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SCRITTI SU DE ANDRE' E LUCIO BATTISTI

 

FABRIZIO DE ANDRE’
 (da Canzoni di Fabrizio De André, Lato Side 1980)

Sono venuto a Tempio, un paese della Gallura, per stare qualche giorno con Fabrizio.
Rintontito dal paesaggio mi chiedo cosa ci sia fra la totalità di queste visioni e il cantore di racconti spregiudicati, di antimilitarismo e di violenza, di ladri, assassini, prostitute, fannulloni e ubriachi.
Me lo chiedo ma non ho il coraggio di proferirlo, troppo è il silenzio, troppe le vastità d’alberi di sugheroi, di vette di granito lavorate dalle piogge e dal vento.
Poi, come un bastardo continentale,acquisto un po’ di malignità volteriana e ricordo  che un mio vecchio zio diceva che il ridicolo in amore comincia sempre dal paesaggio, forse perché il paesaggio non è che l’immagine di una realtà arborea o pietrificata messa lì dalla storia per accogliere il nostro pensiero pesante e alleggerirlo un po’ se ci trova disponibili all’eventualità d’essere poeti, ma difficilmente può cambiare qualcosa nella nostra vita.
De André un po’ incline all’utopia e alla fuga lo è senz’altro, di prove ne sono piene le sue canzoni e rivedermelo qui in alto, tutto intento a comprare fieno per i suoi vitelli,  non può che mettermi una strana allegria derisoria che lo manda in bestia.

Fabrizio: "prima di tutto il paesaggio della Gallura me lo sono trovato addosso perché la mia scelta era semplicemente quella di ritornare in campagna.
,Ho detto ritornare e non fuggire, in quanto se nella mia vita ci sono state delle fughe di responsabilità, si possono semmai ritrovare in alcune canzoni scritte semplicemente per completare un long-playng che doveva durare una quarantina di minuti,
Pensa che brutta è Spiritual : “Dio del cielo, se mi vorrai amare, scendi sulla terra e vienimi a cercare…”.
E che brutte sono molte altre, magari le più famose, di cui per pudore taccio il titolo perché forse su di esse si basa buona parte del mio successo.
In realtà sono stato come molti giovani che dovendo lavorare hanno scelto la strada più facile non sapendo che gli ostacoli non rimossi te li ritrovi due passi più avanti.
Il cantautore non è un mestiere, non so bene cosa sia ma un mestiere non lo è senz’altro".

 A questo punto gli domando se questo lavoro “vero che è l’agricoltore influirà sulle sue canzoni.

Fabrizio: "è naturale che una volta che uno impara come fare canzoni gli possano essere utili i contorni, molto più probabile di quanto l’esperienza di far canzoni gli possa essere utile a far l’agricoltore.
E’ proprio da questa irreversibilità che mi par di notare la maggiore superficialità e quindi irresponsabilità di un mestiere piuttosto che un altro.
Il cantautore è un mestiere tipicamente part-time a meno che non si riesca ad imporre alle vacche di partorire nei weekends"

INTERVISTA ALLA MADRE DI FABRIZIO.

Considerando la difficoltà di parlare di De André con De André senza avere una laura in agraria…ho chiesto a sua madre di raccontarmi qualche episodio della sua vita di ragazzino, ne è venuta fuori una storia divertente molto vera.

