NOTICINA
DELL'AUTORE
Vi sono
parole scritte per essere lette ed altre per essere cantate o recitate:
la qualità delle prime dipende dalla capacità di resistere al tempo che
le consuma, mentre per le seconde diventa essenziale conoscere
l'immediatezza della vita.
Se è difficile non rispettare Marcel Proust quando afferma che "nulla
altera le qualità materiali della voce quanto il fatto di contenere il
pensiero", diviene quasi obbligatorio provare simpatia per le parole di
Friedrich Hölderlin “chi pensa il più profondo,
ama ciò che è più vivo”. e di Eugenio Montale "esiste
un'arte che nasce col calore e l'immediatezza del documento".
Il grande tenore spagnolo
Alfredo
Kraus era convinto che la voce "é lo strumento più affascinante che
esista, perché noi siamo lo strumento e noi lo maneggiamo per mezzo di
sensazioni interne"
Nel riunire i saggi e le interviste, in parte da me già pubblicate, ho
avuto l'impressione che i miei ricordi siano ormai al di là della mia
vita stessa.
Per merito di Maria Callas, Malon Brando, Federico Fellini e gli altri
protagonisti di questo libro ho potuto scherzare sulla ridicola fede
nella realtà del tempo causale, vera e propria zavorra che c'impedisce
di liberarci da noi stessi, da quel fintissimo individualismo
inessenziale e illusorio incapace di farci vivere la pienezza del Tutto.
Comunque questo particolare modo di pensare mi ha avvicinato a due
artisti apparentemente inconciliabili: quella stramba di Yoko Ono e
Marcel Marceau.
La prima dichiarò che "le cose non sono mai
permanenti. Non si deve mai stare al centro.
È molto meglio stare di lato perché si vedono meglio le cose"
Aggiungendo ".io sono da sempre un'outsider, credo sia una condizione di
privilegio.
Non so come sono riuscita a sopravvivere.
Forse perché ho imparato a far ridere il mio cuore.
Ogni giorno fate qualcosa per far ridere il vostro cuore e cercate di
pianificare il meno possibile".
Marcel Marceau seppe esprimere il dilemma fra immediatezza del
vivere e ricordi impedendo alla sua voce di proferire parole, convinto
che " tutte le arti, anche il silenzio, hanno una grammatica.
Suggerendo di " sintonizzarsi sull’anima: con il corpo, con il cuore,
con lo sguardo" perché anche il mimo è destinato a scomparire "
nell´ombra lasciando solo un ricordo"
Cerchiamo di
"far ridere il nostro cuore" lasciando solo un ricordo che,
possibilmente, sia in grado di far ridere il cuore degli altri,
Carmelo Bene (1937 – 2002)
Nacque il primo settembre il mio amico Carmelo Pompilio Realino Antonio
Bene, noto semplicemente come Carmelo Bene per il quale pubblicai nel
1976, "Faust-Marlowe-Burlesque", in occasione dell'andata in scena di
questa sua opera con la regia di Aldo Trionfo.
Mi manca più di tutto di Carmelo la sua straordinaria umiltà che lo
portava a combattere un terribile Ego che odiava e che, con l'ingenuità
tipica dei martiri cristiani, cercava di debellare tutte le sere
imprecando contro se stesso e illudendosi che la santità del suo
sacrificio avrebbe contagiato anche il pubblico: " lo spettatore per
quanto Martire, testimone, nell'etimo [da martyr], per quanti sforzi
possa compiere lo spettatore, dovrebbe non poter mai raccontare ciò che
ha udito, ciò da cui è stato posseduto nel suo abbandono a teatro"
Uno dei pochi contemporanei che comprese questa sua natura fu Gilles
Deleuze che scrisse: "tutte le dichiarazioni d'orgoglio di Carmelo Bene
sono fatte per esprimere qualcosa di molto umile.
E anzitutto che il teatro, anche quello che sogna, è poca cosa. Che
evidentemente il teatro non cambia il mondo e non fa la rivoluzione.
Carmelo Bene non credeva all'"avanguardia".
E tanto meno credeva a un teatro popolare, a un teatro per tutti, a una
comunicazione dell'uomo di teatro e del popolo"
D'altronde lui stesso dichiarò: "ci sono cose che devono restare inedite
per le masse anche se editate.
