che un'immagine vincesse per aver qualcosa in più rispetto all'altra. Era come un movimento cellulare, nel quale l'attacco di una cellula si risolveva sempre con un inglobamento.
Non era infatti credibile immaginarsi qualcosa che, pur non assomigliando a niente, aveva il potere di far sparire tutto quello che toccava.
Con la maschera, il meccanismo della scelta s'avvitava su se stesso, provocando un' allucinazione peggiore di tutte quelle che aveva sperimentato.
I nostri antenati provarono una sensazione terribile, un nuovo dolore per un'immagine che non aveva volto, per una pura dissolvenza di tutto l'immaginabile: sentirono fisicamente la presenza dell'abisso, del vuoto, della vertigine, e... si disperarono.
Ma quel dolore sordido, quel "disseccamento del mondo del senso", come direbbe T. S. Eliot, quella maschera senza faccia divenne ben presto, da urlo lanciato verso l'immenso che non risponde, messaggio percepibile dal cervello, quella parte così vicina... così distante.
Disse Lucrezio: "... facile ut quivis hinc noscere possit /esse animam cum animo coniuctam quae cum animi vi /
percusset, exim corpus propellit et icit" (... “facile per ognuno conoscere che l'anima è congiunta al pensiero colpendola anche il corpo ne viene colpito”).
La risposta questa volta fu piuttosto crudele, ma, per gente nomade senza definizioni, abbastanza accettabile.
Si trattò di abituarsi ad avere esperienze emotive, non rinunciando alle finzioni ma a quelle immagini immediate, anche se distorte, dalle quali erano state rese possibili.
Si trattò d'associare immagini a quel vuoto inesplicabile per rendere possibili strani simulacri che, in determinate situazioni, avrebbero sostituito l'antico legame con quel tutto coagulato dal quale questa strana avventura aveva avuto inizio.
Lentamente ma inesorabilmente, quei nostri antenati, con la rabbia del mendicante che maledice il suo benefattore, con l'odio del guerriero che medita una rivincita, impararono ad articolare dentro di sé delle idee e fuori di sé delle parole. E, come avevano fiutato di meno, corso di meno per pensare di più, ora immaginavano di meno, sentivano di meno, per conoscere di più, se quella poi era "la conoscenza".
Cantò un giorno T. S. Eliot: “Because one has only learnt to get the better of words // For the thing one longer has to say...” (“Perché si è imparato a servirsi bene delle parole // oltanto per quello che non si ha più da dire”).
Prima che qualche furbone inventasse il mito di Babele, per trovare una buona scusa in grado di peggiorare la consapevolezza degli uomini, ci fu chi tentò di conoscere la conoscenza con la stessa imprudenza con cui, poco prima, aveva tentato di conoscere il dubbio; ma questa volta, dietro la conoscenza, ritrovò la sua stessa faccia, che, smaterializzandosi, come un vampiro colpito da regolamentare paletto, gli ripresentava la formidabile maschera del dubbio. Quella Gorgone che ancora per un po' rende la nostra arte la più imbattibile delle tracotanze, la più eroica delle rappresentazioni.
Arte tragica perché ineludibile, capace di mascheramento solo per necessità, sempre pronta alla dissolvenza quando una musa, rapendola, volesse farle dimenticare l'affanno delle teatraliche battaglie.
L'uomo si abituò a riconoscere, senza la pretesa d'afferrare se non un lembo di un riflesso, il fantasma di quella maschera, che, ogni giorno, insinuandosi come un ingannatore, sibilando come per un avvertimento, irretendo come una sirena, lo faceva partecipe di un'attesa insaziabile, quell'attesa che ipoteca il futuro facendosi compiangere nel passato.
Il futuro e il passato, quel dipanarsi del tutto per differenza, divennero per lui un nuovo fantasma con il quale stringere un patto impossibile, un patto mortale: l'eterno presente.
Il presente nel passato con il ricordo, il presente nel futuro con l'aspettativa, il presente nel presente con la percezione della morte.
La morte, ingrata traditrice del dubbio, pessimo gioco illusionistico da prestigiatori – ceca per finta, muta per finta - col piattino delle elemosine sempre in vista.
La morte finì col distogliere gli uomini dalla tragedia, favorendo il più irresponsabile degli avanspettacoli; divenne, per chi voleva fuggire dalla responsabilità di permanere in contemplazione del vuoto, la compagna di quel buffonesco teatro scenografico che tanto interessa gli egittologi, gli etruscologi e il simpatico popolo napoletano, inventore della pizza e delle cuorna a schifio.
Fortunatamente questa sceneggiata non riuscì a corrompere poeti come Orazio, che seppe cantare: Absint inani funere neniae // lutctusque turpes et querimoniae // compesce clamorem, ac sepulcri // mitte supervacuos honores" (“Siano lontane dalle vane esequie // lacrime e nenie e brutte querimonie // raffrena i clamori, tralascia // le sepolcrali inutili onoranze”). (Orazio Odi II, trad. G. Vitali).
La Morte fu per molto tempo una delle tante armi ciarlatane che l'uomo utilizzò per prendersi le sue nevrotiche rivincite contro l'instabilità del dubbio, vestendola con gli abiti da parata delle verità assolute: quelle pesanti droghe che, in una maniera o in un'altra, lo riportavano in uno stato fisico simile a quello dal quale era venuto: lo stato simbiotico con il tutto coagulato.
La differenza fra l'aderire a un'immagine allucinatoria, scaturita da una concatenazione associativa di finzioni-funzioni astratte, e l’aderire alla finzione di un'idea scaturita dall'impossibilità di risolvere l'aporia del dubbio come forma pura, a noi attori, abituati alla strumentalità della rappresentazione, sembra irrisoria.
Nel nostro teatro le verità logiche sono nello stesso libro paga di quelle sciamaniche e non permettiamo, dietro la scena, che quelle finzioni drammatiche continuino inopportunamente a recitare, svilendo quest'arte che tanto amiamo.
Dietro la scena non c'è tempo per questi bisticci da grande opera, anche il dubbio deve tacere, con o senza volto.
A noi gente nomade, riposti gli strumenti di lavoro, piace vivere così, semplicemente, come su di una "distanza", evitando di fiaccarci nell'assoluto. E' per questo che il Fingitor Cortese cantò: “Vivere d'una distanza // dove l'armonia colma // assolute visioni // e variabilmente // idisegna ampiezze // figurazioni dilata. // Saprò condurre // sulla via, sulla maniera // una sazietà profonda? // Fatica d'indeterminare // il nostro messaggio // inseguendo relazioni // scambiando mutevolezze // e quando cedevolmente // fingiamo l'assoluto, // siamo come sempre”.
(L. Granetto; “Archeologia Poetica”; Verona 1971)

IL LUOGO (Terzo Capitolo)

“Learn of the green world what can be thy place
In scaled invention or true artistry...”
(E. Pound; Canto LXXXI)
“Impara dal mondo verde quale sia il tuo luogo // Nella misura dell'invenzione, o della vera abilità // dell'artefice…”

En el silencio sigue
la lira pitagorica vibrando,
el iris en la luz que llena
mi estereoscopio vano.
Han cegado mis ojos las cenizas
del fuego heraclitano.
El mundo es, un momento,
Trasparente, vacio, ciego, alalo.
 Machado, “Nuevas canciones”; trd. S. Solmi)

“Nel silenzio continua // a vibrare la lira pitagorica, // l'iride nella luce ch'empie il mio // stereoscopio vano. // Le ceneri del fuoco eracliteo // gli occhi m'hanno accecato. // Per un istante il mondo attorno è fatto // evanescente, vuoto, senza fiato.”

Chi ci ha seguito fin qui, si sarà accorto che senza la più miserabile delle spiegazioni, abbiamo continuato a spostare gli obiettivi, dimenticandoci, con spavalderia, di quel luogo originale dal quale eravamo partiti.
Vi chiediamo venia, con tutte le smorfie di cui siamo capaci, ma a voi spettatori incalliti, dubbiosi più del naso di Voltaire, vogliamo svelare un segreto della nostra arte.
§Fra le molte regole che fanno un buon attore le più importanti sono: sfuggire la spiegazione e lasciare la storia agli scenografi.
La spiegazione, questa malefica parola così cara ai critici, noi la intendiamo con diversa leggiadria, sia per chiedere alla bella villana di spiegar le sue grazie al nostro colto Priapo, sia per tentar di spiegar le ali alla poesia, quando ci capita di trovarci nella traiettoria di un pomodoro di troppo.
Sappiamo bene che le spiegazioni ci vengono fornite dalla nostra incerta coscienza per giustificare la sua mania di fare inferenze causali con azioni e sensazioni altrimenti incomprensibili.
Con i processi del nostro subconscio desideriamo comportarci con più rispetto, evitando le scorciatoie delle facili e lente analogie spesso in grande contrasto con ciò che viene chiamata consapevolezza.
Prima che il nostro emisfero sinistro si preoccupi di fornirci un senso e quello destro si preoccupi di organizzarlo, noi sappiamo attuare quella reazione di attacco e fuga che ci rende degli invidiabili e ben pagati attori.
La storia poi, con tutto quel mischiamento fra casi irreali e reali fantasie, non può che starci dietro, la dove, complice una luce adeguata, potrà svolgere un ruolo di sfondo.
La storia deve per noi creare quel bel colpo d'occhio d'apertura di sipario, predisponendo lo spettatore all'immediatezza dell'ascolto, non deve incombere goffamente, come troppo spesso ci capita di vedere, per rimediare le deficienze di una compagnia d'artisti mercenari, tutto paga e fuggi, senza la più piccola dignità almeno nella presenza.
La nostra guitteria ci fa già abbastanza vergognare senza che si aggiunga la furbizia di nascondersi dietro quest'attrezzeria da palcoscenico.
Pur recitando sullo stesso piano, noi non ci sentiamo né dentro né fuori la storia, ma casomai davanti, anche se, lo ammettiamo volentieri, a chi sta dietro le quinte questo modo di vedere le cose potrebbe non andare a genio.
Comunque, su questo sfondo nebuloso noi di storie ne raccontiamo quante ce ne pare, cercando di confonderle, un po' per impedire in futuro che qualche screanzato, con la malattia della spiegazione, finisca con il deturparcele.
Le nostre storie non possono mai essere raccontate due volte, un po' come l'acqua di Eraclito; provenendo tutte da uno stesso luogo ubbidiscono a quella trama perduta di cui abbiamo avuto modo di parlare.
Fu proprio per seguire l'ordito di quella trama, la qual ci permette di scrivere i nostri copioni, che finimmo col trasformarci, fra cielo e terra, in una compagnia di girovaghi.
Cantava Pound: “The warp // And the woof // With a sky wet as ocean // Flowing with liquid slate”.

“L'ordito // e la trama // con un cielo acquoso come un oceano // disciolto in liquida ardesia”
Seguire un ordito non e' da tutti. C'è, è vero, chi lo fa a occhi chiusi, come i famosi ciechi vedenti; ma quanti, come noi, sono obbligati a tenere ben aperti gli occhi - se non altro per evitare d’inciampare in tutti quegli attrezzi così utili alla recitazione ma anche così tremendamente ingombranti da sembrare superflui - si devono adattare a quell'arte mimetica, prossima alla saggezza, del fiutar l'orma nemica.
L'orma, la traccia, il segno hanno sempre un rapporto biforcuto sia con l'utilità-inutilità del reale sia con i mezzi per comprenderlo. Abbiamo infatti imparato, a forza di delusioni, che questi ultimi stentano ad armonizzarsi con i nostri desideri, specialmente quando, inseguendo la mania di truccare le regole del gioco, ci vogliamo convincere di una qualche necessità dei desideri.
Il desiderio, finzione fra le più pericolose, la maggior parte delle volte inganna se stesso mentre inganna gli altri, lasciandosi imbrogliare dalla stessa finzione che si era ostruito.
E' questa una delle tante fischiettate per le quali non solo diffidiamo della storia e ci teniamo lontani dalle spiegazioni, ma siamo portati a soprassedere con intermezzi danzanti quando un racconto, inceppandosi, non trova di meglio che mettersi a cincischiare di quel luogo primigenio dal quale eravamo partiti.
L'evocazione di quel luogo, pur essendo un effetto speciale molto gradito al pubblico, probabilmente per la sua analogia con le sceneggiate di successo dedicate alla mamma, scatena vere e proprie forme maniacali che a lungo andare sfociano in attività patologiche particolarmente gravi.
Fra le varie nefaste conseguenze dell'ammorbarsi di queste psicoastenie, due ci sembrano particolarmente dannose: la mania mistica e quella definitoria-evoluzionistica.
La prima ci sottrae spettatori, i quali trovano più economico assistere a un teatro inventato e recitato da se stessi, un teatro che sopprima tutto ciò che invece reclamerebbe lo sforzo di pagare un biglietto; a un tutto complesso essi oppongono un niente semplificante.
La seconda crea degli spettatori più fastidiosi dei mangiatori di pop-corn: gente nevrotica, con la fissa del prima e del poi, sempre pronta ad acclamare il primo attore, non riuscendo neanche ad accorgersi che, di lato, nella penombra, un inaspettato pugnale, di lì a poco, dominerà la scena nelle mani dell'ultimo dei caratteristi.
La nostra capacità di trarre informazioni dall'osservazione delle orme ci ha abituato a rinunciare a qualsiasi pregiudizio lineare e consecutivo; preferiamo allenarci alla sorpresa quasi come fosse una realtà famigliare.
Comprendiamo molto bene che gli uomini per simulare se stessi abbiano bisogno d'attaccarsi, come Münchhausen, al proprio codino, ma ci è difficile capire perché vogliano convincersi, così a buon mercato, che basti innalzare la necessità sopra la stessa finzione per sentirsi tranquilli.
Il discorso sull'esistenza di quel luogo dovrebbe essere lasciato solo a chi sa che l'oblio è una forma della memoria, la quale, a sua volta, è la forma più alta della maschera del dubbio.
Quel luogo, per essere evocato, ha bisogno che l'eternità, invulnerabilmente, s'inabissi nell'innominabilità, punto e basta!
Cantava J. L. Borges: “La arena de los ciclos es la misma // E infinita es la historia de la arena // A si, bayo tus dichos o tu pena, // La invulnerabile eternitad se abbisma.”

(La sabbia dei cicli è la stessa // E infinita è la storia della sabbia, // Così, sotto le tue gioie e il tuo dolore, // L'invulnerabile eternità s'inabissa.”)
Non si può confondere il fastidio che abbiamo provato davanti all'aporia del dubbio con la presenza di un luogo intorno a noi, e ci sembra abbastanza sciocco camuffare con simboli, metafore, gesti, suoni o, peggio, con ridicole e antiteatrali concettualità matematiche, quella che sappiamo essere poco più che una malattia.
Che l'uomo surroghi la vita con il linguaggio ("che muta la sua parola nella sua stagione e la modella", come direbbe Ezra Pound) è già abbastanza triste. E non si sente proprio il bisogno che esageri col traslare i suoi problemucci sulla raffigurazione del linguaggio, anche quando lo vuol presupporre nel vuoto di Mosè o intorno all'isola di Utopia.
Se qualche cosa noi animali abbiamo imparato deambulando sulla nostra trama, è quello di non fidarci dei rapporti consequenziali, di non scaricare su di un inizio quello che non comprendiamo di una fine o, peggio, di voler presupporre un inizio simulando la fine.
Intorno a noi il tempo atmosferico, così proficuamente mutabile con le sue piogge improvvise e i suoi tuoni risveglianti, ci aiuta a uscire dalle illusioni che costruiamo per lo spettacolo: come il tempo lineare, utile per far nascere e morire qualche personaggio, o il tempo ciclico, necessario per dargli la possibilità di rinascere dalla sua tomba: il che fa sempre il suo bell'effetto.
La nostra natura di bestie nomadi, presupponendo l'esistenza di un luogo del principio, ci spinge a non tradirla, a cercare di non bagnarci due volte nella stessa acqua, lasciandoci liberi di rappresentare le nostre ucranie, mentre la verosimiglianza, ci risponde, dal coro, con il suo controcanto.
Bisogna ancora fidarsi di Eliot quando canta: “What we call the beginning is often the end // And to make an end is to make a beginning // The end is where we start from.”
“Ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine // E finire è incominciare. // La fine è là donde partiamo.”
Se, come dice Einstein, il grande vecchio non gioca a scacchi, non saremo certo noi a sfidarlo su questo campo. Al massimo, possiamo annusare, intuendo, i versi di Borges: “Dios mueve al jugador, y èste, la pieza. //Què Dios detràs de Dios la trama empieza // De polvo y tiempo y sueno y agonias?” (“Dio muove il giocatore, e questi, il pezzo. // Quale Dio dietro a Dio dà inizio alla trama // Di polvere e tempo e sogno e agonia?”).
Rispondere a questa domanda significherebbe rinunciare al pathos del dubbio, finendo non nel luogo del principio ma in qualche tempio edificato per crollare davanti allo starnuto del più sgangherato dei pensatori.
Se gli uomini hanno bisogno di consolarsi pensandosi un sogno di un Dio, che ha dietro a sé un altro Dio che crea la trama, imparino almeno a sognare senza intasare le cliniche psichiatriche o gli scaffali delle biblioteche; imparino che, anche per la finzione, c'è bisogno di sogni che le somiglino.