Madre: Fabrizio nacque nello stesso momento in cui sul giradischi di casa nostra veniva suonato il Valzer campestre di Gino Marinuzzi.
Molti anni dopo, venuto a conoscenza di questo fatto, Fabrizio volle scrivere le parole a questo valzer e lo fece incidere con il nome di “ Valzer per un amore”.
Questo avvenimento è stato come un presagio perché Fabrizio ha sempre amato la musica fin dalla più tenera età.
Molto spesso, nella casa di campagna di Revignano d’Asti, dove eravamo sfollati per la guerra, lo vedavamo arrampicato su una sedia, davanti alla radio, con una bacchetta in mano e con molta serietà a dirigere la musica che veniva trasmessa.
Era felicissimo di vivere in campagna, di correre per i campi, di seguire i contadini nel loro lavoro, di andare a caccia con loro.
Si interessava molto delle bestie, era sempre nella stalla e una volta capitò addirittura di trovarsi presente alla nascita di un vitellino.
A colazione difficilmente veniva a casa.
Preferiva rimanere con i mezzadri a mangiare la polenta.
Una volta venne sgridato molto perché non voleva mai restare in casa.
Aveva poco più di quattro anni
Si ribellò e disse che se ne sarebbe andato di casa.
Si allontanò verso i prati con in mano una valigetta di legno che conteneva i suoi soldatini, ma era tardi, ebbe paura del buio, e tornò indietro quasi subito.
Finita la guerra eravamo tutti felici di ritornare in città.
Lui era disperato.
Non voleva lasciare la campagna e tanto meno i suoi amici.
Avrebbe voluto rimanere là per sempre.
Tornati a Genova Fabrizio aveva cinque anni.
Andò a fare la prima in una scuola privata dalle”Suore Marcelline” che lui si divertiva a chiamare “Porcelline”
Fu una dura sofferenza per lui, abituato com’era a correre libero e spensierato per i prati.
Per la seconda elementare, passò alla scuola pubblica “Cesare Battisti” vicino a casa.
Davanti alla scuola c’era una fioraia dove  Fabrizio mi comprava un fiore.
Amava molto farmi regali.
Andava dalla merciaia che aveva un negozio sotto casa e mi comprava, alle volte una spilla o un paio di calze, o qualche altra piccola cosa.
Intanto continuava ad avere molto interesse per gli animali.
Il terrazzo di casa era popolato di piccioni, di colombelle, di uccelli variopinti, di coniglietti, di porcellini d’India, che lui curava ed amava molto.
Con due dei suoi più cari amici aveva costruito un piccolo recinto sulle macerie di una casa diroccata, e li, vi portavano tutti i gatti randagi ( a randagi diceva Fabrizio) che trovavano nei dintorni e che nutrivano di latte e di cibo sottratto alle dispense di casa.
Un giorno, non trovando più gatti, andarono a prelevare quello della droghiera di via Nizza, che se ne stava tranquillamente sdraiata al sole, su una sedia, e lo portarono con gli altri.
Fin da piccolo Fabrizio non sopportava di vedere la gente soffrire.
Quando uscivamo insieme, ogni volta che incontravamo un mendicante, mi obbligava a fermarmi e a dargli dei soldi.
Adorava suo fratello e non stava un minuto senza di lui, ma non ammetteva che gli desse consigli, che lo aiutasse nei compiti, che gli facesse delle prediche.
Si adirava e lo pestava, approfittando del fatto che lui non reagiva temendo di fargli male, dato che era più alto.
Un giorno però Mauro perse la pazienza, e lo picchiò di santa ragione.
Da quel momento non si azzuffarono più.
La scuola incominciava a pesargli, era insofferente ad ogni imposizione, e un giorno ebbe un’altra delle sue ribellioni.
Mi disse: “Perché mi avete messo al mondo? Ora mi tocca andare a scuola, studiare, ubbidire. Non è giusto”
E stava diventando anche piuttosto discolo,
Una volta, con un fucile flobert, aveva mirato dal terrazzo una finestra aperta dall’altro lato della strada, dove c’era un signore che leggeva il giornale.
Senza esitare un momento sparò ed il piumino andò a conficcarsi al centro del giornale senza per fortuna colpire il lettore.
Costui si precipitò a casa nostra come una furia, protestando indignato e minacciando di denunciarci.
Un’altra volta chiuse a chiave la nonna nella dispensa e la lasciò strillare a lungo prima di aprire.
Come amici non sceglieva naturalmente quelli che avremmo voluto, ma i più ribelli, i più scavezzacollo, quelli più alti di lui, ed il prediletto rimase sempre Rino, il figlio del fruttivendolo, con il quale combinò parecchie birbonate.
Dopo le medie inferiori e superiori si iscrisse al liceo classico “Colombo” che frequentò regolarmente , fino alla licenza.
Nelle materie letterarie andava abbasatanza bene,anche se non studiava molto, ma in quelle scientifiche faceva fatica.
Comunque non faceva proprio nulla per prendersi un bel voto; gli bastava la sufficienza.
I professori gli volevano bene perché dicevano che era molto simpatico, ma erano tutti concordi nel dire che era distratto e indisciplinato.
Le ribellioni intanto si facevano più forti.
Era annoiato del solito tran tran famigliare, del solito giro di persone, voleva conoscere altra gente, girare per i vicoli, fare tardi la notte, frequentare ambienti nuovi e diversi, avvicinarsi soprattutto alle persone infelici.
C’erano continui rimbrotti in famiglia per queste sue ribellioni per questa sua irrequietezza, per il fatto che dedicava poco tempo allo studio.
Capitava che spesse volte a tavola suo padre, adirato, non gli rivolgesse la parola.
Lui ne soffriva molto.
Ricordo che una volta scrisse su una specie di diario:”Come sbagliano coloro i quali dicono che i venerdì sono fortunati.
Oggi è venerdì, finito il taciturno pranzo, mio padre, benedetto sia per sempre, dopo due giorni di silenzio, mi ha offerto una sigaretta.
Questo voleva dire che era disposto a perdonarmi.
Io lo ho abbracciato, gli ho chiesto scusa e subito dopo sono uscito di casa.
Ho speso tutti i soldi, mi sentivo libero”,
La sua passione era sempre la musica.,
Aveva ricevuto in regalo una chitarra e non la lasciava mai, neppure quando andava in bagno.
Prese delle lezioni da un bravo maestro argentino che lo capì molto e lo fece suonare subito, tralasciando la lunga trafila delle nozioni preliminari che lo avrebbero annoiato molto.
Incominciò a scrivere qualche canzone, a cantarla.
Gli amici lo incoraggiavano e insistevano e ci volle del tempo prima che si convincesse.
Iniziò con “”Nuvole barocche”, e poi, via via con “ La canzone di Marinella”, “ La Guerra di Piero”, “La ballata delkìl’eroe”, “ La città vecchia”, “Via del Campo” ecc.
Formò poi un piccolo complesso caratteristico suonando il banjo ed in un secondo tempo suonando la chitarra elettrica nell’orchestra jazz del suo amico Mario De Sanctis.
Debuttarono alla “Borsa d’Arlecchino” (uno dei primi esperimenti del cabaret italiano) ed ebbero molto successo.
Poco dopo ricevettero l’invito di andare a suonare in crociera su una nave dei Costa.
Sennonché dovendo studiare per preparare i primi esami di diritto all’Università suo padre lo sconsigliò e lo pregò di non accettare.,
Quella volta Fabrizio non si ribellò, ma ne soffrì moltissimo.
Rimase chiuso in casa per due giorni senza vedere nessuno.
Una sera venne un amico ad invitarlo ad una festa.
In quella festa conobbe una ragazza che gli piacque molto.
Diventarono amici e, dopo qualche anno si sposarono.