Pound o Kafka diffusi su Internet non diventano più accessibili, al
contrario.
Quando l'arte era ancora un fenomeno estetico, la sua destinazione era
per i privati.
Un Velazquez, solo un principe poteva ammirarlo.
Da quando è per le plebi, l'arte è diventata decorativa, consolatoria.
L'abuso d'informazione dilata l'ignoranza con l'illusione di azzerarla.
Del resto anche il facile accesso alla carne ha degradato il sesso"
Una
volta per prenderlo in giro gli dissi che amavo molto il suo teatro
perché il suo sforzo di dis-fare e non di fare teatro, di di-scrivere e
non di scrivere, della lettura come oblio della sua arte di togliere di
scena e non di mettere in scena, di essere agiti e non di agire, di
esser detti e non di dire assomigliava al puro intrattenimento
televisivo dove l'eccesso di significanti rispetto alla assoluta povertà
dei significati mi garantiva la libertà di non pensare a me stesso e
quindi di abbandonarmi finalmente a una totale idiozia liberatoria.
Naturalmente si divertì moltissimo e la serata finì, come da copione,
con una sbronza oscena e quindi come avrebbe detto Carmelo "fuori dalla
scena, cioè visibilmente invisibile di sé"
Roberto Benigni
Non ho mai capito perché ma a Roberto ho sempre perdonato tutto: la
guitteria, la sordidezza di certe battute politiche, una certa saccenza
da Bertoldo che mira il bersaglio per ottenere la risata a tutti i
costi.
Probabilmente perché come ama dire lui "le cose comiche, le sciocchezze,
sono sublimi" ed ebbe profondamente torto Carmelo Bene quando disse che
Lui "era grande nel "buffo", aggiungendo "lasciamo stare il "comico".
I buffi sono concilianti, rallegrano la corte e le masse.
Il comico che interessa a me è un'altra cosa. Cattiveria pura. Il ghigno
del cadavere. Il comico è spesso involontario. Specialmente quando si
sposa con il sublime".
Roberto
è grande oltre il suo stesso lavoro che sostanzialmente è "dolore,
estasi del movimento, affettazione del divenire, occultazione del
presentare. Recitare è entrare nel personaggio e uscire, entrare e
uscire, avanti e indietro, e non vorrei andare oltre in questa
similitudine."
Ebbe ragione, come sempre, Indro Montanelli a considerare "che Benigni,
se fosse vissuto cinquecent'anni fa, sarebbe forse diventato Lutero.
Ma addirittura sconvolgente è che Lutero, se fosse nato cinquecent'anni
dopo, sarebbe forse diventato Benigni!" Se Carmelo, a forza di recitare
l'anti retorica, finì con il farsene fagocitare Roberto accettando le
sue contraddizioni "sono condannato alla lucidità. Astemio totale: devo
smettere di non bere" è arrivato a quella che, chiamatela come volete, a
me sembra la sapienza: "si può parlare di Dio solo essendo Dio, se no
non se ne può parlare. Allora quando si parla di Dio si diventa Dio in
persona.
Se dentro di voi succede qualcosa, si apre una cosa che la testa non può
contenere, una cosa spettacolare" e ancora "la bellezza, la poesia non
sta in chi scrive, ma il sublime sta nell'orecchio di chi ascolta,
dentro di voi sta Dio.
Non solo dentro a Dante che l'ha scritta. Lui l'ha scritta, ma se voi
non lo sentite, non ha scritto niente. Quindi siete voi il poeta, siete
voi Dio".
Posso solo aggiungere: felice di essergli amico.
Marlon Brando
(1924 –
2004)
Brando Nacque a Omaha il 3 aprile del 1924 e morì a Westwood, 1º luglio
del 2004 e una volta disse:
"mentire per vivere, ecco cos'è la recitazione.
Non ho fatto altro che imparare a esserne consapevole.
Tutti voi siete attori, perché siete tutti bugiardi.
Quando dici qualcosa che non intendi o quando eviti di dirla, questo è
recitare.
Recitiamo tutti, alcuni vengono pagati per farlo. Devi essere qualcuno,
se non lo sei è un peccato, e resti solo. Recitare significa inventarsi
le cose, ma va bene così. La vita è una prova, la vita è
un'improvvisazione".