MEMORIA (Quarto Capitolo)

“E troverai alla sinistra delle case di Ade una fonte e accanto ad essa un bianco cipresso diritto a questa fonte non accostarti neppure da presso. E ne troverai un altra, fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine; e davanti stanno i Custodi. Di loro: sono figlio di Terra e di Cielo stellante, inoltre la mia stirpe è celeste; e questo sapete anche voi. Sono riarsa di sete e muoio ma date, subito fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine. Ed essi ti lasceranno bere alla fonte divina. E in seguito tu regnerai insieme agli altri eroi. Di Mnemosine è questo il sepolcro...” (Laminetta trovata a Petella; IV secolo A.C.; trd. G. Colli)

“Memoria certe non modo philosophiam, sed omnis vitae usurum omnesque artes una maxime continent.” (Cicerone)
“La memoria certo contiene non solo la filosofia, ma tutto ciò che concerne la pratica della vita e tutte le arti.”

Sol pur col foco il fabbro il ferro stende
al concetto suo caro e bel lavoro
né senza foco alcuno artista l'oro
al sommo grado suo raffina e rende.
Ma l'unica fenice se riprende
se no prima arsa, ond'io ardendo moro,
spero più chiar resurger tra coloro
che morte accresce e il tempo non offende
Del foco, di ch'i parlo, ho gran ventura
c'ancor per rinnovarmi abbi in me loco,
secondo già quasi nel numer de morti
(Michelangelo)

Prima che il gioco delle idee allucinatorie in libera uscita facesse credere all'uomo che anche Mnemosine si potesse prestare a qualche sceneggiata, questa dea, figlia di Terra (Gea) e Cielo stellante (Urano), provvedeva a fargli venire quella voglia matta di vivere al solo scopo di creare il più sfrenato, irresponsabile e tracotante dei bevitori. Mnemosine utilizzò a questo scopo da osteria due regali di sua madre Gea, figlia del Caos: la materia e i sogni.
I sogni, frutto di un incesto fra Gea e suo fratello Urano, diedero all'uomo la possibilità di conoscere gli dei e divennero per lui messaggi inconsci.
Si convinse che questi dei combattessero contro Urano, che aveva preso la gran brutta abitudine di rinserrare i fratelli-figli nella profondità di Gea senza mai lasciarli venire alla luce.
Un giorno, Cronos, il divoratore di tempo, il più infelice di quei titanici pargoli, esasperato dalla sconveniente abitudine del padre, ebbe la bella trovata di tagliarli i genitali.
Urano ne fu così umiliato, che fuggì ben oltre il più sofisticato telescopio, in un luogo dove si rende visibile solo ai pazzi, ai sognatori e agli amanti delle più disordinate e pericolose creazioni, aiutati dalla bella Afrodite nata dalla schiuma insanguinata di quell'antica castrazione. L'incomprensione per questo ombroso dio suggerì inoltre a uomini assai vendicativi di immaginarselo come un toro da ammazzare nelle arene, e questo molto prima che Teseo accoppasse il Minotauro.
Questa chiarissima storia, tramandata da gente onestamente bugiarda, viene raccontata da altri bugiardissimi, loro discendenti, con una certa mancanza di pathos, giustificato dalle fredde grazie della puttanella scienza, ancella di Minerva, dea civetta. Ancella di così scarsa importanza da non essere menzionata neppure da Esiodo.
Ciò che trasforma una reazione fisica in un evento biologico è la costanza ritmica del suo orologio molecolare (l'anima di Cronos). La reazione chimica abbandona la sua magmatica attività (il ventre di Gea) per creare il suo regno nell'equidistanza fra momento attivo e momento resistente, tra questi, egli si pone come oscillazione ritmica e affida la sua vita alla costanza.
René Char cantò:
 
Le combat de la persèvcèrance.
asymphonie qui nous portaitr s'est tue.
Il faut craire à l'alternance
Tout de mysterès n'ont pas ètè pénétré ni détruits.

“La lotta della perseveranza. // La sinfonia che ci porta è muta. // Bisogna credere al moto alterno. // Tanti misteri non sono stati penetrati ne distrutti.”

Cronos, primo dei cibernetici (cibernetica: dal greco, con significato di “pilotate/guidare una nave”), per poter uscire alla luce, caricando e scaricando elettroni in sequenza, deve interrompere l'attività lineare del padre (taglio dei genitali) per pilotare il suo segnale come regolatore dell'omeostasi: quel processo fisiologico coordinato, mediante il quale l'organismo vivente si mantiene in uno stato di equilibrio.
Come si sa, Cronos aveva ereditato dal padre lo stesso vizio che gli uomini erediteranno poi dagli dei: un esagerato egocentrismo. Dopo essersi accoppiato con la sorella Rhea, aveva preso l'abitudine di mangiarsi i figli, che non volevano capire la meraviglia del suo regno perfetto, dove gli istinti non avevano bisogno di sublimarsi in fallaci astrazioni per suggerire il puro desiderio insaziabile. Ma la sua eccessiva fame di vita, il desiderio spasmodico d'andare sempre oltre i propri appetiti, alla lunga gli fecero perdere la capacità di valorizzare i dettagli. Fu così che lasciò a sua sorella Mnemosine il compito di mettersi fra la materia organica e quella inorganica per regolamentare il traffico, con segnali abbastanza imperfetti ma tutt'oggi efficaci.
Quando il figlio di Cronos, Zeus, nascosto dalla madre Rhea in una grotta, ubriacò, castrò e spodestò il padre dopo avergli fatto vomitare tutti i figli inghiottiti, Mnemosine aveva già trovato il modo di evitare che il corpo morisse una volta che la natura si stancava di consentire dentro a un organismo vivente quella danza oscillatoria della vita.
Mnemosine nascose infatti dentro ogni più piccola molecola organica, anche la più insignificante, un’ampolla ricolma di un intruglio di acidi miracolosi (DNA e RNA), che a contatto con qualsiasi cellula vivente avrebbe avuto la possibilità di far nascere nuovamente ogni essere, dal più grande al più piccolo, con un aspetto quasi del tutto simile a quello che aveva avuto nella sua precedente vita.
A quest'ampolla Mnemosine allegò, per suo divertimento personale, istruzioni per l'uso piuttosto fantasiose, al fine di ingenerare una sana confusione che impedisse a quegli esseri sedentari, assai tradizionalisti, convinti conservatori, di ripetersi con la stessa sconsolante, noiosa, risaputa, faccia di bronzo.
In queste istruzioni per l'uso, alcune regole però non venivano mai variate; nello specifico:
1) RICORDATI CHE SI VIVE PER BERE: perché l'entropia biologica non può far altro che aumentare rendendo i nostri processi fisiologici irreversibili. Bevendo (acquisizione di energia) ci differenziamo e invecchiamo pagando  il costo energetico dei processi omeostatici. I bevitori più egocentrici e individualisti devono sapere non solo che nell'agognata differenziazione diminuisce l'entropia a spese dell’energia, ma anche che l'entropia “persa” aumenterà in qualche altra parte dell'universo. Comunque, la dissipazione fa parte di qualsiasi buon bevitore, anche di chi non disprezza equilibrio e costanz

2) RICORDATI DI LOTTARE PER IL FIASCO: perché,  anche nel più vigliacco dei sedentari, i genotipi si occupano esclusivamente della loro sopravvivenza. Il bevitore è  solo un parco giochi utile alle loro competizioni.
Mnemosine fra l'uomo e gli aminoacidi scelse l'eternità solo per quest'ultimi.
La lotta per il fiasco, oltre a un’ottima recita, può servire comunque per capire come il fenotipo non sempre può arrogarsi il merito di rappresentare il mutevole e flessibile genotipo, abituato a dialogare con i più capricciosi fattori ambientali.

3) RICORDATI CHE BERE IN COMPAGNIA FA RIMA CON ALLEGRIA: perché i neuroni specchio hanno bisogno di scaricare energia, determinando in noi la simulazione attiva del comportamento degli altri e la conseguente comprensione sia delle nostre che delle loro azioni.
Anche quando non riusciamo a riconoscere in noi azioni analoghe a quelle messe in atto dagli altri, avviene un’inferenza capace, in un secondo tempo, di attivare un meccanismo di riconoscimento di un’esperienza emozionale comune.

4) IMPARA A BERE UN PO' DI TUTTO MA SAPPI SCEGLIERE I VINI MIGLIORI: perché anche se ci si rifiutasse di bere un po' di tutto i nostri sogni, i nostri pensieri impliciti, si ubriacherebbero smodatamente senza alcun rispetto per la nostra risibile volontà.
Mnemosine ama la creatività e l’ancella di questa l’Invenzione; entrambe si nutrono, anche per il più egocentrico degli ubriaconi, dell'interazione delle immagini che provengono dall'ambiente esterno con le immagini interne provocate dai sensi, dagli impulsi, dagli stimoli e a una buona quantità di finzioni-funzioni.
Nati per sognare ed emulare il mondo come altri esseri  viventi più poetici di noi, abbiamo finito col diventare gli antagonisti di quei sogni e di quel mondo.
Per adempiere a questo tragico destino, abbiamo confuso la pura arte del recitare, ossia l’emulazione (che consiste nell'attivare azioni non intenzionali), con l'osservazione meticolosa e leggermente pornografica di quel che stavamo facendo.
Il nostro cervello, sempre tanto impietoso e vendicativo, affidò, per punirci, un nuovo lavoro all'ATTENZIONE: un demone che sonnecchiava in una specie di mandorla, chiamata amigdala, posta alla base dei suoi emisferi cerebrali.
In quel luogo, l'Attenzione svolgeva solo il ruolo di sentinella, si accorgeva prima di tutti se c'era qualcosa di particolarmente pericoloso e si premuniva di avvertire la neocorteccia di trovare le soluzioni giuste per risolvere il pericolo. Soluzioni messe in atto senza che nessuno si rendesse conto del perché la neocorteccia si fosse comportata in quel modo.
Con la nuova mansione affidata alla povera sentinella ATTENZIONE, un certo numero di  soluzioni automatiche divennero valutate con più ponderatezza, con più dubbi da risolvere, ma, soprattutto, fu loro impedito d’avere una reazione immediata al giudizio d'istinto.

Scriveva Nietzsche: "L'intelletto è essenzialmente un apparato che impedisce una reazione immediata al giudizio d'istinto: trattiene, medita ulteriormente, vede la catena delle conseguenze più lontano e più estesamente.” (F. Nietzsche; “Frammenti Postumi”)

In questo contesto “SCEGLIERE I VINI MIGLIORI” può voler dire anche valutare le conseguenze del loro consumo su quella che vorremmo divenisse la nostra ersonale visione del mondo e, perché no, il nostro comportamento.

5) IMPARA A DANZARE UBRIACO: perché i sistemi regolatori dell'essere vivente, cerebrali, fisiologici, adattivi e dipendenti da molti altri fattori chimico-fisici, tendono continuamente a ristabilire un insieme di costanti che assomigliano a quel concetto che asceti e logici chiamano equilibrio, ma che, in realtà, sono un insieme di messaggi inerziali, i quali, invece di disperdersi, possono essere codificati e quindi ripetersi con una stabilità relativa. I biologi chiamano questo fenomeno equilibrio dinamico.
Qualsiasi sia la loro finalità apparente, qualche volta anche manifesta, sanno conservare in se stessi una causalità nascosta, capace d'indurre in noi la sensazione di essere perennemente ubriachi: la consapevolezza, dolorosa o felice, di essere incapaci di organizzare il nostro comportamento intenzionale.
Il danzare ubriachi non corrisponde solo al bisogno di trovare un compromesso con la nostra coscienza esplicita, ma si associa anche alla necessità di non opporre eccessiva resistenza alle continue mutazioni che avvengono in noi.
Inoltre, un ottimo motivo per danzare ubriachi è che, trovandoci in uno stato tipicamente ambivalente e arbitrario, potremmo essere in grado di produrre un messaggio che  potrebbe trasformarsi, per chi ci guarda, in un nuovo messaggio magari anche di quelli che cambiano il mondo.
La capacità referenziale fra due o più soggetti che tendono a non capirsi da molto lavoro ai neuroni specchio delle rispettive cortecce motorie.!

6) IMPARA A REGGERTI SU UNA GAMBA: perché l'equilibrio è solo il figlio bastardo dell'EQUIVALENTE, una delle tante maschere della finzione.
Reggendosi su una gamba si può sperare di fare l'esperienza di cadere per errore.
Esperienza simile a quella che fa il DNA quando, per replicarsi, muta se stesso se  gli capita che un punto sulla sua copia della mezza elica sia errato o quando si vede detronizzato dalla sua funzione esclusiva di distributore dell'informazione biologica per la capacità di certi sciagurati enzimi che utilizzano le potenzialità del suo fedele servo RNA.
Nella caduta, inoltre, se si è particolarmente fortunati, si può esperire la molteplice natura del dolore: quello fisico per la botta ricevuta, quello psichico per averlo riconosciuto, quello psicotico per la vergogna provata.
Ci si renderà conto, in una sola volta, come sia facile per il nostro corpo mettere in atto quel processo di trasformazione della sofferenza finalizzato ad arricchire i medici, gli editori, i farmacisti e altri utili lavoratori del benessere individuale e collettivo.