A questo punto il racconto potrebbe continuarlo un lettore qualsiasi di Sorrisi e Canzoni, perché quello che doveva saltar fuori, cioè i lineamenti precisi di un carattere, mi sembra siano emersi dal lungo racconto di questa madre affettuosa.
C’è nel racconto la storia di un esibizionista che fin dall’infanzia vive il desiderio di plauso e di gratificazione e, non conoscendo l’egoismo vuole la felicità di tutti che si fa “giullare” e cerca di rendersi simpatico perfino ai professori che non è capace di odiare perché "gli sembrano dei poveri cristi".
Quando con gli anni questo desiderio sarà largamente soddisfatto Fabrizio si ritroverà a guardare di nuovo il paesaggio e il suo pensiero pesante, egocentrico, magmatico si aprirà a nuove fantasie e a nbuovi progetti.
I gatti non gli interessano più ma probabilmente al loro posto gli interessano i coniglietti…per mangiarseli s’intende!
Rimangono di quella esperienza delle canzoni, alcune bellissime altre meno, ma tutte vissute come un morbillo, sulla propria pelle, nella propria vita.

  RIMINI

“Rimini” è un disco dedicato alla piccola borghesia, a quella classe che viene strumentalizzata e sedotta non solo dal potere capitalistico delle società industriali ma anche dal potere del socialismo reale quello per intenderci della Cina o quello che fu presente nei paesi dell’est Europa, a scorno delle invettive brechtiane o majakovschiane il cui ricordo raffiora ormai solo a mo’ di cerimonia, senza più la pretesa d’un messaggio rivoluzionario.
Dal disco traspare l’impaccio di quell’utopia tutta avanguardia, tutta super-uomo e trova spazio un sentimento umano di identificazione ne quale l’inevitabile ironia non diviene mai arrogante ma è capace di salvaguardare criticamente una situazione sociale palesemente patetica e maledettamente complicata.
I personaggi evocati sono prototipi di questa società e la loro natura è svelata con straordinario potere espressivo.
Teresa la ragazza di Rimini,la canzone che da il titolo a trutto l’LP, vive di miti bislacchi e senza fondamenta, slegati fra di loro eppure così straordinariamente simili.
Il suo amore è finito a Cuba, o in piazza, o nel porto di New Yoirk.

 Teresa ha gli occhi secchi
guarda verso il mare
pere lei figlia di pirati
penso che sia normale
Teresa parla poco
Ha le labra screpolate
mi indica un amore perso a Rimini d’estate.
§Lei dice bruciato in piazza
nella santa inquisizione
forse perduto a Cuba
nella rivoluzione
o nel porto di New Yorrk
nella caccia alle streghe
oppure in nessun posto
ma nessuno le crede.

La chiave di di queste astrusità verrà data dallo stesso Fabrizio qualche verso più sotto quando fa dire a Cristoforo Colombo che ha commesso due errori: il primo è aver abortito l’America e il secondo è averla  guardarla con dolcezza”.