Una mattina a Parigi mi svegliai in casa del mio geniale amico artista
Pucci De Rossi che raggiunsi in cucina per dirgli chi fosse quel suo
amico ciccione che dormiva vicino al mio letto che assomigliava a Marlon
Brando.
Mi disse : "sarai distratto non sai che Marlon è il padre di mia moglie
e il nonno di Léopold e Victor?"
E' proprio vero "La vita è una prova, la vita è un'improvvisazione".
Maria Callas
(1923 – 1977),
Anna Maria Cecilia Sophia Kalogeropoulou alias Sophia Cecilia Kalos e
infine Maria Callas, la incontrai la prima volta a sei anni.
Mio padre doveva portare, non ricordo più cosa, a suo marito Giovanni
Battista Meneghini a Zevio.
A un certo punto compare Maria con un grembiule e ci dice: ho preparato
il lesso con la la pearà perché non vi fermate a mangiare con noi.
Qualche anno dopo, rivedendola magrissima elegantissima e
sofisticatissima nelle fotografie, non riuscivo a ricostruire l'immagine
di quella donna simpatica che avevo conosciuto.
Chiesi alla sua amica Giulietta Simionato, che era diventata la moglie
di Cesare Frugoni, un altro amico di famiglia, come fosse possibile
quella strana trasformazione.
Giulietta mi disse che la vera Maria era un essere vivente simile ai
camaleonti e alle spugne con la capacità di assorbire tutto da tutti per
reinterpretare la cucina o l'arte in una maniera diversa da tutto e da
tutti.
Quando morì Carmelo Bene scrisse, forse con eccessiva retorica,"la voce
dell'opera si è fermata con la Callas, una perfezionista, nel senso che
perfezionava i suoi difetti, come tutti i geni. Trovare e cestinare. Di
questo si tratta"
Comunque credo di condividere di più quello che scrisse di lei Franco
Zeffirelli: "quella voce ci affascinò come un sortilegio, un prodigio
che non si poteva definire in alcun modo, la si poteva soltanto
ascoltare come prigionieri di un incantesimo, di un turbamento mai
esplorato prima. Ma non si può rendere appieno la tempesta di emozioni
che suscitava in chi l'ascoltava per la prima volta. Perché Maria è un
regalo di Dio che non si può definire nel tempo: Maria c'è sempre stata
e ci sarà per sempre"
Federico Fellini (1920 – 1993)
Per Federico, feci pubblicare con la Lato Side nel 1980 una monografia
con il diario di lavorazione del suo film "La città delle donne" curata
da Sonia Schoonejans con la prefazione del nostro amico Alberto Moravia.
Con quella vocina femminile piena di tenerezza che poteva uccidere, mi
diceva sempre: ma lo sai che prima o poi dovrai cedere alla tua anima
cialtrona e fregnacciara più segreta per imparare a non perdere tempo a
dimostrare qualcosa ma per mostrare quello che non capirai mai.
Una volta a Claudio Castellacci arrivò a dire: "avevo sempre sognato, da
grande, di fare l'aggettivo. Ne sono lusingato. Cosa intendano gli
americani con "felliniano" posso immaginarlo: opulento, stravagante,
onirico, bizzarro, nevrotico, fregnacciaro. Ecco, fregnacciaro è il
termine giusto"
In un altra intervista dichiarò : "non faccio un film per dibattere tesi
o sostenere teorie. Faccio un film alla stessa maniera in cui vivo un
sogno.
Che è affascinante finché rimane misterioso e allusivo ma che rischia di
diventare insipido quando viene spiegato".
Naturalmente era impossibile dargli ragione come mi spiegò una volta
Giulio Andreotti che lo adorava ma era più bravo di lui a prenderlo per
il culo, ma pur cercando di salvaguardare quel poco di decenza
individuale che Federico tentava sempre di farti dimenticare per poi
vampirizzarti, sarebbe stato troppo sciocco non farsi prendere dalla
meraviglia dei suoi film ma anche del suo modo di inventarli e
dirigerli.