7) RICORDATI DI PRENDERE FIATO PER TRACANNARE MEGLIO: perché l'apporto della troppa energia che è in noi, producendo un aumento dell' entropia globale del sistema biologico, ci fa invecchiare troppo presto.
Prendendo fiato, riposandoci, sintonizziamo la nostra voracità alle forze inerziali dell'omeostasi: la facoltà di autoregolazione di tutti gli organismi viventi. Con qualche sollazzo sedentario possiamo perseverare nello stato di quiete attendendo che nuove bevute (energia esterna) convincano l'entropia a diminuire un po' la sua inesorabile corsa. Inoltre, il fine di TRACANNARE meglio è un'opportunità che ci aiuta a brillare nei migliori salotti dove, fra una tartina e un martini, sono molto apprezzati i discorsi sulla biocompatibilità e sui vari processi rigenerativi.
In fondo, anche quelle chiacchiere hanno una certa importanza per la selezione e la trasformazione dell'ambiente in relazione ai comportamenti umani e, naturalmente, viceversa!
Queste istruzioni, etilicamente gioiose, generarono un mondo multiforme, popolato da esseri fantastici, uno rigorosamente diverso dall'altro, tutti però uniti in un solo scopo: bere e tracannare.
Ci si è spesso chiesto, fra una bevuta e l'altra, perché Mnemosine, fosse così legata al bere, probabilmente perché aveva visto come quel suo pronipote Zeus, il traboccante, il fermentante (Zeus significa risplendere ma contiene anche la risonanza analogica di zéin-fermentazione, lievitazione), aveva saputo approfittare di una sbronza di suo padre per evirarlo e mandarlo in Inghilterra, terra di molti gay liberamente accettati.
Ma c'è chi - come i moderni scienziati poco interessati a queste veritiere menzogne - si ostina a fornirci un'altra interpretazione.
Quando Mnemosine era giovane e vestiva alla marinara, nell'atmosfera l'ossigeno non era presente allo stato libero, o almeno così credono loro, in quanto nelle rocce primitive il ferro è depositato sotto forma di composto ferroso (FeO), mentre in presenza di ossigeno si deposita sotto forma di composto ferrico (Fe2O3).
In un tale ambiente, risultava difficile che avvenisse una sintesi delle proteine, con quei pochi aminoacidi e nucleotidi e altri composti organici, sintetizzati abioticamente in quello strano brodo molecolare che assomiglia così tanto a quell'ichòr che traboccò dalla caverna dove nasceva Zeus.
Quindi, se non era possibile ottenere energia per ossidazione, non rimaneva altro che ottenerla attraverso la fermentazione degli zuccheri, come accade anche oggi per molti tipi di batteri e di animali, come i parassiti intestinali che vivono in un ambiente privo di ossigeno.
Questi piccoli ma originali animaletti, perfettamente istruiti da Mnemosine a fare casino, dopo che Zeus, sfuggendo da quell'isterica di Giunone, riuscì a farsi una sveltina con Latona per creare Apollo, riuscirono a moltiplicarsi e a ingigantirsi catturando l'energia solare direttamente con la fotosintesi.
Fu forse dopo quell'avvenimento che i poeti, istruiti da Mnemosine a festeggiare i compleanni, si diedero a ringraziare Apollo, chiedendoli sempre più "foco", per, come ci dice il nostro Michelagnolo, "sentirsi delle fenici" che "ardendo morono" ma che, come dice Petrolini "poi rinascon più grandi e più belle di pria".
Gli artisti, i nostri più cari fratelli, hanno questo di bello: possono bere il liquore di fuoco, possono far fermentare le idee della creazione, possono distruggere per ricostruire, come ci dice Picasso quando afferma che "ogni atto di creazione è prima di tutto un atto di distruzione", senza che il simbolo li ottenebri, senza che la loro stessa mente crei loro quell'inconveniente filosofico, tutto tedesco. di perdere una vita intera a cercare un improbabile assoluto, fra un a-priori impossibile, fuori dal tempo e dallo spazio e uno strumentale a-posteriori, che finisce quasi sempre col trasformare l'assoluto in assolutismo o in pazzia.
Un buon artista, per essere tale, deve essere anche un buon bevitore. Un buon bevitore non è ricattabile, specialmente da chi, come Kant, non si degna di sedersi alla sua tavola, e, se lo fa, lo fa sempre per interposta persona.
Non ci rendiamo ancora conto come le notti gotiche abbiano saputo sostituire i nostri gioiosi riti dell'immediatezza con quel coacervo di macabri equivoci, inventati da un popolo che non seppe convivere con eleganza le proprie istintualità.
Nella nostra fanciullesca allegria fummo presi da terrore quando Hegel pronosticò "l'avvento della verità assoluta come autodeterminazione della libertà, quella libertà che ha come scopo la sua forma assoluta".Quella libertà, aggiungiamo, che ti porta dritto in un lager, dove "la volontà di potenza" di in nicciano convinto si è rivestita dell'ineluttabilità di un altro hegeliankantiano: il generoso pasticcione Carlo Marx.
Ma non ci viene voglia di ridere neanche quando, visto il fallimento sanguinario di queste teorie, Heidegger tentò di riciclarsi con la sua delirante "impossibilità possibile dell'esistenza", facendo rientrare dalla finestra quel tipo di aporia che pensavamo volatilizzata nel fumo dei forni crematori.
La bilancia utopica, fra assoluto metafisico ed enigma conoscitivo, tenderà sempre o verso l'ineluttabilità di una legge odiosa, o verso la schizofrenia dell'ascetismo, togliendo all'uomo l'opportunità di ascoltare Mnemosine quando suggerisce d'imparare a "DANZARE UBRIACO".
A dire il vero a questi tedescacci, Mnemosine avrebbe dovuto suggerire l'impossibilità di farsi bevande da soli, ma questo suggerimento le deve essere apparso inelegante, non degno di una dea, che, unendosi a Zeus, procreò la seconda generazione delle Muse. Ci dice infatti Apollonio Rodio che "nei versi attribuiti a Museo, si racconta di due generazioni di muse, delle più anziane, dei tempi di Crono e delle più giovani, figlie di Zeus e Mnemosine".
Le Muse della prima generazione erano, come sappiamo, solo dei suggerimenti allegati a un’ampolla, le seconde invece sono attività concrete vere e proprie, come l'inchiostro e i pensieri di queste pagine.
Ritornando ai nostri tedescacci indiavolati, probabilmente l'equivoco delle loro esagerazioni fu generato dall'aver preso troppo sul serio quell'istruzione: RICORDATI DI LOTTARE PER IL FIASCO.
Il lottare per il fiasco non significa suggerire agli altri bevitori di andare a morire ammazzati, imponendo un sistema complicato di leggi vessatorie che vanno tutte a finire in interminabili film su Robin Hood, inventati per surrogare il desiderio di bere con l'inaccettabile morbosità dei guardoni. Questa lotta, anche nei periodi più rivoluzionari della differenziazione, deve avvenire sempre allo scopo di BERE IN COMPAGNIA, per far rima con allegria.
Se poi, qualche batterio autolesionista, qualche organismo schopenhauriano, viene preso dall'irrefrenabile desiderio di andare "alla sinistra delle case di Ade" a bere a quella fonte che sta accanto "a un bianco cipresso diritto", peggio per lui, vorrà dire che noi, bevitori incalliti, ci impadroniremo del loro lascito di fiaschi, senza nessun romantico senso di colpa.
Ci rendiamo conto che l'arte del bere non è fra le più semplici per gente fisicamente disadatta alla danza; perché l'arte del bere richiede due sforzi che sembrano antitetici: quello dell'equilibrio e quello della mutazione.
Il primo ha bisogno del secondo, ma il secondo fa di tutto per far perdere l'equilibrio all'equilibrio ed è per questo che Mnemosine suggerisce d'imparare a REGGERSI SU UNA GAMBA PRIMA DI DANZARE UBRIACHI.
Tristan Corbière cantò: Va donc, balancier soul affolé dans ma tete!”. (“Va dunque, bilanciere ubriaco affollato nella mia testa.”).
Abbiamo già visto come Adamo scoprì fuori di sé le proprietà della costanza, come tempo ripetuto, mentre, essendo nato fra il Tigri e l'Eufrate - nel territorio africano delle perfette danze significanti - non aveva tempo d’occuparsi anche del suo equilibrio interno, il quale, nella sua naturale ubriacatura, funzionava certamente meglio del "bilanciere" di Corbière, poeta marinaio.
Per ragioni squisitamente estetiche - e quindi conoscitive -, Adamo preferiva farsi trasportare dal ritmo stesso della danza piuttosto che rovinare tutto con un semi-meccanico-minuetto, che tanto sarebbe poi piaciuto a quei selvaggi totemisti della ragione, così ignorantemente blasfemi, d'aver sostituito nei loro riti magici la maschera di Apollo con delle ridicole lampade a olio, per le quali furono chiamati con un nomignolo privo di senso: illuministi.
Gli illuministi, a furia di scambiare quei lumini con la luce del sole, finirono con il permettere agli elettricisti di prendere il posto dei pensatori.
Quell'incauta mossa, dovuta alla frivolezza francese, diede la possibilità all'ordine mentale squisitamente prussiano di elaborare un infallibile sistema per rovinare un qualsiasi gioco di scacchi, riducendo la casualità assetata in causalità astemia.
Ma noi, guitti e saltimbanchi, da generazioni figli di Terra e Cielo stellante, abituati a barare per sopravvivere, non cadiamo in questi trabocchetti robotici. Noi riconosciamo la fonte di Lete a prima vista ed è per questo che abbiamo elaborato una serie infinita di modi per procacciarci da bere, e una serie altrettanto infinita per adattarci agli effetti eccitanti che ci danno le nuove sconosciute bevande come ci consigliò un giorno Lucrezio: “Post aliud cum contigit illud, avemus // et sitis aequa tenet vitai semper hiantis” (“Per noi desideriamo dell'altro e la stessa sete di vita ci tiene sempre con il fiato sospeso”).
Mnemosine ci ha insegnato, oltre alla danza, il metodo di prender fiato per poter sibilare parole ubriache ai più irresponsabili astemi; parole infallibili che indossano la maschera del dubbio. Maschera scaltra, che annienta i finti svelamenti heideggheriani, fatti d'indigeste angosce e le furberie fataliste pigramente covate dagli orientali.
Venezia, città di maschere, intercala la sua deliziosa lingua con una parola che ha il suono della danza, il sapore di un sorriso e il volto marino della laguna: “conforme”.
A un venexian se te disi che “conforme” xe n'aporia, xe na brase coverta, che prima o poi la scota, te risponde, co’ na fassa da tola: conforme! (se dici a un veneziano che conforme è un'aporia, una brace coperta, che prima o poi scotta, ti risponde, con faccia da impunito: conforme!).
Se non si conoscono tutti i suggerimenti di Mnemosine per bere spasmodicamente è meglio, per non soccombere, troncare subito la discussione.
Una tenzone alcolica con un veneziano finisce sempre o a cantar sotto le stelle o nelle limacciose acque di qualche canale: raro esempio di commedia che non sa dissimulare le sue origini tragiche.
Una discussione sul “conforme” veneziano risulta particolarmente difficile; questa parola infatti non appartiene alla tracotanza dell'uomo e ai suoi maldestri tentativi di nascondersi da Mnemosine (come fece quel furbo di Zenone quando se la rise di Parmenide con il suo fastidioso “è e non è”).
Zenone, da bravo siciliano, aveva una visione catartica del pensiero e, probabilmente, tentò d'assassinare la dialettica fin dal suo nascere. Zenone, abituato ad assistere comodamente seduto in qualche delizioso anfiteatro della sua splendida isola a delle straordinarie opere musical-poetiche, riteneva disarmonico dividere ciò che, non unito ma coagulato, dava di sé una così convincente prova di spettacolarità rappresentativa.
Il “conforme” dei veneziani, in quanto comportamento concreto, non si concede al pensiero geroglifico del rimando, non procede per soluzioni “altre”, se ne infischia del rigore maniacale della segnaletica.
Se Mnemosine conserva biologicamente l'essenziale, permettendo la differenziazione delle forme, significa che queste ultime sono l'estensione del suo corpo e non la sua mera rappresentazione.
Vivere e pensare “cum-forma” vuol dire indossare la maschera del dubbio senza farsi paralizzare dalle sue aporie: abbandonando l'aristotelica “causa prima dell'essere” si può vivere in complementarietà non necessariamente causali. Come scrive Michael Gazzaniga: “Stabilire un corso d'azione è un processo automatico, deterministico, modularizzato e guidato, in ogni dato momento, non da un solo sistema fisico ma da centinaia, migliaia, forse milioni: il corso dell'azione intrapresa ci appare una questione di scelta, ma si tratta del risultato di un particolare stato mentale emergente, selezionato dal complesso ambiente circostante, frutto di costanti interazioni. L'azione è fatta di componenti complementari che hanno origine dall'interno e dall'esterno: è così che funziona la macchina (il cervello).”....” Ciò che avviene è l'abbinamento tra i sempre presenti molteplici stati mentali e le forze contestuali incidenti” (M. Gazzaniga “ Chi comanda?” Codice Edizioni; 2013).
Il metafisico “pensiero che pensa se stesso” diviene, da prerogativa trascendentale del Motore immobile, pratica quotidiana di comportamento e in rari casi di conoscenza.
Un comportamento prevalentemente estetico, attento alle mutazioni della forma, intesa come opportunità, lontana dagli assoluti e prossima alla indeterminatezza mimetica, verso una natura che si fa, non disgiunta da ciò che reputiamo essere la nostra coscienza.
In questa mimesi, l'uomo riconosce in se stesso la natura e nella natura se stesso, un po' come in quella frase di Pico della Mirandola, che, se non fosse viziata da una pretesa magica, da una volontà di potenza, ingenua e anacronisticamente rinascimentale, potrebbe illustrare, a mò di motto, ciò che intendiamo per “conforme” e per “estetico”: “quod magus homo facit per artem, facit natura naturaliter faciendo nomine” (“ciò che il mago produce mediante l'arte, la natura lo produce naturalmente producendo l'uomo”).
“La natura è piena d'infinite ragioni che non furono mai in esperienza”, direbbe Leonardo per evitarci brutte figure con ciò che ci sembra determinato o determinabile.
La causalità è un gioco birichino che Mnemosine ci ha messo in testa per ricordarci di lei: non è lecito sostituirla con qualche assurdo succedaneo filosofico che la falsifichi.
Agli azzeratori epocali, ai futuristi guerrafondai, agli innovatori per forza, Mnemosine fa trainare - al massimo - sacchi pieni di conseguenze antiche, per ridicolizzarli ben presto sui libri di storia.
Quando un veneziano ti dice “conforme”, ti sta parlando di una particolare abilità nel conformare le sollecitazioni che un avvenimento gli suggerisce con l'avvenimento stesso.
Questa abilità ha il carattere dell'equilibrismo: se esagera in opportunismo verrà preso a calci, se si fa prendere dal fatalismo finirà col cascare, ma se riesce a mimetizzarsi con l'avvenimento sino al punto di una quasi totale immedesimazione, allora otterrà un trionfo: quello SAPERE COME FINZIONE ESTETICA.
Riassumendo,ma non semplificando!
Mnemosine si manifesta come materia che determina al suo interno dei rapporti fenomenici regolati da delle reazioni, sotto l'aspetto biologico, i rapporti fenomenici appaiono come delle successioni correlate da reazioni che gli uomini trovano utile chiamare messaggi.
I messaggi, da questo punto di vista, sono fenomeni di carattere naturale che ubbidiscono a quelle regole interpretabili, con sempre maggiore precisione, dalla mente speculativa degli uomini, istruita a questo scopo dai messaggi stessi.
I messaggi, intesi sia come reazioni chimico biologiche sia come reazioni del pensiero umano, hanno bisogno per agire di nutrimento, il quale condiziona la loro forma per adattamento e funzionalità. Questo adattamento avviene principalmente per selezione e sedimentazione.
Nel caso specifico dei messaggi elaborati dal cervello, la natura ha sedimentato una successione di analogie, fra esse inferenziali, che gli permettono di “conformarsi” con grande duttilità alle sollecitazioni interne ed esterne.
Il sapere come finzione estetica potrebbe, e in parte è già stato, una tecnica conformativa, una ginnastica del pensiero che riunisce le inferenze, cercando di fare emergere la memoria in tutti i suoi aspetti, sedimentativi (ricordi) e selezionatori (innovazioni possibili, nuove inferenzialità).
L'esteta percepisce la possibile narrazione dai processi non integrati, tentando di liberarsi da se stesso. Non fidandosi del proprio e dell'altrui sistema neurale, sottostante all'esperienza cosciente, diffida della coerenza e della unitarietà. Dubita di tutte le credenze che uniscono gli uomini e che rafforzano le loro azioni collettive. Anche se forse non dubita dell’ANALOGIA, che rende intellegibili le CIRCOSTANZE, dubita delle sue applicazioni, presenti e passate, se non quando gli agenti analogici rendono intellegibili nuove circostanze; in una parola: pur dubitando anche dell'errore lo venera con particolare amore.
Ciò che rende possibile questo sapere è l'empatia fondata sulla diffidenza, sull'incertezza e sull'imprevedibilità.
Ignoto e rischio sono il contesto del suo agire, evidenza e soluzione dei problemi le macerie con le quali si forma il pensier condiviso dei più contro i meno.
Fra le molte superstizioni generate da tale ginnastica vi è la credenza che la solitudine degli individui che intraprendono questa strada sia attribuibile a un eccesso di egocentrismo e da una sostanziale incapacità di condividere con altri le loro esperienze.
In realtà la loro solitudine dipende dalla consapevolezza di non esistere come individui e di essere agenti inconsapevoli di fenomeni che partecipano a un’accumulazione complessiva fondata su agglomerati di risposte asimmetriche date in epoche temporali anche lontanissime le une dalle altre.
Fra le caratteristiche storicamente più evidenti di questo comportamento, suggeriamo di annoverare anche l'attitudine a convivere con il dubbio della fede. Da questo dubbio nascono molte idee, come quella che il mondo nel quale viviamo non sia solo quello creato dal cervello degli uomini, anche se, come scrive il neurochirurgo Arnaldo Benini: “a questa visione pare oltretutto opporsi un limite invalicabile, perché l'organo che studia la coscienza, il nostro cervello, è anche quello che la crea. Allora siamo forse condannati a cercare all'infinito i criteri per indagare su noi stessi, rimettendoli un discussione a ogni nuova scoperta” (A. Benini; “La Coscienza imperfetta”; Garzanti).
Dal dubbio su cosa sia realmente la coscienza nascono una serie di problemi scientifici. Qualsiasi astrazione viene generata da un fenomeno fisico, qualsiasi astrazione genera un fenomeno fisico e qualsiasi fenomeno fisico è conoscibile solo attraverso l'astrazione.
Il problema se sia nata prima l'astrazione o il fenomeno fisico provoca risposte chimico-fisiche, psicologiche e religiose. Per il pensiero esplicito elaborato nella mente dell'uomo, l'insieme della relazione fra questi due insiemi genera una concatenazione di causalità nascoste e di causalità manifeste nell'essere vivente.
Per la religione esiste una causalità nascosta, non conoscibile esplicitamente, ma implicitamente attraverso un fenomeno al quale viene dato il nome di Dio, che genera fatti concreti come poesie, comportamenti, filosofie, valori, malattie, guarigioni, etc. Il credente ha fede in Dio, l'ateo ha fede nella sua inesistenza, ma i loro pensieri impliciti o intenzionali, attivando le medesime regioni del loro cervello, generano variazioni analogicamente simili.
In un testo babilonese del secondo millennio avanti Cristo si trova scritto: “Ciò che si giudica per il dio è abominevole, ciò che si trova cattivo per il proprio cuore, per il proprio dio è bene!”
E qualche anno dopo Euripide cantava: “Gli dei sovvertono, confondono il valore di ogni cosa perché nell'incertezza del futuro noi continuiamo sempre a venerarli”.

LA PAURA (Quinto Capitolo)

“difatti una grande, attonita, atterrita reverenza per gli dei impedisce la voce” (Omero)

“Volai via dal cerchio che da affanno e pesante dolore” (Laminetta trovata a Turi)

“Pensa che tutto è pauroso e incerto nella vita. Quando si è fuori dai malanni occorre guardarsi da ogni rischio, vigilare con gran cura perché la nostra vita inopinatamente non perisca” (Sofocle)

“Mostra ai dormienti ciò che è furtivamente destinato a piacere e sofferenze” (Pindaro)

Le infrenabili dolcezze che germogliano nelle tenebre, immensa gratitudine fan sorgere nel cuore dell'uomo” (Euripide)
“Le nostre più grandi agitazioni hanno cause ridicole” (Euripide)

“Faelix qui potuit rerum cognoscere causas. Atque metus omnes inexorabile fatum. Subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari. Fortunatus sylvanumque senem, nymphasque sorares” (Virgilio; Georgiche)
(Felice chi può delle cose conoscere la causa e calpestare ogni paura e l'inesorabile fato e lo strepito dell'avaro Acheronte. Fortunato chi conosce gli dei campestri: Pan, l'antico silvano, e le ninfe sorelle.)