E due errori ho commesso
due errori di saggezza
abortire l’America
e poi guardarla con dolcezza
ma vou che siete uomini
sotto il vento e le vele
non regalate terre promesse
a chi non le mantiene

E qui è inevitabile allargare il campo d’inquinamento di questi pseudo valori alle manie dei giovani di questi ultimi decenni con in testa l’americanismo di De Gregori e di Guccini.
“Bufalo Bill” di De Gregori è proprio, a detta del suo stesso aurore “abortire l’America e poi guardarla con dolcezza” e quindi ecco risaltare fuori l’impossibilità di puntare il dito contro la dimensione piccolo borghese perché in un modo o in un altro ci siamo dentro tutti.
Questa consapevolezza dell’impossibilità di erigere barriere dogmatiche fra chi ha capito e sa tutto e chi invece è giudicato “fottuto” salta fuori lucidamente in “Coda di lupo”, una piccola “Avvelenata” nella quale Fabrizio se la prende con se stesso e con tutti i suoi sbagli, ogni affermazione infatti viene seguita da una negazione che è un po’ uno sberleffo, e un po’ una cosa seria.

Cambiai il mio nome in “coda di lupo”
cambiai bil mio poney con un cavallo muto
e al loro dio perdente non credere mai.
.................................................................
e una notte di gala con un sasso a punta
uccisi uno smocking e glielo rubai
e al dio della Scala non credere mai.
.................................................................

dei fratelli tute blu che seppellirono le asce
ma non fumammo con lui non era venuto in pace
e a un dio fatti il culo non credere mai
.................................................................

 con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia
ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria
e a un dio senza fiato non credere mai

Per finire voglio ricordare la splendida canzone in dialetto gallurese “Lucertolkaio” nella quale Fabrizio sposta il suo obiettivo su una conversazione che sappiamo reale fra due pastori: quello che è rimasto e quello che se ne è “andatu a campà cun li signuri” e si vanta che il proprio figlio conosce più di mille parole.“

Ma me muddèri campa da signora e me fiddòlu connosci
più di milli paràuli
la tòja è mugnendi di la manzàna a la sera
e li toi fiddòli so’ brutti di tarra e di lozzu
e andaràni a cuiuàssi a qualche ziràccu
(Ma mia moglie vive da signora e mio figlio
più di mille parole
la tua munge da mattina a sera e le tue figlie sono
sporche di terra e letame
e andarono a sposarsi a qualche servo pastore)

Morale e tristezza sono qui ovvi e non abbisognano di nostri “acuti” commenti


DE ANDRE’NEL SOLITO SAGGIO D’APPENDICE


Uno dei compiti principali della Lato Side non è l’originalità a tutti i costi ma è introdurre una comunicazione pensata alla quale, per ciò che è possibile, non si dovrebbero appiccicare metodi stereotipati o meccanismi logici appartenenti ad altre esperienze e quindi destinati a rovinare qualsiasi proposito di dire quello che si pensa.
De Andrè, come altri cantautori, di sbagli ne dovrebbe aver fatti molti ma, se gli s’inventa un luogo culturale in cui non si è mai collocato, questi sbagli verranno moltiplicati all’infinito e si avrà un senso di dispersione e di parole a vanvera difficilmente riconducibili a una normale possibilità di giudizio.
Che senso ha dire che Fabrizio ha copiato Brassens quando Brassens o Brel sono i suoni della sua giovinezza: è come dire che in Proust c’è il rumore della cascata di Meseglise.
Inoltre i saputelli di ogni età e di ogni dogma non si occupano dello smembramento culturale al quale stiamo andando incontro come in un rinascente medioevo.
Da torri diverse si proferiscono pensieri e ricordi ma al viandante non rimane che l’impressione di un sogno, di una civiltà e di una cultura persa nel vento.
Alla base poi di quei giudizi credo vi sia un’idea della creatività o più genericamente della cultura a forma di piramide con un alto e un basso, un nuovo e un vecchio, e, quel ch’è peggio, con la bislacca credenza che esista il progressivo assoluto al posto del progressivo relativo.
De Andrè è un po’ torre, un po’ viandante e, in quest’ultimo abito, ha saputo farsi amare dimenticandosi di se stesso, accettando la dispersione.
A  chi gli ricorda una sua natura borghese non potrà che rispondergli con la fascinazione di un ennesima rimembranza: quella natura è stata e non è più, non si può negarla, ma perché si continua a parlarne?