Fra la marea d'idiozie scritte su di lui anche da gente molto capace
come Martin Scorsese "non basta chiamarlo regista, era un maestro" o
Piero Citati "capiva tutto al volo: anche quello che non avevo ancora
pensato" l'unica che mi abbia veramente commosso fu Mina: "ogni tanto
Dio sembra che si risvegli dall'assenza, dal torpore in cui appare
avviluppato, o in cui noi lo abbiamo costretto, e accadono i miracoli,
che non hanno niente a che vedere con le Madonnine che lacrimano sangue,
ma che si esprimono nella dimensione concreta di certi uomini. Sono
quelle genialità imprevedibili, quelle umanità inspiegabili coi criteri
razionalistici, che innestano un pezzetto di cielo nella nostra
quotidianità.
Capita solo qualche volta nell'arco di un secolo.
Ma capita. Il miracolo della grazia che talvolta si incarna in una
precisa personalità artistica è quello che ci fa dire che Dio non si è
dimenticato di noi.
E la controprova del genio sta nel fatto che gli viene tutto facile, che
la melodia scorre come l'acqua di un ruscello e si fissa sul
pentagramma, come per Mozart che non aveva bisogno di cancellature.
Come per Fellini che ha avuto il dono di una enorme facilità espressiva
e in più si sentiva investito di quella felicità tipica dell'uomo che si
accorge che l'immagine interiore aderisce perfettamente alla forma
visiva.
E noi, il pubblico, ne percepiamo immediatamente il valore e la
grandezza"
Anche se il Dio di Mina preferisco chiamalo Tutto la penso esattamente
come lei
Marcello Mastroianni
(1924 – 1996),
Nacque il 28 settembre il mio amico Marcello Mastroianni, e disse nel
1996 in "Mi ricordo, sì, io mi ricordo" un film diretto da Anna Maria
Tatò: "oggi è il mio compleanno. Compio settantadue anni. Be', è una
bella età. Quando ne avevo venti, immaginando un uomo di settantadue
anni, l'avrei visto come un vecchio bacucco. Ma io non mi sento così
vecchio. Forse perché ho avuto la fortuna di lavorare, senza sosta.
Credo di aver superato i centosettanta film: un bel record. Quindi l'ho
ben riempita, la mia vita. Mi posso contentare. Insisto: sono
fortunato".
Per lui Federico Fellini riuscì a dire, almeno una volta la verità:
"Marcello è un magnifico attore. Ma è soprattutto un uomo di una bontà
incantevole, di una generosità spaventosa. Troppo leale per l'ambiente
in cui vive. Gli manca la corazza, certi pescicagnacci che conosco io
sono pronti a mandarselo giù in un boccone"
Marcello dopo aver detto "pensate quello che ci siamo inventati per non
lavorare" sempre in "Mi ricordo, sì, io mi ricordo" ebbe il coraggio di
fingersi anche una persona seria "il testo va rispettato nelle sue
virgole, va approfondito, perché tutto è nella parola", basta bere
Marcellino gli avrebbe detto Federico ed io sento la voce del fantasma
di Suso Cecchi D'Amico; "non ha mai studiato un copione. Ha sempre
cercato, per quanto possibile, di non leggerlo neppure. A lui piace
andare in giro, si adatta con estrema facilità a qualsiasi ambiente. Non
è di quelli che con la testa tra le mani si concentrano per entrare nel
personaggio, come De Niro. Mastroianni è un caso piuttosto unico, in
questo senso"
Roberto Guicciardini
Roberto, oltre ad avermi insegnato a posteggiare un automobile con una
sola mossa, fu uno dei pochissimi artisti che sanno amalgamare virtù
normalmente contrastanti: integrità morale con umorismo e una capacità
di sopportazione dei mariuoli impeccabile, profonda cultura umanista
sempre pronta ad integrarsi alle esigenze e alle tensioni della
modernità, estremo rigore che riesce a farsi dimenticare per una sua
attitudine alla leggerezza e all'espansione teatrale della fantasia che
finisce con elevare, con eguale forza il pubblico più raffinato come
quello composto da bifolchi.