Nel precedente capitolo abbiamo visto come si possa discorrere della forma come di un'azione intrinsecamente legata all'atto del conformarsi.
Per far questo, abbiamo mescolato alquanto le argomentazioni: del mondo organico con quello inorganico, della filogenesi con la tradizione culturale, degli archetipi mitici con le credenze scientifiche.
Abbiamo stravolto l'eco delle pertinenze per ottenerne una risonanza che assomigli, anche in questa scrittura oscenamente logica, all'oggetto del quale vorrebbe farsi paladina.
La risonanza poggia sul fortuito che tende a travalicare come per una speranza di conoscenza. Essa agisce sul lettore come una bella armonia che smussa la pulsione del ritmo sincopato, facendo fluttuare la contingenza dei rapporti nello spazio della rappresentazione: un teatro che ci offre un comodo posto in platea.
Forse per questo ci siamo sforzati di ignorare interpretazioni fonicamente aristoteliche, anche quando, come per il sinolo, c'è sembrata una forzatura.
Abbiamo applicato le regole di qualsiasi teatro possibile, regole un po' comiche e un po' tragiche, come lo possono essere quelle che abbisognano di maschere.
Si tratta sempre e solo di una licenza, analoga a quella della metafisica, che utilizza le poco credibili polarità oppositive: astrazione e concretezza, tutto e nulla, forma e contenuto fino alle più moderne stravaganze non necessariamente oppositive, come significato-significante e linguaggio-metalinguaggio.
Anche noi affidiamo a simili finzioni la nostra recita, con però questa accortezza: tentiamo la passività che trasformi il nostro possesso in possesso posseduto.
Noi sentiamo la finzione come il demone di un'esperienza istintualmente concreta, nella quale la coazione biologica non soggiaccia come eterno rimando, bensì emerga in tutta la sua forza di continuità, fino al punto di apparirci come immagine della sua azione.
Il farci possedere è per noi la mimetica danza che trasforma una pulsione in suono, un’immagine in oggetto, una progressione in visione.
Marc Chagal diceva a questo proposito: “il principio dell'arte è uno stato d'animo e questo stato d'animo che la gente chiama letteratura e mancanza di logica è il fondo stesso della purezza”.
Le immagini con le quali vorremmo imbastire le nostre rappresentazioni sono il prodotto concreto della natura che vive in noi, perciò come scrive James Hillman, nel suo saggio su Pan: “ogni trasformazione delle immagini, incide sui modelli di comportamento, talché ciò che facciamo nella nostra immaginazione possiede rilevanza istintuale”.
Da questo punto di vista il pensiero artistico, analogo a quello magico, è propenso ad approfittare delle coincidenze fortuite e nega i fatti contraddittori: le prime gli si manifestano nella loro apparente immediatezza, i secondi bloccano la sua pulsione vitale.
Scriveva Paul Eluard: “Non c’è differenza, per l’uccello, tra il mago e l’uomo; non c’è differenza, per un’immagine, tra l’uomo e ciò che egli vede, tra la natura delle cose reali e la natura delle cose immaginate. Il valore è lo stesso, materia, movimento, bisogno, desiderio, sono inseparabili”.
Anche Marcel Mauss nella sua “Teoria generale della magia” affermava che le coincidenze fortuite sono scambiate per fatti normali, dimenticandosi però che questa tipologia del pensiero è tale proprio perché non considera mai nulla come normale.
Il normalizzare, il generalizzare e il loro corollario peggiore, l’assolutizzare, appartengono solo a quella norma comportamentale, religiosa prima, filosofica poi, resa possibile dall’accettazione dei principi di polarità astratta sopra descritti.
Polarità impossibile per il pensiero estetico fondato sul caso o su ciò che chiamiamo con questo nome; disse Braque: “è il casuale che ci rivela l’esistenza”.
Lo stesso Aristotele, nella sua Poetica, riconosce che “se la favola è l’insieme dei fatti, il pensiero è la sola dimostrazione di quei fatti”, dimenticandosi, però, che anche la dimostrazione è favola in quanto sistema agnitivo, segnico e istintuale, anche se si presenta nella nota forma del surrogato.
Intendiamo qui per istinto non solo quel segnale che attraverso il nostro corpo la natura ci fornisce per portarci testimonianza rilevante della sua esistenza, ma anche lo sforzo di trasformarlo in modello conoscitivo della realtà stessa.
Henry Miller, con il consueto sarcasmo, diceva: ” il malato di mente ha una potente ossessione per la logica e l'ordine, allo stesso modo dei francesi”, raccontando, in tal modo, la peculiarità istintualmente barbarica del popolo che cercò nella ragione una fragile difesa dalle proprie nevrosi.
Il disagio provato dall'uomo al cospetto dell'aporia del dubbio riduce la differenza fra il più complesso istinto astrattivo, che fa si che l'uomo selezioni gruppi di idee elaborate e i fenomeni che le resero possibili.
L'istinto che guida la più complessa fuga di Bach è analogo a quello che suggerisce all'uomo primitivo, alle prese con la nascita del linguaggio, di “scegliere dalla totalità del significato quelle parti che presentano, una all'altra la relazione più soddisfacente di mutua convenienza” (Lévi Strauss).
Lo stesso linguaggio umano, responsabile dell'illusione della separatezza, ha bisogno per articolarsi che ogni suo segno ne richieda un altro, riproducendo quel comportamento che lo antecede: la pratica mimetica della finzione.
Questa pratica viene alimentata principalmente dall'istinto della PAURA più semplice e meno culturale: evitare di morire.
Non morire per vivere la propria differenza e separatezza, che si sia agili gazzelle o vanitosi professori universitari.
Tale differenza agisce come comportamento volto alla resistenza contro analoghe forze ad essa contrarie, come accade in qualsiasi fenomeno sub-cellulare, dove, né la gazzella né il professore troverebbero spazio sufficiente per mettersi a piangere.
E' abbastanza naturale pensare che, come accade in parlamento e nelle assemblee di condominio, gli uomini, ma anche le gazzelle, abbiano trovato la maniera di accordarsi con le proprie e altrui PAURE, integrando forze diverse in modo che le differenze si assomiglino.
Da questa pratica adattiva dipese la nota polarità egoismo-altruismo, con tutte le conseguenze retoriche del caso.
La PAURA, quando la “differenza” non produceva crimini, fu una semplice guardiana delle leggi naturali, come le Erinni e le Gorgoni; si trasformò, in seguito, nella vendicatrice degli eccessi della coscienza mentitrice degli uomini.
Medusa rappresentò la vanagloriosa esaltazione dei desideri, Eurialo la perversione sessuale, Steno quella sociale.
Ritornando sull'idea di differenza, è interessante sapere quello che ne pensava Lévi Strauss, utile, se non altro, per limitare l'impudico desiderio dei razionalisti di invadere il teatro della sapienza estetica: “Se l'espressione ci è permessa, non sono le rassomiglianze, ma le differenze, che si assomigliano, con questo intendiamo che non ci sono, primo, anmali che si assomigliano, l'un l'altro (poiché tutti partecipano del comportamento animale) poi, antenati che si rassomigliano tra di loro (poiché tutti partecipano del comportamento ancestrale), ed infine, una rassomiglianza globale fra i due gruppi, ma da un lato esistono animali che differiscono tra di loro (poiché appartengono a specie distinte, ognuna delle quali ha propria apparenza fisica e proprio modo di vita) e, dall'altro, uomini, tra cui gli antenati formano un caso particolare, che differiscono anch'essi tra di loro (poiché sono distribuiti tra differenti segmenti della società, occupando ognuno una particolare posizione della struttura sociale). La rassomiglianza presupposta dalle rappresentazioni denominate totemiche, è tra questi due sistemi di differenze” (Lévi Strauss; Le Totémisme
aujourd'hui; 1962).
La rassomiglianza di gruppi di differenze, per la sua tremenda difficoltà d’essere raggiunta e per l'ambiguità della finta polarità egoismo-altruismo, deve aver suggerito all'uomo primitivo quel passaggio illusionistico, non privo però di un senso delle origini, che veste la rassomiglianza con i panni dell'alterità, dell'impossibile oltre, dove, secolo dopo secolo, dal totemico sistema di riferimento mimetico si è passati al raffinato politeismo sapienziale e, infine, alla divinizzazione dell'identità.
Fu a questo punto che la PAURA diventò, come disse Omero, veramente paurosa: “difatti una grande, attonita, atterrita reverenza per gli dei impedisce la voce”.
La voce, intesa come lingua, ha questo di bello: può creare l'assurdo logico ma poi non riesce a orientarsi, viene presa in giro dalle stesse forze che aveva creduto di scatenare con la sua tremenda furbizia da animale da preda, ed è per questo che abbiamo dato dei barbari ai francesi.
Si potrebbe scrivere un saggio di successo, cavalcando la rinascente moda per la Grecia, sull'aspetto panico e dionisiaco di tre quarti dei più noiosi fra i professori della Sorbonne. Scrisse Karl Kraus: “Che sono tutte le orge di Bacco al cospetto delle ebbrezze di colui che si abbandona serenamente alla continenza!”.
Ritornando ai nostri primitivi, sempre meno primitivi, per loro la PAURA del diverso divenne PAURA per l'identico; capovolsero il senso del linguaggio. Per la prima volta una trama di rovesciamenti prese il posto della metamorfosi biologica, nacque così, simultaneamente, l'idea del mistero e della sapienza intellegibile separata da tutte le cose.
Disse Strobeo: “Nessuno, fra tutti coloro le cui espressioni ho ascoltato, si è spinto sino a questo: riconoscere che la sapienza è separata da tutte le cose”.
Ma è anche a questo punto che la natura, abituata a ben altre battaglie, ingaggiò con la sua parte umana la lotta più aspra, facendo sentire la sua presenza totalizzante nel continuo straniamento di questa sua parte ribelle: impedì all'uomo la fuga e gli mise contro una sapienza divisa, una sapienza che contraddice se stessa.
La sapienza che la natura suggerì all'uomo, malgrado la sua proterva attitudine a mentire, nacque col ghigno del dolore ma visse con il sorriso della vita; trovò la forza di farsi sentire oltre gli stessi limiti del linguaggio, raddrizzando nella realtà quello che l'uomo tentò di capovolgere.
L'arbitrarietà del linguaggio e il suo sostanziale destino a tradire il suo inventore, giocò e gioca sempre dalla parte della natura, perché, nel suo fondo germinale, conserva il seme della realtà, quello strano fenomeno che ne rende possibile la finzione, la quale, a sua volta, per quanti si perda nelle sue più straordinarie peripezie, finirà sempre col ritrovarsi al punto di partenza.
Ed è forse per questo che la Paura, con tutte le sue varianti, ritorna a simulare l'istintualità primaria, si confonde con essa per riapparire in tutta la sua chiarezza magmatica, non in un oltre che l'annulli ma in un tutto che l'arricchisca.
Al mediocre gioco nevrotico della coincidenza dei contrari, la natura sostituisce la complementarietà dei diversi come in Euripide: “Dolci son per chi soffre le lacrime e i gemiti e i canti dolorosi”.
All'uomo è concesso non solo di capire ma anche di sentire l'impulso della vita. Gli è permesso di interloquire con se stesso, ovvero con la natura: altro che impossibilità metafisico-razionalista, buona solo per camuffare qualche imbroglio.
Sempre Euripide scrisse: “troppi sono, e sono sempre stati, e, haimé, saranno i miei dolori! Oh dei! Chiedo soccorso ad alleati sordi, tuttavia alquanto ci solleva, e invocarli, quando ci colgono le sciagure”
Gli alleati sordi di Euripide, i sogni, i titani che sanno sorridere dall'orrida e meravigliosa loro età dell'oro, ci parlano quando meno siamo difesi, come per quel fanciullo della terza elegia duinese di Rilke: “Così, rasserenato, nel suo letto,/ solvendo la dolcezza della tua lieve figura/ sotto le palpebre assonnate nel gusto del primo sonno - :/ pareva difeso... Ma dentro: chi contrastava,/ chi frenava in lui i greto/ di madri d’un tempo -; ma tutto/ il muto paesaggio sotto il Destino/ nuvo­loso o limpido -; questo, fanciulla, era prima di te. flutti dell’origine?/ Ah, non c’erano precauzioni quando dormiva: dormiva ma sognava, ma febbricitava: e come ci si prestava!/ Lui, il nuovo, il timido, com’era irretito/ dalle liane striscianti dell’intimo accadere:/ già aggrovigliate in archetipi, in strozzante rigoglio,/ in forme dallo slancio ferino. Come si abbandonava. Amava./ Amava il suo intimo, il selvame del suo intimo,/ quell’originaria foresta ch’era in lui, sulla cui muta rovina/ stava, verde luminoso, il suo cuore. Amava. Quando lasciava il suo cuore, andava/ oltre le proprie radici, alla potente scaturigine,/ dove la sua pic­cola nascita era già sopravvissuta./ Amando affondava nel sangue più an­tico, nelle forre dov’era la paura sazia ancora dei padri. E ogni/ orrore cono­sceva lui, ammiccava, era come d’intesa./ Sí, l’orrido sorrideva..., di rado/ hai sorriso così teneramente tu, mamma. E lui come faceva/ a non amarlo, se gli sorrideva. Prima di te/ l’aveva amato, perché già quando lo portavi,/ era sciolto nell’acqua che fa lieve il germoglio./ Vedi, noi non amiamo come i fiori, attingendo/ da un’annata soltanto; a noi, quando amiamo/ sale alle braccia un’immemorabile linfa. O fanciulla/ è così: noi non amiamo in  noi, un essere solo, futuro, ma/ l’immenso fermento; non un singolo figlio,/ ma i padri, che come frane di monte/ posano al fondo nostro, ma l’arido
Solo in un poeta straordinario come Rilke, la PAURA, l'istinto primario di tutta la vita, nonché della conoscenza, poteva rappresentarsi così meravigliosamente pacificata con se stessa, libera persino dall'irriverente tracotanza della finzione.
Ancora una volta solo un poeta riesce a disinibirsi totalmente, forse perché un poeta è il solo che non crede al proprio “io”, se ne fotte dell'autocoscienza, e, posseduto, possiede la forma, come in quei versi un po' scherzosi di Gioimi, poeta persiano del 1400: “E, se mi ferisce invidiosa lama d'accusa // e freccia d'ingiusto tormento, // sufficiente almeno m'è l'abbandono dell'io, // mi basta il nulla per scudo...”.
Versi scherzosi, quasi diabolici, perché quel nulla evocato assomiglia maledettamente al suo pretestuoso antagonista, alla visione dell'orrido magmatico che sorride al bambino di Rilke: Questo nulla ne è la rimozione, un’ipotetica e un po' cialtrona salvezza dal linguaggio, da parte di chi conosce il suo ambiguo mestiere: quello di giocare con le sostituzioni fino alle illusioni dei nomi, nomi che non esistono.
Si tratta, molto furbamente, di trarre beneficio da quella trama di rovesciamenti che garantisce una certa congruità con il reale, una contrizione limitativa del sistema di riferimento, l'evento originale di qualsiasi postuma contrizione, di natura metafisica o epistemologica - ma, forse, non di quella misterica proferita su Caino - la quale esce dai limiti qualitativi e quantitativi del linguaggio, dubitando di qualsivoglia relazione, espressa nella Bibbia come “Alleanza”: durissima prova per la furbizia (o la sapienza) di Abramo.
Solo una contrizione senza più un sistema di riferimento, senza alcuna speranza e senza alcuna fede in una possibile grazia è, come fa dire a Faust Tomas Mann, “degna di redenzione”; ed è per questo che Abramo farà proferire al suo Dio le tremende parole: “chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte”. Frase che apre la strada dell'interpretazione teologica intorno alla figura del nemico, del diverso, frase che conduce, con il cristiano “ama il tuo nemico”, a un nuova visione del mondo.
La rimozione della differenza con l'unità non impedisce ad Abramo di far parlare dentro di sé l'istinto primario della PAURA con la quale è obbligato a rivestire il suo perfetto Dio. La restaurazione della “differenza” come processo conoscitivo d'amore, consente invece, e poi, al Nazzareno di impedire agli uomini questa sofisticata idolatria, questa blasfema arte della fuga nella impossibile mascalzonata dei nomi.
Nell'amare il diverso ci si rende conto che non tutta la potenza della mente sta nel limitarsi, perché, o prima o dopo, questa egocentrica stitichezza verrà sopraffatta dalla liberatoria e cacatoria torrenzialità della natura.
Non si tratta solamente di una conoscenza o della sua mutazione, si tratta della complementarietà dell'autocoscienza con le leggi della natura.
La natura non si accontenta della modificazione del preesistente, esige la comparsa del nuovo, del diverso come scrive il biologo Grassè: “l'evoluzione creatrice non si esplica soltanto mediante la modificazione dei geni preesistenti, ma esige la genesi di nuovi geni”...”il DNA isolato non può nulla perché l'organismo è sempre un tutto, ha bisogno di reagire con l'esterno, la sua vita è una continua lotta contro l'entropia”.
Eppure, piuttosto di farsi trascinare dalla creazione, l'uomo è capace di inventarsi di tutto, fino all'ammirazione di un se stesso così irreale che, come ci suggerisce sempre Mann: “lo potrebbe far rinunciare perfino a ogni ammirazione esteriore, ad ogni ammirazione altrui...” provando “...i brividi della venerazione per se stesso, anzi del delizioso orrore di se stesso, per cui egli si ritiene un portavoce privilegiato, quasi un mostro divino. E intanto si scende  altrettanto in basso, onorevolmente in basso, non solo nel vuoto e nel deserto e nella tristezza impotente, ma anche nel dolore e nel malessere ... dolori del resto familiari, che ci sono sempre stati, che fanno parte della costituzione, salvo che sono molto onorevolmente rafforzati dalla illuminazione e dalla nota sbornia” sbornia fatta di “ esaltazioni e illuminazioni, esperienze di libertà scatenata, di sicurezza, di leggerezza, di tale potenza e trionfo che il nostro uomo non crede ai propri sensi”...”Sono dolori che si accettano con piacere e con orgoglio in cambio degli enormi godimenti, dolori ben noti dalle fiabe, quei dolori che provava la sirenetta, trafitture inferte alle sue belle gambe umane, quando le acquistò al posto della coda. (Thomas Mann; Doctor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico, Milano, Mondadori,1996, p. 267)
C'è in queste poche righe la sintesi diabolica di un intero secolo malato di un solipsismo mai visto prima; qualcosa di più della troppo facile “distruzione della ragione” e qualcosa di meno della grande epica romantica di un Baudelaire: lo schifoso non relazionato, il doloroso stronzo, che, per il solo fatto di non uscire, crede d'essere una gemma di recondito valore, un cielo dove non potrebbe volare neanche un'anatra, altro che angeli ciechi, invasamenti apollinei, lucidità dionisiache.
Si tratta solo d'imperdonabile stitichezza, di un inferno di cartapesta come quello del più lamentoso e scomposto degli scrittori, mitizzato da un gusto psicologista a oltranza, Antonin Artaud: “Quando mi penso, il mio pensiero si cerca nell'etere di un nuovo spazio. Sono sulla luna come altri sono sul loro balcone. Partecipo della gravitazione planetaria nelle fenditure del mio spirito. La vita si svolgerà, gli avvenimenti si snoderanno, i confini spirituali, si risolveranno, e io non vi parteciperò. Non m'aspetto niente né dal lato fisico né dal lato morale. Per me c'è il dolore perpetuo e l'ombra, la notte dell'anima, e non ho voce per gridare. Dilapidate le vostre ricchezze lontano da questo corpo insensibile a cui non importa di nessuna stagione spirituale o sensuale. Ho scelto il dominio del dolore e dell'ombra come altri l'irradiarsi e l'ammassarsi della materia. Non opero nell'estensione d'un dominio qualsiasi. Opero nell'unica durata”
Tutta questa stitichezza, investita da un inevitabile “io”, al quale non si pone rimedio del tutto, per non cadere nelle morbosità mortuarie del buddismo formato occidentale, ce la portiamo addosso corporalizzando nel linguaggio tutte quelle forze, interne ed esterne, che consideriamo avverse: svalutando le regioni basse del nostro corpo a favore di quelle alte, diamo del coglione al saggio e viceversa.
Otteniamo così, come scrive Jarry:”il minimo di comprensione opposto al massimo di cerebralità, dalla realtà del consenso universale all'allucinazione intelligente”.
Non c'è da meravigliarsi se la natura ogni tanto si prende le sue rivincite nella maniera più sadica, come quando fa scalare il cervello, il nostro Olimpo personale, da quelle schifose spirochete, che, una volta raggiunto l'obiettivo, suggeriscono a tanti insensati Ludwig, castelli in Baviera abitati da cigni ed esaltazioni Wagneriane.
Rivincita inesorabile anche quando si esagera con il mitizzare la leggerezza per trovare l'ennesima scappatoia.
Alla fine, anche il comportamento ispirato alla più ineffabile leggerezza del vivere dovrà fare i conti con qualche gratuita rimozione, con qualche morbosità che, prima o poi, presenterà il suo conto: la sua piacevolezza eufonica tenderà a inabissarsi, lasciando un “gallo gracchiante in repertorio” (Karl Krauss).
Questo gallo, ancor più infido delle spirochete, non potendo farsi sentire nell'encefalo, per mancanza di ricettori sensitivi localizzati, finirà molto presto per scendere, utilizzando quelle stesse vie omeostatiche per le quali le disgraziate erano salite.
La leggerezza è spesso così inautentica, che non può pretendere che in essa l'autentico non si esalti, finendo, magari, col perforare un’ulcera…
Con la leggerezza si finisce come il famoso dente di Boris Vian, uno dei poeti più ironicamente “leggeri” della rivolta antinichilista e antiromantica degli chansoniers francesi:

 “ La vie, c’est comme une dent // D’abord on y a pas pensé // On s’est contenté de mâcher // Et puis ça se gâte soudain // Ça vous fait mal, et on y tient // Et on la soigne et les soucis // Et pour qu’on soit vraiment guéri // Il faut vous l’arracher, la vie.
(La vita, è come un dente // All’inizio non ci si pensa // Felici di masticare // Ma poi ecco che d’improvviso si guasta // Fa male, e preoccupati // Lo si cura non senza fastidi // E per essere veramente guariti, // Bisogna strapparlo, la vita…”)

Nel collocare la leggerezza fra le “tentazioni” più marciscenti e più dolorose dell'individualismo, Thomas Mann scrive una pagina decisamente extra-epocale, ponendosi, novello Epicuro, in una posizione di chiarezza metastorica, in quello spazio nel quale l'acume critico viene travalicato da un sapere che ne smussa gli angoli contingenti, a favore di una completezza degna dello spessore culturale che i nostri padri chiamavano humanitas.
Giustamente Alessandro Masi, scrive che: “per gli artisti del Novecento il tema della leggerezza non è un compito ma una condizione d'esistenza, è un antica sfida sulla materia e sui luoghi del martirio. L'artista è così angelo-mostro e nel contempo vive le altitudini, chiedendo al mondo di compiangerlo, ma aborrisce la materia cercando di salvarla. Il suo profilo è un contraddittorio storico”.
Sembra di sentire Paul Valery: “Io non sono ne angelo ne bestia, ma se fossi un angelo desidererei profondamente essere una bestia e viceversa”.
Ci si può chiedere perché il Novecento non sia riuscito quasi mai a reagire a questa predisposizione alla fuga “non importa dove fuori dal mondo” come per il titolo del quadro del 1919 di Marc Chagal.
Inutile evocare la brutalità di due guerre mondiali, utile forse chiedersi se queste stragi siano state rese possibili da una generale resistenza a valori nuovi, incomprensibili con argomenti vecchi.
Purtroppo, come ricorda Roberto Bazlen nelle sue paradossali Note senza Testo: “il nemico peggiore è il nemico che ha i nostri argomenti”.
E gli argomenti utilizzati da Marx per descrivere l'alienazione, “l'estraniarsi da sé che il capitalismo rappresenta per l'uomo, sono gli stessi di Kierkegaard contro l'estraniarsi da sé che la cristianità rappresenta per il cristiano” (K. Lowith).
Non potendo più accettare come credibile il sistema mimetico di riferimento di un sapere filosofico-religioso, che portasse a livello di metalinguaggio le rappresentazioni soggettive, sia nella forma simbolica delle raffigurazioni mitologiche sia in quella alchemica dell'emulazione della natura, l'uomo non trova di meglio che trasformare l'istinto della paura in fuga dalla disgregazione, in negazione, pura e semplice, della simultaneità dell'esistente fra un dentro di sé e un fuori di sé.
Egli, come nota Maurizio Calvesi è portato a “sublimare la propria specularità”, a camuffare eroicamente, ancora una volta, il proprio naturale collassamento entropico in chissà quale meraviglioso volo luciferino, reso possibile dalla finta e mascalzona oggettività della morte.
Questo bamboleggiarsi con il non essere, vecchia e in un certo senso simpatica trovata che, come in  Schopenhauer, aveva in fondo generato qualche innocua contemplazione estetica, finirà, con Heidegger, nel trasformarsi addirittura in autentica disperazione, in assoluta precarietà solipsistica, pronta ad accogliere un ennesimo capovolgimento dei valori dell'esistente, fino al punto raccapricciante in cui, come lui stesso afferma, “l'esistenza significa permanenz
 nel nulla”.
Ed è fin troppo facile, a questo punto, descrivere lo “stimmung”, lo stato d'animo, non come un’emergenza istintuale che ci riporti alla comprensione sempre più chiara dell'oggettività della natura, ma come “ carattere ontologico dell'esistenza, oscuro nella sua origine e nel suo destino”, capace di far nascere una coscienza morale quale “richiamo dell'inquietudine, della situazione penosa dell'essere nel mondo, che richiama l'esistenza al suo più proprio poter essere colpevole”.
Questo essere colpevoli, o come dice Masi, questo ritornare “nel luogo del martirio”, farà intendere o meglio fraintendere “la propria esistenza nella penosa situazione del suo isolamento”, quella situazione che sembra fatta apposta per accogliere la risolutezza hitleriana che pur lasciando “l'irresolutezza del si impersonale” la sa avversare con “l'esistenza risoluta”.
La brutalità di questi ragionamenti è resa ancora più insensata perché in Heidegger non troviamo, come invece e per esempio in Giovanni Gentile, unitamente alla distruttività insita nel pensiero dialettico-metafisico quegli elementi estrapolati dal pensiero umanistico-cristiano che ne attenuano l'elemento nichilistico.
Per Gentile, l'uomo naturale viene chiamato sub-umano e la sua lotta per liberarsi dalla schiavitù della materia dovrà tendere a “ trasfigurarlo nella luce che è propria del mondo della libertà”, egli sentirà “l'immanenza dello spirito” attraverso l'acquisizione dei valori religiosi che fanno “la serietà morale di ogni uomo”.
Questa religiosità, per Gentile: “aggiunge all'obbligazione morale il sigillo di quell'assolutezza che è un limite della libertà, e che nasce dall'immediatezza dello spirito che il ritmo della sintesi spirituale deve negare e superare, ma non può non incontrare come limite appunto da negare e superare: limite eterno, che fiacca eternamente l'arbitrio del soggetto nella libera posizione di se medesimo”.
Questo limite per noi italiani è una specie di garanzia, la coglioneria nazionale é impedita a spingersi più avanti di una sana vita parrocchiale o di un paesano mito della personalità.
Il comico di tale lugubre notte della decadenza, che a forza di decadere bisogna che prima o poi sappia mostrarci il suo giacere, sta nel fatto che pur non essendo ineluttabile è stata ritenuta tale dallo scorso, infelice e ripetitivo secolo.
Che “l'esistenza risoluta” divenga, in pittura, la paesana vitalità del primo Picasso, temperata dalla potenza di un significante indotto dai suoi geniali furti ispirati a El Greco, Velasquez, Gauguin, Goya, alla Grecia e all’Africa, o che rimastichi il bell’effetto manierista che un enigma classicista fa sempre a un popolo di balilla (tutto preso da eroici furori per potersi dimenticare delle sue scarpe di cartone, come in certi quadri di Giorgio De Chirico) o che tenti il più sciocco e malato degli azzeramenti come nell’irrazionale razionalismo di Mondrian, il risultato sarà sempre lo stesso: impedire che l’uomo rifondi su basi chiare, tendenzialmente oggettive, il suo sentirsi partecipe di una civiltà evoluta.
In questa particolare prospettiva vissero l’indigesto ritorno all’ordine e la presuntuosa oggettività marxista, ma non Picasso che seppe salvarsi nell’epica di Guernica, in quella frase detta a un ufficiale tedesco: “questo quadro fu dipinto da voi”.
Frase lontana dal pietismo fin de siecle dei suoi quadri blu e rosa, frase non retorica perché non capace, neppure per un attimo, di concepire la realtà come qualcosa di estrinseco, di nebuloso, bensì piuttosto come una singolarità, zavorrata dall’esperienza dell’humanitas e dalle sue esigenze.
In quella frase e in quel quadro, l’intelligenza soggettiva seppe riallacciarsi a valori morali necessari, riabilitando quel “si” impersonale che Heidegger avrebbe voluto soffocare per onorare un’affettata logica: ingenua mascherata della solita barbara saga del terrore.
La manipolazione della paura è difficile; è possibile invece che essa si faccia pagare la nostra incongrua tracotanza, senza che poi, a nostro maggiore scorno, ci permetta d’incolparla di alcunché.
La paura, emergendo, diviene campo segnico, rendendo possibile il visibile là dove non possiamo che indagare nella sua invisibilità; essa ci indica una strada sicura dove è auspicabile non sentirsi sicuri, perché anche la sicurezza è una forma di superstizione e di aberrazione: il peggior atto blasfemo come ci insegna la contrizione di Caino.
Il farsi possedere lucidamente dall’insicurezza, accogliendo la tradizione più consistente dell’humanitas, permanendo in una tradizione senza mai essere tradizionalisti, ci consente di accorgerci come lo stesso Rilke sappia contraddire se stesso.
Rilke non riuscendo a opporre alla latenza dell’essere “invisibile e sinistro” se non la centralità di un rito dei padri, si colloca esattamente in uno stato contrario a quello della volitiva “esistenza risoluta” di Heidegger”.

“Rilke muore della propria morte non come Artaud nell’ingigantimento del mito sadiano, ma perché: quella morte gli è stata trasmessa, insieme con la vita, dai padri; ed è la morte sua, che gli giunge nel sangue della sua stirpe e che si completa con la sua vita, come le due metà simmetriche di un frutto” (Furio Jesi).

Ed è così che una visione del mondo, nata nell’individualismo più sconveniente, si risolve, malgrado fosche premesse, in un rispettoso ed etico dissolvimento del limite, nell’accettazione equilibrata della propria singolarità personale, della morte individuale capace di chiarire che sentire è svanire:

 “Ma per noi, sentire è svanire; oh, noi // ci esaliamo, sfumiamo, di brace in brace // buttiamo odore più lieve” (Rilke).

Tutto ciò non per fare della disperazione il fulcro di una pseudo utilitaristica “volontà di potenza”, ma per poter trapassare in nuove forme di vita

“come tutto ciò che è nella sua stessa natura. Il suo divenire impossibile in una determinata epoca non è che un’apparenza; esso ha in se medesimo le forze, grazie alle quali, dopo ogni profanazione, torna a santificarsi” (Tomas Mann).
Straordinario è come Tomas Mann sostituisca profanazione a errore e santificazione a verità, dopo averli fatti annunciare da una terminologia squisitamente scientifica, estrapolata da un biologismo naturalista di sapore goetiano.
Non si tratta comunque di un rovesciamento gratuito, perché il continuum scientifico permane nell’ovvietà strutturale del discorso che, presupponendo una necessità morfologica non uniforme, se la ride di eventuali condizionamenti assiomatici.
La contraddizione nichilista rilkiana esce dal simbolo irrazionale dell’angelo cieco, che infatti nella decima elegia udinese scompare, spinta dalla stessa necessità: quel meccanismo vitale, non rilevabile dal semplice principio di causalità ma capace di contenere la polisensità del linguaggio simbolico, di un linguaggio che non può far altro che “santificarsi” in qualche modo con essa.
La natura, ancora una volta, fa capolino per impedirci la fuga, obbligandoci a “santificare” le nostre farsesche incongruità nella sua fondamentale congruità.
La “necessità” stessa viene strappata dal campo metafisico, nel quale tenderà sempre a confondersi con l’utilità, per ritornare a collegarsi alla sua più intima genesi che è quella di nascere da “un disturbo anatomico o funzionale conseguente a una rottura dell’equilibrio fisiologico o anatomico tra essere vivente e il suo ambiente” (P. Grassé).
Ha proprio ragione Euripide: “le nostre più grandi agitazioni hanno impulsi e cause ridicole”.
Il povero Rilke, e con lui un’intera generazione, a forza d’ascoltare lo strepitum dell’avaro Acheronte, per calmare un bisogno del tutto panico, e in fin dei conti non molto spirituale, ha finito con il rallegrare noi, esaudendo il nostro bisogno lucreziano che è quello di un Virgilio un po’ copione: “qui potuti rerum conoscere causas”.
Le cause delle cose non della “profanazione” idolatra delle cose, anche quella che veste i panni del dogmatismo relativista, fatto apposta per non pagare il dazio, non un’etica del provvisorio, ma, come suggeriva Wittgenstein, un’epica dell’ascolto: “non temere mai di dire cose insensate ma ascoltale bene, quando le dici”.
A conclusione di questo capitolo dedicato alla farsa della paura, presente in tutte le epoche ma totalmente invasiva nella nostra, riportiamo lo scritto di uno degli uomini più coraggiosi, che nel 1924 aveva saputo, con invidiabile chiarezza, “santificare” la cultura della nostra epoca: Pietro Gobetti. “Di scoperte metafisiche, di relativismo, di arte applicata ai grandi problemi è rimasto, appena il ricordo. La generazione che ci precedette combatté allora l'ultima battaglia della sua passione romantica.
Cercò la salvezza nelle conversioni, nei programmi neoclassici, negli appelli spirituali, con giovanile innocenza, come l'aveva cercata prima del futurismo nell'idealismo attuale, nelle cento religioni che venivano dai profeti d'oltralpe, nella guerra.
Tutte quelle formule erano espedienti, fatti personali, classicismo senza classici, misticismo senza rinunce, conversioni crepuscolari. Era naturale che gli uomini che nel relativismo avevano cercato l'epica del provvisorio venissero così a perdere nelle crisi individuali il senso dei valori più semplici di civiltà e di illuminismo e rinunciassero anche alla difesa della letteratura insidiata e minacciata dalla politica.
Le confuse aspettazioni e i messianismi di questa generazione dei programmi, che per aver messo in forse si trovava a dar valore di scoperte anche alle più umili faccende quotidiane,  preparavano dunque l'atmosfera di una nuova invasione di barbari, a consacrare la decadenza.
Anzi i letterati stessi, usi agli estri del futurismo e del medievalismo dannunziano, trasportarono la letteratura agli uffizi di reggitrice di stati e per vendicare le proprie avventurose inquietudini ci diedero una barbarie priva anche di innocenza.
Con la loro audacia spavalda con cui erano stati guerrieri in tempo di pace, vestirono abiti di corte, felici di plaudire al successo e di cantare le arti di chi regna.
(da il Baretti).
Ecco un vero angelo -  non cieco -  di ventun anni, nel primo anno dell'era fascista, volare nei cieli della paura, che avrebbe terrorizzato, come non mai, il mondo intero.