SPROLEGOMINI DA LEGGERE SU UN PIEDE SOLO
DOPO AVER PASSATO SETTE NOTTI INSONNI.
INTERVISTA PER INTERVENTI TELEFONICI
VEROSIMILI E QUINDI VERI

Citazioni menzoniere ma non prive di senso:

La verità ama il telefono (Nietzsche)


Io ribadisco che non ci sto (Adorno)
Ci sono più cose nel mio cervello
che in tutta la classe operaia
(Giaime Pintor)

Oltre alle canzoni di Fabrizio, mettendosi umilmente da parte e scrutando come autentici scientisti padroni del “METODO” come della propria automobile, cercando di non ingannarsi troppo presto per via dell’errore che all’erta sta ai fini esattamente pratici della lotta di classe e di una rivoluzione realmente totale e sicuramente vincente, si può dire, senza fallo che…. Sotto la gonna dello scozzese c’è lo scozzese, oltre alle canzoni di De Andrè c’è De Andrè.
Come dire che il pettegolezzo sabelliano è la summa negativa del pensiero occidentale è che la furbizia ha radici storiche individuali al nobile fine di vendere libri.

 Pronto chi parla? Parla il venditore con in testa il quintalaggio della poesia, il distributore automatico dei supporti del linguaggio.
Parlo io che sono bello e ho la barba e so tutto e ti do della puttana perché  Massimigliano Robespierre mi ha convinto con la sua teoria degli uomini virtuosi e Lenin mi ha dato la sicurezza della Sacra inquisizione, anche se i campi di concentramento li ha fatti quel volgarotto grassoccio e diseducato del Giuseppe Stalin.
Importante non è il messaggio, importante è il supporto, plastica o cartone non importa.
Ho sognato di pennellare le falci e i martelli con i fiori garofani, simboli inconfondibili del mio socialismo, e tu me li devi comprare, chi ha detto consumare che lo strozzo, non sono mica un provocatore.
Questo tardo quarantenne che quando era piccolo “s’innamorava di tutto e correva dietro i cani”, lo odio perché colpisce un po’ a casaccio e dice a sua discolpa di “non avere memoria”.
Non sa forse il traditore che l’unica memoria ammissibile dopo il millenovecentodiciassette è la memoria della classe operaia che esiste apposta e solo per dare una tradizione accettabile ai disperati, ai senza mamma, ai figli degeneri dell’insicurezza e  della contraddizione?

Pronto chi parla? Parla Faber, guarda che ti do un calcio in culo, t’allungo un cazzotto sul mento, ti sputo nell’occhio  destro, perché tu non mi conosci, tu mi offendi e io non ho più intenzione d’essere superiore perché  i superiori mi fanno schifo.
Io sono come te, sono uguale a te e perciò ti sparo anche alle spalle, bada non scherzo, quello è il mio recinto, stattene alla larga tu e tua madre che ti ha cagato.

Pronto chi parla? Parla il non violento che ha in mente l’olimpica bellezza di Goethe e i suoi fratelli. Colui, il quale con sicuro dardo ha colpito il suo nemico ma ora lo piange perché Dio glielo ha suggerito.
Lo guarda con un occhio solo perché nell’altro ha lo sputacchio di Faber che lo ha beccato in pieno, per un errore banale, quando voleva colpire l’istanieninista, il ciclista allarmista, il cantiniere mezzo porco, mezzo alato, mezzo carbonaro, tutto stronzo, tutto coglione.

L’olimpico goethiano dice, allargando le braccia e assumendo la posizione del quadro del re, che i cialtroni sono cialtroni perché vivono di cialtronate e gli astiosi dal fegato ingrossato di fegatite e allora abbisogna il medico, il curato e l’innocente da sacrificare.

Pronto chi parla? Parla Luigi Granetto; la bozza vale una comunicazione come pure l’organizzazione editoriale vale come mezzo per dire qualcosa di valido ma, per quanto non devo dar via l’anima al diavolo per l’originalità a tutti i costi, credo che ogni artista abbia un suono particolare o perlomeno è adattabile a qualche rumore armonico non definibile per uguaglianza ma definibile per analogia.
Il tuo suono l’ho scoperto per esclusione: non è la puzza della sala d’incisione, non è l’appiccicaticcio dei salottini popolati da scherzosi studenti che cantano “re Carlo, non è l’amore per i troubadour né quello per le imitazioni, i copia menti, i plagi e allora cos’è?
Assomiglia al desiderio goloso della vita, all’ingordigia dei rapporti, al gusto del vino e dell’whisky non distinguibile da quello generico dell’alcol, alla fuga di responsabilità ricercandone sempre di più, al succhiamento dell’altrui esperienza, all’offesa per tradimento, alla convivenza romantica e decadente con il proprio passato: quello ancestrale, quello presente, all’esperimento materiale, al suono delle parole con la chitarra preso a mezz’aria come Brassens quando non ci mette la rabbia, come chiunque quando gli va di cantare.
Assomiglia a….e poi non è, questo me lo devi permettere, una questione di pudore, non di pigrizia, è una questione ridicola, ridereccia, ridanciana, sbellicante, ubriacona, farneticante, solitaria.
Questo della solitudine è un gran bel tema perché t’appartiene ed è nei tuoi dischi e forse nella tua vita, ma non credo sia sempre e solo l’intimismo del quale ti si taccia con il cerino in mano per accendere il rogo, quello intorno al palo, quello intorno alla tua vita.
La solitudine esiste e non è una ideologia ma una realtà fisica Spinoza e Luckàcs cercarono l’unità e dissero quindi Avanti!
Ma le rotaie rimangono sempre parallele e una ruota non riesce mai a guardare la sua compagna.
Anche i “compagni” per sentirsi più uguali si sono fatti sferici e cercano disperatamente di far girare le loro vite dentro una sola regola!
Ecco. Credo che tu la tua solitudine hai imparato ad usarla come le mani e gli occhi, l’hai usata come un organo vitale, non ignorandone completamente l’esistenza, ma tentando di padroneggiarne i movimenti.