Fra i suoi indubbi meriti vi è anche quello di aver proposto i
capolavori della drammaturgia del nostro cinquecento, La Clizia e La
Mandragola di Machiavelli, Il Negromante di Ariosto, la Criside di Enea
Silvio Piccolomini, “L’Ombra di Antigone” scritta dalla filosofa
spagnola Maria Zambrano e molti testi greco romani, Le Rane e Le Nuvole
di Aristofane, Elena e le Troiane di Euripide, Fedra di Seneca, non
dimenticandosi degli autori italiani come Aldo Palazzeschi del quale
mise in scena una rielaborazione del romanzo Perelà uomo di fumo,
Massimo Dursi con Il tumulto dei Ciompi ,D’ Arrigo con Horcynus Orca,
Fabio Doplicher con Il Ventre del Gigante e Pasolini con Porcile
Mario Monicelli (1915 – 2010)
Nacque il 16 maggio il mio amico Mario Monicelli, suicida come
suo padre Tomaso, fu prima fascista, poi socialista e negli ultimi anni
aderì con convinzione a Rifondazione Comunista perché riteneva che
"quello che in Italia non c'è mai stato, è una bella botta, una bella
rivoluzione, rivoluzione che non c'è mai stata in Italia... c'è stata in
Inghilterra, c'è stata in Francia, c'è stata in Russia, c'è stata in
Germania.
Dappertutto meno che in Italia. Quindi ci vuole qualche cosa che
riscatti veramente questo popolo che è sempre stato sottoposto, sono 300
anni che è schiavo di tutti" .
Ateo convinto, esortava gli amici a non coltivare speranze di nessun
genere diceva: "la speranza è una trappola, è una cosa infame inventata
da chi comanda" precisando che le grandi domande esistenziali non lo
interessavano "chi siamo e dove andiamo sono cose su cui non mi sono mai
soffermato. Quelle bischerate là servono solo ad alimentare l'angoscia".
Per poterlo frequentare, traendone piacere, non cercai mai di
comunicarli che trovavo il personaggio che si era inventato per recitare
la sua vita, molto più banale dei suoi film e delle sue sceneggiature ma
sono sicurissimo che ne fosse convinto anche lui.
Suso Cecchi D'Amico, lo considerava giustamente il re dell'understatement
e arrivò a scrivere: " Monicelli si farebbe impiccare piuttosto che
parlare di «ispirazione», di «anima», di «creatività». Non direbbe «noi
artisti» neppure sotto tortura, né farebbe mai un capriccio per ottenere
il dovuto da un produzione, ma lo farà per ottenere l'inutile, e tutto a
suo danno." Ma, a dire il vero, capitò anche a Mario d'inciampare nella
retorica del luogo comune quando, dismessa la fintissima aria da cinico,
cercò di convincerci che i suoi film erano "percorsi da un sentimento di
sconfitta, tutti film comici che finiscono con un fallimento dei
protagonisti".
Pensate a questa frase e rivedetevi "Amici Miei" ma specialmente "Il
Marchese del Grillo" e non vi sarà difficile far dire allo stesso
Monicelli quello che come regista fece dire ad Alberto Sordi: io sono
io, voi non siete un cazzo!
Aldo Palazzeschi
(1885 – 1974)
Aldo
Palazzeschi,
pseudonimo di Aldo Pietro Vincenzo Giurlani nacque a Firenze il 2
febbraio 1885.
Come Joyce passò tutta la vita a disgregare la retorica che impedisce
la pura gioia ludica di far fuori l'immagine sempre troppo seria della
letteratura.
Con "Il codice di Perelà " diede all'umanità, che si stava preparando a
massacrarsi con due guerre mondiali, un nuovo messia: l'uomo di fumo
capace di materializzarsi per vivere mille avventure fantastiche e
grottesche all'insegna del puro divertimento per poi dissolversi di
nuovo e sparire.
Ma chi era Palazzeschi che ho avuto la gioia di conoscere? Facciamolo
dire a lui stesso:
"Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell'anima mia:
"follia".
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore la tavolozza dell'anima mia:
"malinconia".
Un musico, allora?
Nemmeno.
Non c'è che una nota
Nella tastiera dell'anima mia:
"nostalgia".
Son dunque...che cosa?
Io metto una lente
Davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell'anima mia".
Naturalmente quando lo frequentai era detestato da tutta la cultura di
avanguardia.
A un certo momento scrisse al capobranco Edoardo Sanguineti: "Coloro
che furono avanguardisti cinquant'anni fa, saranno i più acerrimi nemici
degli avanguardisti d'oggi, giacché la loro avanguardia è passata alla
storia senza che se ne siano accorti, e a quella come ostriche sono
rimasti attaccati.