ABITUDINE (Sesto Capitolo)


“Dalle regole generali non si può decidere nulla, neppure da quelle che espongono eccezioni” (Testi Halakic - Talmud)

“Così copiando i mutamenti cosmici la mia casa diventa un universo” ( Lu Yun: IV secolo D.C.)

“Are You groping Your way? // Do You do it unknowing? // Or mark Your wind blowing? // Night tell You from day, // O Mover? Come, say!’ // Cried Xenophanes.” (T. Hardy)

(“Ti muovi a tentoni? Lo fai inconsapevolmente” // O noti il tuo vento che soffia ? // Distingui la notte dal giorno, // O animatore? Su dimmi!! // Gridò Xenophanes.”)

“Tornare agli abissi profondi dove quel che è esistito giace ignoto” (M. Proust)

“La conoscenza impone una trama e falsifica e ogni momento è nuovo e sconcertante” (T. S. Eliot)
“La procrastinazione è una formula fondamentale dell'edificio della nostra vita” (R. Musil)
Fra tutte le abitudini, care o deprecabili, caste o pervertite, sensuali o filosofiche, l'unica che veramente può dirsi tale è quella che le condiziona tutte: l'abitudine a non abituarsi.
Scriveva Sant’Agostino: “Ecce illa discedunt ut alia succedunt” (Qui ecco, ogni cosa dilegua per far posto ad altre).
Questo bel regalo di natura ci impedisce di prendere troppo sul serio la tendenza a trascendere il nostro pensiero, finendo in quei goffi voli che fanno la fortuna della cattiva poesia, quella che agli angeli potrebbe sembrare uno starnazzamento indecoroso di quattro polli che si siano messi in testa di fingere il volo del condor.
Come tutte le immagini opportunistiche che l'uomo si costruisce per autoglorificare in sé quei segnali reafferenti rielaborati dal cervello, anche l'abitudine, come la paura, tende in lui a cambiare volto. A farsi espressione mutevole e contraddittoria: “ut cumque video, sed quomodo id eloquar nescio” (“io vedo in qualche modo, ma non so come esprimerlo”) (Sant’Agostino).
Abbiamo visto, nel primo capitolo, come un modulo comportamentale - quello che rende possibile la finzione - abbia creato un insieme di segnali capaci di concatenarsi indipendentemente dal legame fattuale che li aveva creati, e abbiamo visto come, subito, quei nostri concettuali predecessori trovassero conveniente approfittarne.
Uno stimolo astrattivo, per poter dar luogo a una concatenazione indipendente dalla causalità dei fenomeni esterni alla sua realtà neuronica, deve essere in grado di sostituire a un unico fenomeno fattuale - subito verificabile - più fenomeni diversi, che presentino fra di loro almeno una relazione della quale ci si possa fare un'immagine causale.
Questa immagine, per non collassare su se stessa, per non cadere in quell'aporia del dubbio della quale si è più volte parlato, diverrà funzionale solo se saprà porsi come sistema armonico equipotenziale, nel quale la variabilità si ripeta, più o meno, sempre nello stesso modo, tale da apparirci come un'invarianza.
Tale immagine pagherà lo scotto alla costanza: quel meccanismo con il quale la natura scandisce sempre un tempo possibile anche quando l'uomo vorrebbe trasformarla in una meno corruttibile ripetizione, virtualmente scandita in un tempo irreale.
Eppure, il gioco d'azzardo con tale realtà, a ben vedere, è l'unico vero concetto astratto che differenzia l'uomo dal rimanente mondo animale, o almeno così crede lui, senza aver fino a ora mai intrapreso con gli animali delle discussioni serie su questo argomento!
Dal primo totem, nel quale ha esteriorizzato un concetto astratto, che come scrive Freyer “gli è stato insuflato nell'attimo in cui è stato fatto, che in esso è divenuto fenomeno oggettivo e che ora sussiste in quanto tale”, alla messa in opera di una macchina cibernetica, alla più scimmiesca, ma sempre umana, ripetitività di certa arte concettuale, l'uomo utilizza quella pratica mentale, resa possibile dallo svincolamento dell'oggettualità concettuale da qualsiasi uso immediatamente pratico e dalle leggi del logoramento spazio temporale.
Musil fa dire al suo turbato giovane Törless, alle prese con i numeri immaginari:

“..cosa strana è appunto che in quei valori immaginari o in qualche modo impossibili si possano tuttavia compiere le ordinarie operazioni e alla fine ottenere un risultato tangibile”.

Potrebbe essere divertente prendere un qualsiasi testo logico - con la selvaggia pretesa d'occuparsi dei principia - come fosse una tana sicura o una torre d'attacco, per accorgersi che più questa pratica mentale è in esso elusa, più questo testo è costruito sulla sua latenza, dando ragione a quella fulminante battuta proustiana per la quale “è l'istinto ha dettare il dovere e l'intelligenza a fornire i pretesti per eluderlo”.
Prendiamo come esempio la famosa definizione di sillogismo di Aristotele - che per vie traverse provocò al Galilei qualche ulcera di troppo - e ritraduciamolo per i nostri infimi e antiscolastici scopi:

SILLOGISMO= ciò che mi faceva soffrire prima che lo risolvessi E' UN DISCORSO= era il possesso di una pulsione reafferente, di una risonanza dentro di me che mi si rendeva in parte manifesta nella lingua con la quale fin da bambino ero uso parlare IN CUI POSTI ALCUNI DATI= che mi dava l'illusione di poter dividere alcune parole o immagini da essa provocate SEGUE DI NECESSITA' QUALCOS'ALTRO, DISTINTO DA ESSI PER IL SOLO FATTO CHE QUESTI SONO STATI DATI= quest'illusione era ancora più incomprensibile in quanto le immagini che io dividevo, per i porci comodi miei, perché mi era utile,  generavano immagini completamente diverse da quei miei bisogni, eppure in qualche modo utili a essi E CON L'ESPRESSIONE “PER IL FATTO CHE QUESTI SONO STATI POSTI” INTENDO= con il dire” immagini completamente diverse da quei miei bisogni, eppure in qualche modo utili” intendo IL CONSEGUIRE IN FORZA DI ESSI= che con esse io potevo conseguire, anche se mi sembrava del tutto incomprensibile... E ULTERIORAMENTE CON L’ESPRESSIONE “ CONSEGUIRE IN FORZA DI ESSI” INTENDO NON AVER BISOGNO DI ALCUN TERMINE ESTRANEO IN AGGIUNTA= solo per la forza di esse, senza bisogno di ulteriori giustificazioni esterne che mi dessero ragione, che scatenassero in me quel meccanismo del premio con il quale nasce quasi tutto il pensiero esplicito degli uomini PERCHE’ ABBIA LUOGO LA NECESSITA'= io potevo fare indipendentemente i miei porci comodi senza dovere niente a nessuno, rendendo questo giocattolo o quest’arma
pesante, secondo i gusti, assolutamente necessaria.
Con queste premesse, non c'è da meravigliarsi se Aristotele finisca con l'aprire una strada così pericolosamente attigua al pensiero dell'arte, alla finzione come sapere estetico: la stessa che in questo libro ci sta tanto a cuore,
Quando, come lui dice

“il principio del discorso razionale non è un discorso ma qualcosa di più forte” finisce con il rifugiarsi nelle nebulosità deistiche, nelle estasi oniriche, nella follia dei temperamenti malinconici: "Chi mai, al fuori di un dio, potrà essere più forte sia della scienza sia dell'intuizione? L'eccellenza, difatti, è strumento dell'intuizione, per questo, al dire degli antichi, fortunati si chiamano coloro che riescono, ovunque si slancino, senza possedere razionalità, e a loro non conviene prendere decisioni. Possiedono infatti un principio la cui natura è più forte dell'intuizione e della deliberazione. Altri possiedono il discorso razionale, ma non hanno il principio suddetto. E i primi possiedono lo stato entusiastico, ma non sono capaci di cogliere il resto. Essendo privi di razionalità, difatti colgono nel segno.
E l'arte divinatoria di questi sagaci e sapienti dev'essere rapida, soltanto non venir assunta dal discorso razionale; piuttosto, tra questi ultimi alcuni si servono dell'esperienza, altri anzi dell'assiduità della contemplazione. Ma tali qualità appartengono al dio. Il dio vede distintamente tutto ciò, il futuro e ciò che è, e le cose da cui questo discorso razionale si distacca. Perciò le vedono i melanconici e quelli che sognano il vero. Pare infatti che il principio sia più forte del discorso razionale."
(Aristotele, Etica Eudemia 1248 a 26-bl, citata da Giorgio Colli in “La Sapienza Greca).

Non "PARE", caro Aristotele, (essere platonico che i neo platonici disconoscono), il principio "È" più forte, così forte da essere l'unico, come il tuo predecessore Omero ben sapeva. Ed è ancora più forte quando genera errori, divisioni, fughe, razionalismi e determinismi alla rovescia, perché in essi l'invisibile - da rendere visibile - è compito più emozionante che vaneggiare sulla malinconia e sul sogno: basse materie mediche, quasi chirurgiche.
Come è risaputo, i vizi di forma del ragionamento sillogistico sono stati ampiamente emendati dalla logica, ma purtroppo, la cattiva ABITUDINE che quel ragionamento ha creato nel senso comune, continua a mietere vittime nella circolarità delle finzioni comunicative, che determinano non la comprensibilità dei linguaggi ma la loro subdola utilità metalinguistica.
Se qualche volta conservare le ambiguità generate dalle strutture astrattive può, sotto la spinta di una potente necessità fattuale, essere anche utile, come nel caso dell'intuizione, altre volte quest'ambiguità, creando una serie di pseudo concetti, può finire con il determinare una specie di superstizione bigotta, che precipiterà l'uomo in quegli immondezzai barbarici dai quali ha fatto tanta fatica a uscire: lasciamo alla finzione la prerogativa di fornirci delle fresche ambiguità, meno gliene chiederemo più ce ne regalerà.
Questo esagerare con il fingere la finzione, per poter continuare a giocare con l'arte della fuga, porta a creare quell'immagine cinestetica conosciuta come autocoscienza, immagine difficile da digerire dal più lucido degli assassini come dal più sapiente dei santi.
E' incredibilmente poetica la descrizione di Sant Agostino dell'incontro con la sua coscienza: “et venerat dies, quo nudarer mihi et increparet in me coscientia mea” quell'increparet, screpitare, è intraducibile se non si pensa all'uso che ne fa Virgilio, quando lo mette in relazione al minaccioso avvicinarsi di una bufera (“saevas increpat aura minas”) o Properzio: “tuba terribilum sanitum increpuit”.
Sia il vento che fa screpitare fiere minacce, sia la tromba, il suo squillo tremendo, ci fanno sentire in realtà una risonanza, un ritorno di suono più che un'espressione di esso.
Nell'immagine di Sant'Agostino, la coscienza non osa porsi come autocoscienza, essa si presenta come un qualcosa di “nudo”, astratto, che fa risuonare dentro se stessa quell'intricato mondo psichico, le cui ramificazioni si sperdono sino al mondo dei silenzi inorganici.
L'inferenza che qui ci si manifesta poggia su un sistema già algoritmico; l'insieme denotato da Sant'Agostino, con il porsi davanti a se stesso non vestito da nessuna referenza (nudo), crea il presupposto relazionale con la risonanza fattuale.
Divertente è notare come Sant'Agostino, in questo suo linguaggio poetico, tradisca l'impianto deduttivo per trovarsi nel bel mezzo di un'inferenza induttiva, nella quale “invece di permettere di asserire una conclusione vera, quale conseguenza di un insieme di premesse vere, permette di asserire una conclusione corroborata in una certa misura dall'insieme delle premesse date” (A. Pasquinelli).
Inferenza descritta da Musil come: “la condizione in cui non si è capaci di nessun altro moto dello spirito se non quello morale, l'unico dunque in cui sia una morale senza interruzione, anche se consiste soltanto in questo: che tutte le azioni vi galleggiano senza forme”.
E' questo il modulo comportamentale di chi sa ascoltare, di chi non s'impedisce di vivere.
Non oltre la distinzione tra soggetto e oggetto, bensì all'interno del loro rapporto biunivoco, avviene l'uniformazione non separativa con le mutazioni espansive del cosmo.
In questo spazio, nel quale il funzionamento bioritmico del cervello coordina immagini che immaginano se stesse, nel lento modificarsi fra stati intensivi, - relativamente invarianti - e stati espansivi - relativamente mutanti -, la costanza occupa la posizione della nudità.
Questa nudità, impossibilitata a essere il nulla, è portata per sua natura a forzare i confini che la pongono asimmetricamente in un centro che non è un centro.
Nudità spinta ad accelerare o decelerare per poter creare il suo vestito, che, probabilmente, assomiglierà sempre a quello confezionato da Einstein: cucito da un sarto che si muove nello spazio a una velocità inferiore a quella della luce.
Questo sarto, che Aristotele avrebbe avuto difficoltà a collocare nelle sue troppo strette categorie, come tutti i sarti ci tiene alle tradizioni, tanto che si fa vanto in ogni dove d'usare il valore costante della luce (c=300000Km/sec), come sua universale griffe: elegante trovata per piacere anche ai neo-platonici.
La facitura di quei vestiti, così importanti per l'aspetto drammatico del nostro teatro, oltre a misurarsi sulle “modificazioni teleonomiche di quei meccanismi fisiologici la cui funzione è il comportamento” (K. Lorenz), dovrà fare esercizio di stile non offrendo gli usi ritenuti necessari, ma, non appesantendo con orpelli desueti il corpo nudo dell'apprendimento, dovrà saper fornire leggiadria, seduzione e, infine, meraviglia.
La meraviglia, da sempre invidiata da filosofi e scienziati, riveste nel nostro teatro la massima importanza come ebbe a dire il più blasonato dei sarti:

 “Per me non c’è dubbio che il nostro pensiero proceda in massima parte senza far uso di segni (parole), e anzi assai spesso inconsapevolmente. Come può accadere, altrimenti, che noi ci “meravigliamo” di certe esperienze in modo così spontaneo?
Questa “meraviglia “ si manifesta quando un’esperienza entra in conflitto con un mondo di concetti già sufficientemente stabile in noi.
Ogniqualvolta sperimentiamo in modo aspro e intenso un simile conflitto, il nostro mondo intellettuale reagisce in modo decisivo.
Lo sviluppo di questo mondo intellettuale è in un certo senso una continua fuga dalla “meraviglia”.
Provai una meraviglia di questo genere all’età di 4 o 5 anni, quando mio padre mi mostrò una bussola.
Il fatto che quell’ago si comportasse in quel certo modo non si accordava assolutamente con la natura dei fenomeni che potevano trovar posto nel mio mondo concettuale di allora, tutto basato sull’esperienza diretta del “toccare”.
Ricordo ancora – o almeno mi sembra di ricordare – che questa esperienza mi fece un’impressione durevole e profonda. DIETRO ALLE COSE DOVEVA ESSERCI UN CHE DI PROFONDAMENTE NASCOSTO.” (A. Einstein)

Ed è probabile che la meraviglia abbia recitato la sua parte quando l'uomo tentò di fingere la finzione, in quel teatro, in quel luogo, in quella rappresentazione, egli deve essere stato preso per incantamento, come su di una mancanza si dev'essere dimenticato del fine, della conseguenza, del precedente, deve aver rimosso quell'abitudine deterministica, che ancora lo opprime, per ritrovarsi simbolicamente nel processo dell'apprendimento stesso.
Questa meraviglia scrive Giacomo Marramao: “si manifesta attraverso un urto, un conflitto fondamentale che è alla base non solo di ogni necessità ma soprattutto di ogni autentico salto di qualità della conoscenza del reale, attraverso il conflitto che oppone l'esperienza”, ed è di nuovo Einstein che parla di “un mondo di concetti già sufficientemente stabili in noi”.
Ma con la meraviglia, come con il dubbio e come con la paura, non si deve giocare a scacchi; al massimo, si può tentare di ripeterla, fino al giorno nel quale, logorata dall'abitudine, coperta di fischi, dovrà rinunciare alla grande scena del sapere come finzione estetica, magari per finire, vergognosamente coperta in volto da folti capelli, davanti a Marcel Duchamp, che per rendere ancora più triste la scena le ripete che in francese échecs (scacchi) ha lo stesso suono di échec (fallimento), mandando così a puttane, dopo la partita, almeno un’intensa e salvifica copula.
E pensare che questa seducente musa, qualche anno prima, aveva cercato, in un delirio di verde speranza, d'imporre a quel nichilista di Duchamp la sua voluttuosa presenza, in una quasi distrazione ammiccante, ai piedi di una bruttacchiona androgena tutta presa a tirarsi su con la solita tazza di tè. Forse però bisogna scartare la perfidia, perché, in fondo, la colpa, come in una tragedia greca, deve essere data solo al destino. Che colpa infatti può essere data a Marcel Duchamp - così geloso della “meraviglia” di Cezanne da tradirlo tanto presto - per una vecchia ABITUDINE al decadentismo della sua generazione.
Fra il quadro di Duchamp del 1910 e la fotografia del 1932, gli argomenti per irritarsi certo non mancano, specialmente per chi ebbe una certa propensione ottocentesca a incoronarsi, come scrive Achille Bonito Oliva - di malinconia: “certo dell'impossibilità di variare la norma, resta assiso sul suo proposito, consapevole di corrispondere alla norma e alla sua astrattezza, si lascia rappresentare dall’assenza”.
Magari, (suggerirebbe dal proscenio un maligno) perché, se fosse così, l'assenza avrebbe sbranato il povero Duchamp,: il delirio bacchico lo avrebbe posseduto vincendo l'inconveniente della diffidenza che fa esitare. Il suo contemporaneo Ezra Pound, che seppe vedere i pericoli di una tradizione in dissolvimento. (“I have perhaps seen a waning of that tradition” - Forse ho veduto un dissolversi di quella tradizione”), concluse uno dei suoi straordinari canti, il XXXI, con i seguenti versi che paiono la traduzione di un classico greco:

 “To have gathered from the air a live tradition // or from a fine old eye the unconquered flame // This is not vanity. // Here error is all in the not done, // all in the diffidence that faltered” (Aver raccolto dal vento una tradizione viva //o da un bell’occhio antico la fiamma inviolata // Questa non è vanità. // Qui l’errore è nel non fatto, nella diffidenza che fece esitare”).