La torre, il viandante, la ruota, i compagni, Spinoza….ma che sto farneticando?
Meglio scomparire dal bianco della carta stampata e tornare alla mia torre di cellulosa.

FABRIZIO DE ANRE’ E VILLON

Il mio amico Fabrizio De André riscrisse, a modo suo, "La ballade des pendus" di François Villon

Tutti morimmo a stento
ingoiando l’ultima voce 
tirando calci al vento
vedemmo sfumare la luce...,

per poi spedirgli una lettera dal ventesimo secolo indirizzata più che a François al suo mito:

" io ti riconosco poeta della carità, per lo scandalo delle passioni sfrenate, per le risate scomposte a schermare inauditi dolori, per le inaccettabili sofferenze che sorgono dal tuo canto e toccano il cuore e la mente di chi ti legge, e ancora e soprattutto per i tuoi lasciti.
 Nel tuo testamento è sempre un regalare, anche scherzoso e crudele, qualche cosa a qualcuno, con la sgangherata prodigalità di chi è fuori da ogni casta e non appartiene a niente e a nessuno.".....
"Si sa tutto di tutti senza capire niente di niente perché nessun obiettivo è capace, come lo erano i tuoi occhi, di trasformare l’emozione nella nostra stessa carne, così che tutto scorre e si mescola e non rimane che un confuso rumore di fondo, poco più che un ronzio."

In realtà François Villon fu un poeta ladro, assassino e conoscitore di tutte le contraddizioni dell'animo umano.
Disse di lui Ezra Pound che mentre "La visione di Dante è reale, perché egli la vide; la poesia di Villon è reale, perché egli la visse",.
 Lui stesso descrivendosi nega la possibilità di poter avere una visione del reale come nei versi della sua Ballade des contradictions:

"Riens ne m’est seur que la chose incertaine,
Obsucur fors ce qui est tout evident,
Doubte ne fais fors en chose certaine,
Scïence tiens a soudain accident,
Je gaigne tout et demeure perdent

 (niente mi è certo se non cosa incerta, oscuro se non ciò che è evidente, non nutro dubbi se non su cosa certa, la scienza reputo un fortuito accidente, guadagno sempre e sempre son perdente).

Per me François Villon, e la sua straordinaria poesia, sono una delle tante prove dell'inesistenza del libero arbitrio e di conseguenza un monito scientifico ma anche etico a prendere seriamente quello che è scritto nella Genesi: "Ma il Signore gli disse: «Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!».
Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato".

 

DE ANDRE' E LUCIO BATTISTI
Prefazione al libro di Teodoro Forcellini "Battisti contro De André. Il più grande malinteso della musica italiana" Scipioni Editore 2010