E dunque, caro Sanguineti, che cos'è mai questa avanguardia? " Mai
parole furono più sagge e lugimiranti!
Paolo Poli
(1929 –
2016)
lo vidi la prima volta a casa dello zio Pino Peserico quando faceva la
pubblicità per la Campari in bianco e nero, alla televisione quando
recitava le favole di Esopo, incominciai a frequentarlo tutti i giorni
quando avevo lo studio a pochi metri dalla sua casa in via del Governo
Vecchio piena di disegni del nostro comune amico Lele Luzzati.
Paolo è stato per me un vero liberale forse più convincente dello stesso
Marco Pannella perché ebbe sempre la capacità di attenersi a un rigoroso
equilibrio, reso eticamente invidiabile dall'arguzia e dalla
raffinatezza della sua profonda cultura. I
ncapace di essere retorico non sbagliava mai l'obiettivo per comunicare
il rovescio della medaglia, la natura complessa di Giano bifronte.
In un intervista, prima di morire riuscì a ridere anche di papa
Francesco: "chi se ne frega di Bergoglio. Se io sono Biancaneve.
Il Papa deve essere una strega. Altrimenti a che serve?
Un grande Papa era Luciani. Lo avevo conosciuto bene a Venezia. “Dio non
ha sesso” diceva. Pensi quanto era intelligente. Han fatto presto
infatti a toglierselo dai piedi".
Anna Proclemer
(1923 – 2013)
Anna nacque a Trento il 30 maggio, una delle donne e artiste più
straordinarie che abbia mai conosciuto, compagna per molti anni di
Giorgio Albertazzi che lei definì : " un anguilla sfuggente e
irresponsabile, sempre innocente, come un bambino criminale. Ma il bello
(il brutto) è che lui è innocente davvero. Per cui uno si trova “shadow
- boxing”, senza nemmeno la soddisfazione di poter affrontare
l’avversario a brutto muso".
La ricordo con grande affetto quando pubblicai nel 1975 per lei "La
Signorina Margherita, monologo tragico-comico per una donna impetuosa”
di Roberto Athayde, con la regia di Giorgio Albertazzi per il quale
avevo dato alle stampe l'anno prima "Il Fu Mattia Pascal" di Pirandello,
adattato per lui da Tullio Kezich.
Come sempre, partecipai alle ultime prove per poter avere in tempo utile
le fotografie dello spettacolo, ma quella volta fu veramente un
esperienza indimenticabile perché assistetti, anche con dolore, al
rapporto diventato difficile fra una coppia che credevo eterno.
Anna avrebbe dovuto interpretare solo una maestra dispotica, mentecatta
e maniaca sessuale che, raggiunta la cattedra-palcoscenico, sulle note
della cavalcata delle Walchirie, tenesse una lezione al pubblico,
trasformato in alunni di quinta elementare, con lo scopo di fargli
capire che il potere va costruito sulla paura e sulla accettazione del
sadomasochismo da parte di chi può solo subirlo.
Questo personaggio tragicomico, costruito a tavolino per far ridere,
divenne nella regia di Albertazzi, una donna vera capace di
rappresentare un carattere complesso fatto di fragilità e di prepotenza,
di dolcezza e di permalosità, di senso del dovere e di insensati
capricci infantili, di leggerissima ironia e di pesantissimo sarcasmo.
La Signorina Margherita, abbandonata la comoda maschera della brutalità
voluta da Athayde, si trasformò in quello che Giorgio pensava in quel
momento di Anna: una padrona assoluta che gli induceva terribili sensi
di colpa per la sfrenatezza dei suoi bisogni erotici e per il suon
menefreghismo nell'affrontare i problemi pratici.
Anna e Giorgio si lasciarono definitivamente due anni dopo anche se la
loro amicizia, per me vero amore, durò per sempre
Ettore Scola (1931 – 2016).
Lo incontravo spesso casualmente ma non mi sarei mai sognato di
chiedergli qualcosa, un po' perché mi intimoriva e un po' perché
presumevo che non sapesse nulla di me.
Un giorno, mentre ero seduto da Canova in Piazza Del Popolo con Federico
Fellini arrivò anche lui e mi chiese a bruciapelo se mi piacevano i suoi
film.