E poi cos'è questa mania di cambiare la norma ogni cinque minuti, la norma per ridire vecchie cianfrusaglie lamentose sulla sublimità della leggerezza, sull'ambiguità della ragione, sull'invisibilità dell'essere e via romantizzando.
Non sarebbe più proficuo recuperare antichi linguaggi come fece Eliot o prima di lui Leopardi con indubbio successo. Questi due grandi, per non essere stati colti da quest'insulsa febbre del nuovo per il nuovo, finirono per essere posseduti da un'essenza-assenza modernissima, alla faccia dei futuristi, dei deliri del nouveau roman e delle imprudenze giovanili del Gruppo 63.
Il tempo delle mutazioni in arte, come nella vita biologica, non procede con i capricci di una moda passeggera ed è opera di basso utilitarismo, di sciacallaggio degli errori, quello che solitamente fa la critica, la quale, come scrive Proust, consacra un artista solo per il suo: “tono perentorio, per il suo ostentato disprezzo verso la scuola che lo ha preceduto” in una “logomachia che si rinnova di dieci anni in dieci anni (che il caleidoscopio non è costruito soltanto dai gruppi mondani) ma anche dalle idee sociali, politiche, religiose, che acquistano un ampiezza momentanea grazie alla loro rifrazione in vaste masse, ma che ciò nonostante restano confinate nei limiti di quella breve esistenza che è propria di tutte le idee la cui novità ha potuto sedurre soltanto spiriti poco esigenti. S'erano succeduti così partiti e scuole, adescando ogni volta le medesime persone, uomini di intelligenza mediocre, pronti sempre a quelle infatuazioni da cui s'astengono gli ingegni più coscienziosi e più difficili in fatto di prove”.
E in tutti i casi, chi veramente cambia una norma non lo fa mai per ribellione, anzi ne è sempre un poco timoroso, come s'addice all'educato Einstein: “E ora basta. Newton, perdonami: tu hai trovato la sola via che, ai tuoi tempi, fosse possibile per un uomo di altissimo intelletto e potere creativo. I concetti che tu hai creato guidano ancora oggi il nostro pen­siero nel campo della fisica, anche se ora sappiamo che dovranno essere sostituiti con altri assai più  discosti dalla sfera dell’esperienza immedia­ta, se si vorrà raggiungere una conoscenza più profonda dei rapporti tra le cose”.
E' incredibile il paradosso che qui si crea fra il vero scienziato concettuale e l'artista concettuale. Il primo è interessato all'astrazione per rendere più profonda la conoscenza “dei rapporti fra le cose”, il secondo per allontanarsi il più possibile dal contatto tra le cose, fino all'assurdo di riciclarle nevroticamente solo con un nome.
Non ci si può meravigliare se, con questi presupposti, il sessantotto, con quel recupero duchampiano dell'immaginazione al potere, firmò la sua condanna, il suo fallimento, ancora prima di mettersi a giocare.
Aveva ragione Braque quando affermò che: “un'utopia è un mito, di cui se si prevedono le conseguenze ci si sbaglia”.
L'utopia non è una visione aperta, speculare all'atto dell'ascolto, del raccoglimento, delle possibili folgorazioni, ma è un gioco chiuso, una classica macchina celibe significante solo per se stessa.
In un'utopia si potrebbero trovare per caso ancora cellule vive, ma, certamente, per farle germinare, bisognerebbe toglierle dal loro contesto.
Ci sono abbastanza vie dell'errore in natura perché si abbia il gusto macabro di sprecare il tempo in una cibernetica del fallimento, inseguendo fantasticherie che sembrano fatte apposta per consolare il senso di colpa di ben altre vie dell'errore, quelle dei sistemi politici arroccati nel loro castello kafkiano. Castello lieto di concedere al povero signor K quel titolo, da lui stesso scelto, di Agrimensore, dimostrando che: “al castello sapevano di tutto il necessario e, pensato il rapporto delle forme, accettavano la lotta sorridendo”.
Questo sorriso K lo capirà quando il sindaco gli esporrà la sua via dell'errore, quella vera, quella che ridicolizza la modestissima via dell’errore degli artisti: “solo un forestiero poteva fare una domanda simile. Se c'è un servizio di controllo? Tutto è servizio di controllo. Certo non è fatto per scoprire errori nel senso grossolano della parola, perché errori non se ne commettono e, anche se ciò per eccezione accade, come nel suo caso, chi può dire alla fine che sia davvero un errore?”.
E più avanti, l'ultima sfilettata:“no, non è questione di rilievo, sotto questo aspetto lei non ha motivo di lagnarsi, è proprio un caso fra i più insignificanti. La quantità di lavoro non determina l'importanza del caso. Ma, anche se fosse come lei dice, il suo caso sarebbe tuttavia uno dei più modesti; i casi ordinari, cioè quelli senza cosiddetti errori, danno molto più lavoro e certo un lavoro più profondo”.
Nel castello kafkiano-aristotelico, il luogo dell'artista è previsto nella non esistenza del suo presupposto irrazionale, che ben che vada, apparterrà a un dio, dotato di quella provvidenza manzoniana buona a tutti gli usi, sia che si tratti del signorotto Don Rodrigo sia del mefistofelico Innominato.
Di questa colossale impostura, di questo rovesciamento del rovesciamento a scopi di rapina, sarebbe opportuno accorgersene per restaurare la terapia agostiniana dell'ascolto, che procede dal soggettivo all'oggettivo e viceversa, sradicando perniciose ABITUDINI e ricostruendone altre, utili alla circolarità delle idee condivise nella fondazione di una civiltà.
Il compito è faticoso, perché una qualsiasi finzione conoscitiva, capace di elevarsi al di sopra del concettualismo dettato da ABITUDINI inconsce, presuppone un coinvolgimento drammatico con la maschera del dubbio, un continuo rovesciare se stessi e il mondo, non fidandosi se non della propria e altrui incertezza fondante.
Bisognerebbe saper navigare in questo mare dell'incertezza fra la Silla di un relativismo sciocco e la Cariddi di un egocentrismo esasperato, fidandosi del proprio corpo, del suo rilevante esistere a sostegno della vita.
Scrisse di questa navigazione Marcel Proust, parlando degli artisti: “nell'arte le scuse non valgono e delle intenzioni non si tiene conto, in ogni momento l'artista deve ascoltare il proprio istinto: il che fa si che l'arte sia il fatto più reale, la più austera scuola di vita e il vero Giudizio finale. Quel libro, il più arduo da decifrare, è anche il solo dettatoci dalla realtà, il solo stampato in noi dalla realtà medesima. Di qualunque idea lasciata in noi dalla vita si tratti, la sua raffigurazione materiale, l’impronta dell'impressione da essa prodotta in noi è sempre il pegno della sua verità necessaria. Le idee formate dall'intelligenza pura posseggono soltanto una verità logica, una verità possibile e la loro scelta è arbitraria. Il libro dai caratteri figurati, non tracciati da noi, è l'unico libro nostro. Non che le idee che noi formiamo non possano essere logicamente giuste; ma non sappiamo se sono vere. Solo l'impressione, per quanto infima possa sembrare la materia e inafferrabile la traccia, è un criterio di verità; e solo essa merita perciò d'essere appresa dallo spirito, come la sola capace, qualora esso sappia estrarne tale verità, di condurlo a una più grande perfezione e di offrirgli una gioia veramente pura. L'impressione è per lo scrittore ciò che è l'esperimento per lo scienziato: con questa differenza tuttavia: che nello scienziato il lavoro dell'intelligenza precede, nello scrittore segue. Quel che noi abbiamo dovuto decifrare, chiarire con il nostro sforzo personale, quel che era chiaro prima del nostro intervento, non è cosa nostra. Proviene da noi soltanto ciò che noi medesimi traiamo dall'oscurità che è in noi e che gli altri non conoscono”.
E più avanti, sempre nello stesso testo, per togliere la voglia ai pressappochisti  - che son tutto magia, tutto istinto e coglionesca spontaneità - d'abbandonarsi a troppo facili voli, tutto: “questo lavoro dell'artista, volto a cercar di scorgere sotto una certa materia, sotto una certa esperienza, sotto certe parole, qualcos'altro. È esattamente inverso a quello che, in ogni istante, allorché viviamo stornati da noi stessi, l'orgoglio, la passione, l'intelligenza, e anche l'abitudine, compiono in noi, ammassando sopra le nostre genuine impressioni, per nascondercele, le nomenclature, gli scopi pratici, cui diamo erroneamente il nome di Vita. Insomma quest'arte così complessa è davvero la sola arte viva. Solo essa esprime agli altri e mostra a noi stessi la nostra propria vita, la vita che non si può “osservare”, le cui apparenze, che osserviamo debbano venir tradotte e spesso lette a rovescio, e decifrate con grande fatica. Il loro lavoro compiuto dal nostro orgoglio, dalla nostra passione, dal nostro spirito imitativo, dalla nostra intelligenza astratta, dalle nostre abitudini, quel lavoro l'arte lo distruggerà, ci ricondurrà indietro, ci farà tornare agli abissi profondi dove quel che è esistito realmente giace ignoto”.
Per gli artisti non si tratta di inventarsi un'altra favoletta utile alla fuga, nella quale si tende a sostituire all’Io interrogante, un Io superpersonale di nicciana memoria, che poi, alla fine, si rivelerà ancora più strumentale del primo, bensì di porsi nella totale impersonalità, di essere in questa finzione ginnica, costi quel che costi, fra le affinità e le omogeneità dei pensieri, in rapporto alla loro genesi e al loro sviluppo.
Nell’attuare tale fine si dovrà sapere che l'impersonalità artistica ha poco da spartire con quella degli scienziati, i quali ricoprono solo il ruolo di spettatori-critici, mentre qui si tratta di recitare con il proprio corpo, superandone l'ingombro.
Questa specie di “colica di tutte le circonvallazioni del cervello” come la chiamò Musil, quando è finita “non ha più la forma del pensiero in cui la si compie”, ma la forma che la risonanza esterna, per la quale è stata resa possibile, le farà prendere in un gioco massacrante di consolidamenti e dissoluzioni, in cui ciò che si è pensato dovrà necessariamente modellarsi con ciò che altri hanno pensato.
Il procedimento artistico, quando sa scavare oltre l'intuizione - che rappresenta solo una porta d'accesso - tende alla più completa immedesimazione vitalistica, alla depersonalizzazione, per poi fatalmente scontrarsi con la finzione che fa sopportare questa immedesimazione stessa.
Ed è così che, spesso, la grandezza o la durata di un'opera dell'ingegno, finisce con l'essere misurata nei suoi valori residuali, in quei valori che non possono immediatamente essere determinati neanche, e soprattutto, dal loro autore, il quale sa più degli altri di agire nell'instabilità delle trasformazioni, in quell'indeterminatezza ritmica che trasforma, sempre, il certo nell'incerto, il visibile nell'invisibile, per rendere l'incerto certo e l'invisibile visibile; disse Klee: “l'arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile”.
In una continua danza con il reale che abolisce se stesso, l'artista è colui il quale sa danzare con il giusto ritmo, scardinando con l'IMPREVISTO le sue ABITUDINI, in una serie di sostituzioni incessanti, rovesciando in equilibrio mobile l'istinto a costruirsi l'Io, in una sana perturbazione trainante, come nei versi di Klee:

“Nella tempesta io vedo chiaro // che la vita mi cattura”.

Gli artisti aspettano dietro la propria persona - in quella parte che proficuamente li fa dubitare di se stessi - che il vento faccia girare i mulini, per rendere il combattimento, ancestrale agonismo del loro teatro, più tragicamente eroico agli occhi di Dulcinea o di qualsiasi Beltà.
Strana situazione quella di dover cercare la dissoluzione non per perdersi ma per ritrovarsi, ribaltando ancora una volta l'ordine naturale delle cose, le quali si uniscono per dissolversi, per rendere possibile la costruzione di una sostanzialità in cui il loro ricordo sappia cancellarsi, in un insieme di variabili cosmiche sempre estranee a una diretta osservazione.
Eppure, anche questo sovvertimento latente nel pensiero astrattivo sembra si nutra della stessa “lontananza visuale”, la stessa che ci sbarra la strada tutte le volte che vogliamo trovare una relazione convincente fra la nostra voglia di fragole e un'esplosione nucleare, fra la convinzione di Don Chisciotte di far diventare la poesia, la letteratura, il nobile sapere realtà e la realtà, che, in quanto realtà, procede sistematicamente alla distruzione di se stessa.
Ma insomma, non si tratta in fondo del solito vecchio problema della traducibilità della somiglianza, con un cogito divenuto fin troppo imbarazzante?
Messi davanti, finalmente, non al problema dell'esistenza ma della sua nominabilità, la distanza che nel mondo antico intercorreva fra un comodo continuum assolutizzato e la contingenza della riconoscibilità, s'è spostata fra i movimenti discontinui della natura e il potere dissociativo del pensiero riflessivo.
Ridicolizza, e giustamente, Joyce: “Io credo, o Signore, aiuta la mia incredibilità // cioè. Aiutami o aiutami a discredere. // L'aiuto a credere? Egomen. // Ci non crede? L'altro!”. Un “altro” che Don Chisciotte rigettò in faccia alla realtà, per rovesciare l’allora nascente discorso dell'empiria, ponendo per primo l'evidenza del linguaggio in tutta la sua bellezza arbitrariamente verificabile: dimensione che, da sempre, abita le stanze del sapere artistico.
Ma questo suo permanere con discrezione nel lato più oscuro della somiglianza non riuscì a venire a noia a uomini ancora troppo gelosi delle loro prerogative tribali, troppo tenaci nel coltivare la ripetizione come rito analogico - patto adattivo con l'ABITUDINE - che, per secoli, permise la trasmissibilità della cultura. Permanenza che è forse paura di ritrovare l'immagine di se stessi, dove nelle finitudini ignare danzarono felici gli dei.
Poi venne la scienza e, in un baleno, “l'altro” fu strappato dalle mani di Hermes - l'imbroglione, il notturno psicopompo accompagnatore d'anime - e il sorriso del dio finì con il diventare il sorriso di Galileo Galilei: “Alla poesia sono in maniera necessaria le favole e le finzioni che senza quelle non può essere; le quali bugie sono poi tanto abborrite dalla natura che non meno impossibil cosa è di trovarne pur una che tenebre nella luce.” .
Non male come linguaggio per gettare un guanto di sfida!
La poesia e le favole!
In realtà il loro potere allegorico-concettuale, la loro insufficienza intensiva a liberare il “discorso”, il quale, sposandosi con la verificabilità, ritrovò la sua libertà proprio dove a un umanista sarebbe sembrato mettersi un cappio.
La similitudine, vecchia e cara baldracca di tante avventure eroiche, d'infinite intuizioni anche scientifiche, non poté più assolvere i suoi servizi multiuso per l'umanità; come tutte le ex belle donne finì schiava della vanità, utilizzando  seduzione e scompiglio fra la corruzione delle regge e il bianco livore degli ospedali psichiatrici.
Intorno a lei, discrete ma decise: una lieve IDENTITA' a servizio del MEDESIMO, delle scanzonate DIFFERENZE al seguito del DUBBIO e una fascinosa PERFEZIONE sempre pronta a spiccare il volo in un cielo bachiano.
Ma ritorniamo a Galileo Galilei: “Ma pur fossero i veri filosofi come le aquile, e non più tosto come le fenici, “infinita è la turba degli sciocchi”, cioè di quelli che non sanno nulla; assai son quelli che non sanno nulla di filosofia; pochi son quelli che ne sanno qualche piccola cosetta; pochissimi quelli che ne sanno qualche particella; uno solo, Dio, è quello che la sa tutta. Sì che, per dir quel ch’io voglio inferire, trattando della scienza che per via di dimostrazione e di discorso umano si può dagli uomini conseguire, io tengo per fermo che quanto più essa parteciperà di perfezione, tanto minor numero di conclusioni prometterà di insegnare, tanto minor numero ne dimostrerà, ed in conseguenza tanto meno alletterà, e tanto minore sarà il numero de’ suoi seguaci: ma, per l’opposito, la magnificenza de’ titoli, la grandezza e la numerosità delle promesse, attraendo la natural curiosità degli uomini, e tenendoli perpetuamente ravvolti in fallacie e chimere, senza mai far loro gustar l’acutezza d’una sola dimostrazione, onde il gusto risvegliato abbia a conoscer l’insipidezza de’ suoi cibi consueti, ne terrà numero infinito occupato; e gran ventura sarà di alcuno che, scorto da straordinario lume naturale, si saprà torre dai tenebrosi e confusi labirinti nei quali si sarebbe coll’universale andato sempre aggirando e tuttavia più avviluppando. Il giudicar dunque dell’opinioni di alcuno in materia di filosofia dal numero dei seguaci, lo tengo poco sicuro. Ma ben ch’io stimi piccolissimo poter essere il numero dei seguaci della miglior filosofia, non però concludo, pel converso, quelle opinioni e dottrine esser necessariamente perfette, le quali hanno pochi seguaci: imperocché io intendo molto bene, potersi da alcuno tenere opinioni tanto erronee, che da tutti gli altri restino abbandonate “.