A molti giovani questo libro potrà sembrare poco realistico. Si chiederanno come sia stato possibile per i loro nonni riuscire a litigare per i due padri della nostra canzone d’autore. 
Recentemente ho condotto una piccola inchiesta tra ragazzi poco più che ventenni e ho scoperto che non solo quell’antica partigianeria è completamente ignorata, ma che sono stati anche rimossi i motivi culturali e politici che l’avevano accesa. 
Un ragazzo mi ha confidato di aver avuto sentore di quella bizzarra faziosità solo dopo aver fatto ascoltare a suo nonno la versione di “Il mio canto libero”, interpretata da Cristiano De André.
 Il nonno cercò di spiegargli, a quanto pare con poca fortuna, cosa abbiano rappresentato gli anni di piombo nel nostro paese, la contestazione e gli opposti estremismi; di come per lui fosse motivo di conforto sentire il figlio di un anarchico cantare il “suo” Battisti.
Anch’io sono un nonno e ho promesso a quel giovane di raccontare in questa prefazione quelle strane vicende. 
Inizio col dire che sono stato amico di De André, ho conosciuto Battisti e sono passati trentacinque anni da quando fondai la Lato Side, la casa editrice che per prima osò pubblicare i loro testi. 
Non è semplice parlare della mia esperienza personale, delle incomprensioni ma anche dei successi editoriali che hanno reso possibile affrontare in modo serio i temi legati alla canzone d’autore. Confortante esempio di tale serietà è anche questo libro, nel quale si cerca di raccontare un’unica storia d’amore, vissuta però con due amanti. 
La storia, come “canta” Montale: “lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli”. Non è agevole entrare in questi anfratti, perché chi li abita ha spesso il vezzo di nascondere qualcosa in modo che solo poi venga scoperto.
Nascondere in tempo di guerra, per svelare in tempo di pace.
A dire il vero, leggendo il saggio di Forcellini, il dubbio che in questi trentacinque anni si sia realizzata una pace stabile resta.
 Come per la guerra dei trent’anni, tra cattolici e protestanti, anche la “guerra” italiana fra “impegnati” di sinistra e “disimpegnati” di destra ha cambiato gradualmente natura e oggetto: iniziata come conflitto ideologico si è conclusa in lotta politica per l’egemonia del potere, e del denaro che quel potere assicura.
 Scrive di quella guerra il mio amico Michele Serra: “la biforcazione tra canzonetta e canzone colta fu in quegli anni netta e anche traumatica, riflettendo la medesima spaccatura tra impegno e disimpegno che divideva la società e specialmente la gioventù…” e, continua, “ammesso e concesso che chi scrive sia stato, in quegli anni, tipicamente un ragazzo di sinistra, sono in grado, oggi, di sfidare in un pubblico duello, chitarra alla mano, chiunque perseveri nella buffa teoria che Battisti fosse all’indice o ci si vergognasse di amarlo.
 Certo qualche malumore, qualche insoddisfazione dovette toccarlo, se è vero che, rotto il sodalizio con Mogol, cercò di alzare tono e ambizioni scrivendo, con il poeta Pasquale Panella, quattro dischi ostici, cifrati, scostanti, il primo dei quali, Don Giovanni, resta però un capolavoro assoluto, con buona pace dei nemici dell’intellettualismo”. 
 Aspettando di assistere al duello tra Serra e Forcellini, torno a immergermi nei ricordi. Il 1976 è l’anno nel quale Battisti, dopo essersi sposato con Grazia Letizia Veronese, “fugge” in California e De André, dopo aver subito pesanti contestazioni, “fugge” a Tempio Pausania per dedicarsi all’agricoltura.
 Il 1976 è anche l’anno del golpe argentino, del primo processo alle Brigate Rosse e di una sfilza di decessi di uomini illustri che avevano condizionato la storia del secolo: Mao Tse Tung con la sua vana idea dei cento fiori che sarebbero dovuti sbocciare e delle cento scuole che avrebbero dovuto fiorire, Man Ray che non ebbe l’accortezza di morire, come invece il suo amico Marcel Duchamp nel ’68, quando in piazza veniva urlato lo slogan della sua vita “Jouissez sans entraves - godetevela senza freni”, Max Ernst, il più intelligente dei surrealisti, che ispirò con le sue figure grottesche la copertina di Captain Fantastic di Elton John.
 Muore anche Martin Heidegger, il quale, pur non avendo conosciuto Pasquale Panella, aveva da tempo scritto: “l’angoscia è la disposizione fondamentale che ci mette di fronte al nulla”. 
 Nel frattempo, la piccola Italia dei voltagabbana sapeva dare di sé un’invidiabile immagine di buona salute: a Paolo Mieli e a Massimo Cacciari veniva a noia Potere Operaio, forse per l’odore della benzina del Rogo di Primavalle o per l’inelegante adesione alle Brigate Rosse di molti loro compagni di ventura.
 Giuliano Ferrara svolgeva il difficile incarico di “responsabile fabbriche” del Partito Comunista, mentre Paolo Liguori, Gianfranco Micciché e Carlo Rossella studiavano da futuri dirigenti berlusconiani in Lotta Continua. 