Gli risposi d'istinto, come fanno i bambini che conoscono la sostanza
della meraviglia: mi piacciono da pazzi!
Seguì una risata di Ettore che mi disse: "infondo questo è l'unico
complimento che qualsiasi regista vorrebbe sentirsi dire", purtroppo se
ti chiedessi di ripetere la battuta quasi sicuramente tu non saresti
capace di ripeterla e per trovare un attore che la sappia fare ci
vogliono un sacco di soldi.
Mi aveva raccontato con pochissime parole il segreto dei suoi film:
testimoniare tutte le declinazioni della meraviglia in contesti semplici
come riuscire a far dire, con l'intonazione giusta a Stefania Sandrelli
"son di Trasaghis, vicino Peonis" al portantino Nino Manfredi in
"C'eravamo tanto amati" o a Vittorio Gassman "come si era felici quando
eravate tutti imbecilli " in "La terrazza" impedendoli di giocare troppo
con la mimica facciale a scapito della "meraviglia" di quella battuta.
Una volta disse a sua figlia Silvia: "bisogna credere ai miracoli,
soprattutto quelli fatti dall'uomo e impegnarsi perché i sogni e le
utopie si realizzino".
Si è vero i suoi film mi piacciono da pazzi come mi piace da pazzi che
si sia tenuto lontano dallo scrivere la sua autobiografia.
Ettore Scola fu veramente una persona molto speciale.
.
Alida Valli (1921 – 2006)
Nacque il 31 maggio la baronessa Alida Maria Altenburger von Markenstein
und Frauenberg che prese il nome d'arte di Alida Valli, figlia del
filosofo e storico tirolese Gino e della pianista istriana Silvia
Obrekar, fu lontana parente di Antonio Fogazzaro, figlio di Mariano a
sua volta figlio di Giovanni Battista marito della contessa Adelaide
Bortolazzi sorella di Giuseppina che sposò il suo prozio Pietro
Altenburger von Markenstein und Frauenberg.
Per uno strano caso della vita vinse il premio come migliore attrice
alla Mostra del Cinema di Venezia per l'interpretazione di Luisa Rigey
nel film del 1941 "Piccolo mondo antico" diretto da Mario Soldati nello
stesso anno che moriva l'aviatore Carlo Cugnasca suo amore mitizzato.
In una intervista scrisse di quell'esperienza: "recitavo in uno dei film
più dolorosi e belli della mia carriera, Piccolo mondo antico. Dove una
donna, Luisa, persa la sua unica figlia, smarrisce la ragione e si
esilia dal mondo.
Piangevo come una vite tagliata durante le riprese, e me la prendevo con
me stessa, mi torturavo.
Tu non sai più cos’è la finzione e cos’è la realtà, mi dicevo.
Sei sicura di piangere la fine di Carlo quando, davanti alla macchina da
presa, ti disperi per la fine di Ombretta? ".
Da queste poche righe non è difficile capire che Alida visse solo di
recitazione perché oltre a piangere "come una vite tagliata" si
consolava alla grande con l'aiuto regista Dino Risi che raccontò qualche
anno più tardi: "me ne innamorai subito, ricambiato.
Uno spiantato senza arte né parte come me, erano tutti incazzati, a
partire da Mario Soldati"
Per i suoi molti amori fu chiama la fidanzata d'Italia e alla sua morte
il mio amico Indro Montanelli scrisse per lei un epitaffio: " Qui per la
prima volta Alida Valli giace sola"
La incontrai brevemente solo due volte: in un ristorante a Busseto dove
recitava per "Novecento" di Bernardo Bertolucci e a Roma con Dado
Trionfo che l'aveva conosciuta sul set di Ossessione quando faceva
l'aiuto per Visconti e che per tutta la vita cercò di coinvolgerla
riuscendoci soltanto nel 1988 quando mise in scena La città morta, di
Gabriele D'Annunzio, spettacolo al quale partecipò anche Raffaella Azim.
Per finire questa breve nota su Alida mi affido, con gratitudine, alle
parole di Italo Moscati che la conobbe bene: "Un sorriso brillante e
timido. capelli fluenti ricci, onde vanitose, modellate dalle carezze.