C'è in queste poche righe galileiane il destino di un'ambigua battaglia, non ancora conclusa, descritta in perfetto stile derisorio, alla Calcante in vena di scherzi.
Pochi nomi esemplificativi per delineare il campo d'azione: da una parte gli esagitati della scienza, i Giuda del fiorentino, Cartesio e Comte con i loro figli sciocchi, i concettualini del primo e del secondo novecento, tutte controfigure dei La Fontaine e dei Perrault.
Dall'altra, i decadenti, i malati, i malinconici, i depressi, che indegnamente e masochisticamente hanno usurpato la gloriosa figura del Matto dei tarocchi per eccitare un castello divenuto palazzo, appartamento, galleria d'arte, trattoria, sottoscala, marciapiede.... uomini da marciapiede.
Ecco la schiera del cavalier Marino che sa far stupire di meraviglia perché “chi non sa far stupir vada alla striglia”, un verso quasi più orrendo di quello dell'Aleardi scritto due secoli dopo “malinconia ninfa gentil”.
Inoltre, mille pittori alla Pietro da Cortona, con un Nettuno sempre nella vasca da bagno a placare tempeste, non tanto per ricchi signori come i Doria Panphili che non ne hanno bisogno, ma per quelle scollacciate signorine, eterne modelle, sempre pronte a riciclarsi per gli Appiani, i Rossetti fino all'arcigno romano in calzamaglia: Ferruccio Ferrazzi.
Fra nugoli di cipria ecco avanzare galanti mercurietti, Boileau, La Fontaine, Racine, la cui voce oltre la tomba si farà delirante come quella di un vampiro che abbia perso le staffe. E poi l'ingombrante marchese De Sade con i suoi discendenti Celine, Bataille e Artaud, stupendi casi clinici per l'ambizione della critica novecentesca.
Come dimenticare l'infinita schiera degli intellettuali sempre contro, votati all'obbligo della provocazione per diritto divino che fecero paura al ritrosetto Rilke o al cristianetto Papini ma che piacquero tanto a De Buffet, il selvaggio, con tutti i suoi pataccari - vili imitatori - in quel di Berlino, la sporca, e in quel di New York, la danarosa.
Meno male che, dai gelidi mari del nord, Mondrian inseguì questi scellerati come una cameriera ordinata, percuotendoli con il battipanni magico di Schönberg, quello che fece la fortuna delle musiche da thriller.
Di lato, ma più di lato che si può, i Rubens, i De Chirico, i Puccini e tutti coloro che, sbagliando, si salvarono per essersi trovati nella parte ascendente della ruota della fortuna, anche se fecero di tutto per precipitare in quella discendente: bell’insegnamento per quanti non osano credere alla provvidenza!
In mezzo, disperati per tale incresciosa querelle, altri grandi trapassati: Bacone, il severo mediatore, Leibniz, il politicante, che per mancanza di tempo abbandonò l'essenziale sulla sua scrivania, il monumentale Montaigne, la gallina Cervantes che covò Bulgakov.
In alto, nell'incessante ordine discontinuo di Bach, i Vermeer e i Velasquez, che nei loro studi presero  l'ABITUDINE di farsi vedere di spalle o dietro grandi quadri, visibilissimi nella loro studiata invisibilità, accettando il guanto di sfida galileiano.
Questi geniali creatori pensarono una pittura capace di addomesticare, senza ridicolizzarla, persino Melpomene, semplicemente portandosela in casa, perché la musica è sempre qualcosa di più vicino alla nostra intimità di quello che i metafisici vollero farci credere, come d'altronde la pittura stessa, che, come scrisse Martini, proprio riferendosi a Vermeer: “per la prima volta nella storia dell'arte occidentale il soggetto del quadro diviene l'oggetto della visione, senza compromessi di nessun genere”, e come accadrà anche nelle Meninas, dove, fra l'altro, si tentò per un altra prima volta di detronizzare un re, un re simbolo di un “ordine” che poté divenire assoluto solo se inserito nella visibilità di uno specchio, come dire, fuori dai denti, solo nella verificabilità dell'esperimento; e, infine, nelle variazioni sul tema delle Meninas che ne fece Picasso, dove l'esperimento tentò l'impossibile, quello di astrattizzare l'astratto per creare una nuova storia che, in qualche modo, riuscisse a scartare l'uomo come soggetto per far vivere la sua arte come oggetto, riprendendo la magnifica intuizione di Mallarmé quando pronosticò che il verso, la frase, ritornasse virtuale: “virtuale, svincolata da una caduta di piuma o fronda, ormai intesa attraverso la voce, sino a quando finalmente si articolò sola, vivente nella propria personalità”.
E qui sarà meglio fermarsi, chiedendo scusa agli assenti, ma, l'esempio ha questo di bello, pur banalizzandosi nell'esplicativo finisce con l'innalzarsi nella mancanza.
Per ritornare alle battaglie combattute dall'arte, come quando riuscì a liberarsi dalla ritualità selvaggia ai tempi della nascita della tragedia greca, o dall'assolutismo metafisico ai tempi di Platone o, ancora, dall'eccesso di utilitarismo tra i retori romani, quella rappresentata dal guanto di sfida di Galileo Galilei parrebbe la più rischiosa perché il pensiero scientifico la sospinge quasi inesorabilmente in una zona di precipizi, là dove la conoscenza conosce l'orlo di se stessa, fra una comprensibilità della totalità dei segni, che presupporrebbe la scelta della schizofrenia come metodo fondante e il ribaltamento incessante delle prospettive soggettivistiche:  in ultima analisi si tratterebbe sempre dell'abbandono dell'uomo come persona.
Nelle sue antiche battaglie, l'arte poté contare su una convenzione, un’ABITUDINE comportamentale, che alla fine l'avrebbe sempre premiata: l'invisibilità.
Ma da quando Galileo rese visibili molte stelle “del tutto invisibili a qualsivoglia vista libera”, permise nel “cielo inalterabile et immutabile” di poter scorgere “in esso delle alterazioni”.
Il fulmine della tempesta di Giorgione si impadronì così non solo dello scadere dell'importanza del soggetto, come acutamente notò Venturi, ma di tutta la verde luce del quadro, per un approssimarsi di un tempo meteorologico in flagrante contrasto con un tempo relativo.
Su queste “alterazioni” fu “l'altro” visibile che l'esperienza diretta non permise di vedere, ma che fece comprendere la nascita di una nuova legittimità a riscrivere tutte le teorie che partiranno da quella esperienza, forti della “cognizione d'un solo effetto acquistata per le sue cause” si poté aprire “l'intelletto a intendere ad assicurarci d'altri effetti senza bisogno di ricorrere alle esperienze”.
Come dire, non importavano più i fatti visibili ma le “relazioni generali”, l'essenza, l'invisibile struttura che ce li rese visibili, attraverso un linguaggio il più preciso possibile che, in un secondo tempo, si sarebbe manifestato attraverso un esperimento convincente.
La precisione di questo linguaggio dipese, come ci disse ancora Galileo, dal “promuovere quelle dubitazioni che ci è paruto che rendano incerte l'opinioni avute sin qui, e di proporre alcuna considerazione di nuovo, acciò sia essaminata e considerato se vi sia cosa che possa in alcun modo arrecar qualche lume ed agevolar la strada al ritrovamento del vero”.
Il linguaggio diventò quindi in se stesso arbitrario, abbandonando l'intensività di qualsiasi assoluto a-priori e,  anzi, dovette fare i conti anche con “l'animal vivente” che è in noi, con la determinazione del soggetto percipiente, nelle sue relazioni con l'oggettività fisiologica.
Questo Hermes moderno, questo sorridente ladro patentato, parlò male dei poeti e poi tentò di rubare loro l'ultima maschera, la più preziosa: la maschera del dubbio.
Scrisse il gaglioffo:

 “io dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna immaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l’immaginazione per se stessa non v’arriverebbe già mai.
Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sí che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità”.....
“Ma che ne’ corpi esterni, per eccitare in noi i sapori, gli odori e i suoni, si richiegga altro che grandezze, figure, moltitudini e movimenti tardi o veloci, io non lo credo; e stimo che, tolti via gli orecchi le lingue e i nasi, restino bene le figure i numeri e i moti, ma non già gli odori né i sapori né i suoni, li quali fuor dell’animal vivente non credo che sieno altro che nomi, come a punto altro che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse l’ascelle e la pelle intorno al naso.
E come a i quattro sensi considerati ànno relazione i quattro elementi, cosí credo che per la vista, senso sopra tutti gli altri eminentissimo, abbia relazione la luce, ma con quella proporzione d’eccellenza qual è tra ‘l finito e l’infinito, tra ‘l temporaneo e l’instantaneo, tra ‘l quanto e l’indivisibile, tra la luce e le tenebre. Di questa sensazione e delle cose attenenti a lei io non pretendo d’intenderne se non pochissimo, e quel pochissimo per ispigarlo, o per dir meglio per adombrarlo in carte, non mi basterebbe molto tempo, e però lo pongo in silenzio”.
(G. Galilei, Il Saggiatore, Einaudi, Torino, 1977, pagg. 223-228).

In quel “sieno levate ed annichilite tutte queste qualità”, Galilei spinse la sua intuizione fino a quel sapere, che non poteva ancora “vedere”, ma che in qualche modo sarebbe stato il presupposto dall'impostazione del suo metodo che si sarebbe posto oltre la rappresentazione. In quella finitudine, chiamata da sempre mito.
E' curioso come, nel descrivere l'episteme culturale della psicanalisi, Michel Foucault abbia utilizzato, senza citarne la fonte, i medesimi argomenti galileiani, riportando, fra l'altro, l'intero discorso in un ambito che potremmo definire linguistico-etnologico:

“la psicanalisi avanza per scavalcare la rappresentazione, per superarla dal lato della finitudine e far sorgere in tal modo, là dove venivano attese le funzioni portatrici delle loro norme, i conflitti colmi di regole e di significanti costituenti un sistema, il fatto puro e semplice che possa esservi un sistema (e quindi un significato), regola (e quindi opposizione), norma (e quindi funzione).
E in tale regione, in cui la rappresentazione resta in sospeso sul limitare di se stessa, aperta in qualche modo sulla chiusura della finitudine, prendono forma le tre figure attraverso cui la vita, con le sue funzioni e le sue norme, viene a fondarsi nella ripetizione muta della Morte, i conflitti e le regole nell'apertura denudata del Desiderio, i significati e i sistemi in un linguaggio che è a un tempo Legge.
Sappiamo come psicologi e filosofi hanno chiamato tutto ciò: mitologia freudiana. Era ben necessario che questo procedere di Freud apparisse loro tale; per un sapere che si pone entro il rappresentabile, ciò che orla e definisce, verso l'esterno, la possibilità stessa della rappresentazione, non può che essere mitologia.
Ma quando seguiamo, nel suo procedere, il movimento della psicanalisi, o quando percorriamo lo spazio epistemologico nel suo insieme, scorgiamo queste figure, probabilmente immaginarie per uno sguardo miope, sono le forme stesse della finitudine, quale è stata analizzata nel pensiero moderno: la morte, non è forse ciò a partire da cui il sapere in generale è possibile, al punto che, sul versante della psicanalisi, potrebbe costruire la figura di quella “duplicazione” empirico-trascendentale che caratterizza nella finitudine il modo d'essere dell'uomo? E quella Legge-Linguaggio (a un tempo parola e sistema della parola) che la psicanalisi si sforza di far parlare, non è forse ciò in cui ogni significato acquista un “origine” più remota di se medesimo, ma anche ciò il cui ritorno è promesso nell'atto stesso dell'analisi?
E' altrettanto vero che né questa Morte, né questo Desiderio, né questa Legge non possono mai incontrarsi all'interno del sapere che percorre nella sua positività il campo empirico dell'uomo; questo si spiega in quanto essi designano le condizioni di possibilità di ogni sapere sull'uomo”.

E qui, finalmente, il guanto di sfida galileiano potrebbe essere raccolto dal Sapere Artistico con qualche possibilità di vittoria; non contro la scienza, figlia scapestrata del disastroso divorzio fra Sapienza (natura, temperanza, costanza, equilibrio, ascolto) ed Estetica (finzione, dubbio, paura, abitudine, desiderio, sensualità, nutrimento, adattamento, tradizione, empatia, comunicazione), ma contro quel Genio, un po' malefico, un po' maggiordomo che l'Aladino Mallarmé, volle liberare dalla vecchia lampada illuminista diventata obsoleta prima del tempo: il capriccioso, dispotico, finto pieno, vuotissimo Linguaggio.
Ma perché finto pieno, vuotissimo linguaggio? Perché si riempie d'invarianze supposte, proprio dove la varianza dei suoi “presupposti” lo spinge a svuotarsi.
L'antica ABITUDINE animale di abitare una tana sicura, con tecniche trasmissibili ai discendenti per difendere una qualche invarianza che ci sta a cuore (individualismo, solidarietà tribale, poteri acquisiti, civiltà etc.), ci fa “idolatrare” il linguaggio come pratica conservativa della “ripetizione” di queste invarianti
Così ci si avvinghia a questa pura follia, a questo finto presupposto impossibile, dato che non si è mai vista una ripetizione che non sia una variazione, e ci si costruisce addosso una prigione che impedisce di godere della splendida libertà della metamorfosi.
Si rinuncia a volare come farfalle, conservando e armonizzando l'originale natura di bruchi, e ci si affida alle mute finitudini, in un cielo nero, in una notte nera, dove un'impossibile visibilità verrà delegata all'ambiguo potere degli angeli e dei demoni, dei consolatori e dei perturbatori, delle “idee sistematiche” e della follia.
Se la tana sarà profanata dal nemico, se gli idoli cadranno, se la più perfetta scienza si dissolve in una risata, dove sfogare la voglia di paura, il vergognoso masochismo sacrificale, se non trasformando l'eterna mutazione in eterna invarianza, ponendo, in questa inesistente polarità, il corpo ambiguo del messaggio, della traduzione?
L'angelo-linguaggio impedisce di sentire il “concepimento”, la finitudine, la morte.
Cantò Yves Bonnefoy:

“Il faut à la parole meme une matière, //un incerte rivage au delà de tout chant.// Il te faudra franchir la mort pour que tu vives, // la plus pure présence est un sang répandu”. (Occorre alla parola stessa una materia //inerte sponda di là d'ogni canto. // Dovrai per vivere varcare la morte, //la più pura presenza è un sangue versato.”) (Y. Bonnefoy; Movimento e Immobilità di Douve; Einaudi; 1969; trd. S. Agosti).
Eppure, dal momento stesso che si pensa, non si concepisce qualcosa che sarebbe esistito senza di noi, come affermava molto metafisicamente uno dei più grandi logici del novecento, F. L. Frege, ma con lo stesso pensiero, cioè con una rilevante esistenza, si partecipa a modificare, a creare l'esistente.
Se esistesse infatti un mago capace di far sparire un moscerino, questo stesso mago avrebbe il potere di far cascare l'universo.
Tale partecipazione, potrà avere l'aspetto torrentizio del genio o assomigliare a un’immagine stagnante, che si oppone al divenire come per chi le oppone una diga protettiva, ma in tutti i casi avrà la sua funzione, e non è detto che la “resistenza”, in termini generali di “forza”, non sia meno utile dell'energia che occorre per debellarla.
Inoltre a chi cerca nel proprio stagno riparo dalle tempeste, dalle cascate, dalle inondazioni tumultuose, può capitare, come affermò Blake, di far crescere quei rettili del pensiero che lo sbraneranno prima del tempo: “se le porte della percezione fossero purificate ogni cosa apparirebbe all'uomo com'è, infinita. Poiché l'uomo ha totalmente rinchiuso se stesso da veder tutto soltanto attraverso le strette fenditure della sua caverna”...”l'uomo che non muta la propria opinione è come l'acqua stagnante, e nutre i rettili del pensiero”.

 

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