 In quell’anno pesante, mi resi conto che quasi tutte le speranze della beat generation  e della loro traduzione in salsa comunista da parte dei movimenti politici italiani  erano destinate inevitabilmente a naufragare.
Mi resi conto che, per molti anni, non si sarebbe più ricreata una classe di intellettuali capace di porsi al centro dei valori condivisi. Mi convinsi che per affrontare questa ennesima decadenza, occorreva mettersi ad ascoltare il “lato” popolare dei consumi culturali. 
 Decisi di aprire una nuova collana della mia casa editrice Anteditore e “Lato” fu il primo nome che diedi a questa nuova iniziativa.
 Si trattava di pubblicare, come recitavano le giustificazioni editoriali presenti nelle quarte di copertina dei libri della Lato Side, “pagine della più profonda esperienza personale, pagine della coscienza militante, pagine scritte scendendo dalle scale della Torre di Babele, pagine per vivere e comunicare insieme”. Poesie, poesie cantate, saggi sulla tradizione popolare e la storia delle religioni, manuali di chitarra ma anche di ballo. 
 La collana, per il primo anno, dovette uscire solo in edicola sotto forma di rivista; i distributori di libri, infatti, la considerarono eccessiva e rivoluzionaria, quanto meno da un punto di vista commerciale.
 Eccessiva la novità culturale del tema, eccessivo pensare che i testi delle canzoni potessero avere dignità di poesia, figuriamoci poi confondere un parolaio di storielle musicali con un poeta.
 Nel ’76 la Lato Side spiazzava. La vendita delle riviste e l’acquisto in blocco delle rese da parte di Felice Scipioni consentirono, nel 1978, la distribuzione in libreria e la trasformazione del periodico nella casa editrice Lato Side.
 Oggi che Einaudi ripubblica con grande successo i più importanti autori di quella collana, da De André a Dalla ma anche Claudio Baglioni, sembrerebbe impossibile immaginare che un tempo questi stessi autori vagassero ai bordi della spirale del pensiero ufficiale, considerati marginali dalla cosiddetta “cultura alta”, interdetti a entrare nelle sacrestie di quest’ultima: le librerie. 
 Forse, ed è quanto spero, non dovremo aspettare altri trentacinque anni per poter leggere nelle antologie della letteratura del Novecento oltre alle canzoni di De André anche quelle del poeta Mogol. 
 Sono convinto, che il dissidio magistralmente raccontato da Forcellini in questo libro non sia imputabile all’ovvia differenza tra De André e Battisti, quanto piuttosto al livore di una classe di rancorosi intellettuali, invidiosi di un successo per loro impensabile.
 Bene ha fatto Camillo Langone a scrivere su Il Giornale: “Mogol è un poeta e non mi importa che cosa ne pensino i poeti libreschi, da sempre invidiosi del successo degli autori di canzoni” ... ”il qui presente scribacchino è convinto che Palazzeschi non avrebbe fatto tante storie, gli sarebbe piaciuta moltissimo la rima con “giocoliere”: se il poeta fiorentino (teorico del funambolismo linguistico e della poesia come divertimento e ritmo) non fosse nato nell’Ottocento, sarebbe stato lui il coautore di Lucio Battisti”. 
E benissimo ha fatto Francesco Guccini, anche se un poco in ritardo, a scrivere che le canzoni di Battisti hanno avuto per lui “una grande importanza”, affermando: “Lo si cantava tutti, anch’io lo cantavo, come si cantavano i Beatles”.
Con questi nuovi presupposti, la storia d’amore unica, vissuta però con due amanti, proposta da Teodoro Forcellini, può diventare ancora più affollata: una storia con molti, tantissimi e meravigliosi amanti, e forse a qualcuno verrà in mente il vecchio slogan del maggio parigino, tanto caro a Man Ray: jouissez sans entraves. 
Per concludere, due piccoli ricordi personali: la pubblicazione nel 1978 di “Canzoni di Fabrizio De André” fu possibile perché a Fabrizio piaceva che il primo libro edito dalla “Lato Side” fosse stato dedicato al suo amato Brassens e poi perché giurai a Faber che non avrei mai più ripubblicato i suoi odiatissimi Rolling Stones. Naturalmente entrambi sapevamo che la mia promessa non  sarebbe stata mantenuta. 
Devo a Lucio Battisti il suggerimento di far scrivere a quel geniaccio di Gianfranco Manfredi molti libri della Lato Side; fui però così scriteriato da chiedere a Manfredi anche un libro sullo stesso Battisti e questo libro a Lucio proprio non piacque: il libro in questione, nel quale Manfredi raccontava di come le canzoni di Lucio parlassero di necrofilia e cannibalismo, deve aver giocato una parte di non poco conto nell’interruzione del suo sodalizio artistico  con Mogol. Non me ne vogliano i nonni d’Italia: questa è la vita,  morto un re se ne “panella” subito un altro!

I SAGGI DI LUIGI GRANETTO
Il Rovescio della Medaglia, considerazioni sui luoghi comuni
Il Fingitor cotese sapere come finzione
John Lennon una vita complicata
Vinicius de Moraes poeta della lontananza
 

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