Occhi grandi, sotto gli archi, su un naso discreto e presente, una bocca
disegnata per i baci di ogni tipo. Scollatura invisibile, promettente
con il suo timido alludere. Alida, tra le attrici belle, che non sono
poche, che devono molto alla bellezza, che hanno sedotto e tradito nella
finzione e nella realtà. Alida era, è tra le più affascinanti e cariche
di risentimento".
Luchino Visconti
(1906 –
1976)
Luchino Visconti di Modrone, che incontrai la prima volta nel 1968 ad
una cena all'
Hotel Punta
Rossa, di San
Felice Circeo
dove aveva riunito gli attori per il suo film
"La caduta degli dei",
nacque a Milano il 2 novembre del 1906 e, in quest'epoca priva di
"stupore", dove anche i fiori della decadenza sono appassiti, sarebbe
bene che il suo spirito tornasse fra i vivi.
Una mediocre epoca di chiacchiericcio moralista ha bisogno del suo
demone immoralista capace di far conoscere agli artisti l'azzardo dei
bisogni non primari, lo sconfinamento in uno spazio dove l'economia e la
politica siano, per il tempo di una rappresentazione, ridotte al
silenzio.
Luchino seppe farci vedere la MERAVIGLIA dove sarebbe stato difficile
aspettarcela: nel contrasto fra l'omicida Massimo Girotti e la saggia
puttana Dhia Cristiani in Senso: nella disgregazione della famiglia
Valastro nella Terra trema; nei travestimenti femminili di Helmut Berger
e nelle sue crudeli devianze sessuali nella Caduta degli dei;
nell'illusione di Dirk Bogarde che si tinge i capelli per conservare la
giovinezza in Morte a Venezia: in Silvana Mangano che interpreta la
passione proibita fra Cosima von Bülow e Wagner in Ludwig: nel tema
sottilissimo del disincanto in Gruppo di famiglia in un interno;
nell'umanissima gelosia omicida di Giancarlo Giannini nell'Innocente.
In tutte queste opere si vive la magia di un autore che si mette sempre
dalla parte degli spiriti che lo sovrastano: Thomas Mann, Jean Renoir,
Giuseppe Verdi, Arturo Toscanini, Jean Cocteau, cercando però di farli
rivivere nel suo corpo. il corpo che gli servì per domare i cavalli
nella sua giovinezza, amare donne come Coco Chanel, Clara Calamai, Maria
Denis, Marlene Dietrich, Elsa Morante e uomini come Dado Trionfo, Franco
Zeffirelli e Helmut Berger.
Cesare Zavattini (1902 – 1989)
Nacque il 20 settembre il mio amico scrittore, poeta, sceneggiatore,
giornalista e commediografo Cesare Zavattini, direttore editoriale della
Mondadori fino al 1939. dopo la guerra realizzò con Vittorio De Sica,
una ventina di film, fra i quali Sciuscià , Ladri di biciclette e
Miracolo a Milano, tratto dal suo romanzo Totò il buono e Umberto D,
collaborando in seguito con altri registi del calibro di Rossellini,
Antonioni, Fellini, Visconti, Germi, Monicelli per un totale di 80 film.
Per lui la cultura significò "creazione di vita" e Salvatore Quasimodo
gli diede ragione quando disse: ogni incontro, discorso, paesaggio si
trasforma attraverso la voce di Zavattini in categoria della sua anima
che agisce in armonia con la natura e la società".
La sua collega e comune amica, Suso Cecchi D'Amico ne tracciò in poche
righe carattere e aspetto: "Zavattini aveva il fisico massiccio di un
contadino, con mani bellissime, lunghe, agili, che muoveva in
continuazione a commento del discorso. Aveva un buffo modo di parlare, e
occhi azzurri e sporgenti, con i quali io sostenevo che ipnotizzasse i
produttori"
Ho sempre condiviso con Cesare il fastidio per i nichilisti e per chi ha
paura di mettersi in gioco parlando di se stesso: "un conto è
demitizzare e un conto è demolire.
Il problema è di scrivere atti di cultura per cui ogni uomo sia portato
alla consapevolezza quotidiana di se stesso.
E poi, l'autobiografismo affrontato sul serio è uno dei pochi modi
rimastici per conoscere gli altri".
|